Prego ego
L’ultima foresta è nel
dormiveglia. Altrimenti ci si trova in un avventuroso videoesausto. Mentre il
mondo è apparentemente tutto esplorato, e le pieghe dell’inesplorato sono già
comprese nel vizio della convenzione. Quindi una foresta unica, tra sé e sé, se
non si è visti da nessuno, se non si deve dirlo a nessuno, un intrico cerebro
vegetale: elastici tronchi nervosi, nell’immaginario romanzo che li considera
tuttavia come fossili, bianchi e freddi. E andando avanti le ramificazioni si
abbassano in un oscuro venato. Si riesce ad andare avanti, senza gambe,
attraverso gli ostacoli che non sono ostacoli per chi li proietta.
Questa foresta ha uno scopo, è
una promessa di raggiungimento e scoperta, dato che l’oggetto perseguito
sottinteso non può apparire subitaneamente
isolato ma deve nascere da un involucro, da questo intrico di evolvente
apprensione, anche se il percorso in fondo è fermo, sviluppando di volta in
volta nel medesimo luogo.
Così, dopo aver descritto in modo
suffuso qualcosa di un ricordo illustrato (la foresta che cinge e serra dei
templi perduti) ecco che la vegetazione, le radici, le liane, vanno a
contornare un contenuto edificio, ovvero vanno a costituire il guscio modulato
di un vuoto.
Come si entra in questo vuoto?
L’architettura simmetrica a curve digradanti dell’intorno non ha aperture, ma
l’apertura è mentale, con una appena
torbida fitta tra gli occhi che apre un ambiente a volta, nel suo
regolare sussulto circolare, contenendo un silenzioso grigiore immobile.
Il suolo del luogo si solleva in
una prominenza che dà base all’oggetto raggiunto.
Questo suolo è coperto da un raso
prato grigio che coincide con la rasa capigliatura irta in crescita nel proprio
mal di testa.
Si erge, dal centro della
prominenza, la scultura dell’idea dell’idolo.
È una figura seduta a terra a
gambe incrociate, il busto eretto, con le braccia che si incontrano al di sotto
del petto nelle mani che, sporgendo da larghe maniche, si fondono tra loro in
un unico dorso. Ma tutto l’insieme della figura è come teso in un congiungersi
simmetrico di due parti, con le volute dei panneggi che, ampie in basso, si
stringono verso l’alto fino a estinguersi fasciando le curve delle spalle. Ci
si aspetterebbe che le mani, in questa posa ieratica, siano congiunte nella
consueta appuntita verticalità di preghiera, ma è invece, inaspettatamente, e
questo è il particolare che impressiona, la testa a essere appiattita
verticale, in due lisce valve congiunte. È la testa che mono emana la
sensazione di un racchiuso assunto, in un biconvesso bianco spento che si
adombra in un grigio più intenso verso il basso. È una testa che prega in
essenziale, rivolta a…? In un senso di tedio, che soffonde l’intera sagoma,
mentre ci si sente oppressi da una implosa estesa densità di vuoto.
Pregare per l’infinito, estraneo
e di cui si fa parte, attraverso il proprio idolo (io dolo): apprensione
egocentrica nell’infimo proprio infinito.
Si prende allora il reperto, lo
si porta via. Si ruba, anche se è cosa di propria appartenenza? Si ottiene
quello che covava imperturbato. Viene messo su un mobile in camera da letto. Si
può guardarlo stando a letto. Non ha necessità di un lumino che gli stia
davanti. Anzi è meglio se l’immagine non si vede in quanto la devozione è
appagata nell’immagine già compresa, che rende sazietà non aspirando a oltre.
Tuttavia qualche volta ci si
specchia nell’oggetto idolo. La mattina ci si alza e si fa un leggero inchino
alla presunta cosa esposta, che risponde inghiottita nel proprio io.
La caratteristica di questo io
devoto, andando avanti nel tempo, è una mestizia solitaria, con un andamento un
po’ ingobbito che risente di un aspetto in petto.
Ci si trova a essere un religioso
egobbista.