LE VIE DEL RACCONTO
BRUNO CONTE
 

 

Prego ego

 

L’ultima foresta è nel dormiveglia. Altrimenti ci si trova in un avventuroso videoesausto. Mentre il mondo è apparentemente tutto esplorato, e le pieghe dell’inesplorato sono già comprese nel vizio della convenzione. Quindi una foresta unica, tra sé e sé, se non si è visti da nessuno, se non si deve dirlo a nessuno, un intrico cerebro vegetale: elastici tronchi nervosi, nell’immaginario romanzo che li considera tuttavia come fossili, bianchi e freddi. E andando avanti le ramificazioni si abbassano in un oscuro venato. Si riesce ad andare avanti, senza gambe, attraverso gli ostacoli che non sono ostacoli per chi li proietta.

Questa foresta ha uno scopo, è una promessa di raggiungimento e scoperta, dato che l’oggetto perseguito sottinteso non può apparire subitaneamente  isolato ma deve nascere da un involucro, da questo intrico di evolvente apprensione, anche se il percorso in fondo è fermo, sviluppando di volta in volta nel medesimo luogo.

Così, dopo aver descritto in modo suffuso qualcosa di un ricordo illustrato (la foresta che cinge e serra dei templi perduti) ecco che la vegetazione, le radici, le liane, vanno a contornare un contenuto edificio, ovvero vanno a costituire il guscio modulato di un vuoto.

Come si entra in questo vuoto? L’architettura simmetrica a curve digradanti dell’intorno non ha aperture, ma l’apertura è mentale, con una appena  torbida fitta tra gli occhi che apre un ambiente a volta, nel suo regolare sussulto circolare, contenendo un silenzioso grigiore immobile.

Il suolo del luogo si solleva in una prominenza che dà base all’oggetto raggiunto.

Questo suolo è coperto da un raso prato grigio che coincide con la rasa capigliatura irta in crescita nel proprio mal di testa.

Si erge, dal centro della prominenza, la scultura dell’idea dell’idolo.

È una figura seduta a terra a gambe incrociate, il busto eretto, con le braccia che si incontrano al di sotto del petto nelle mani che, sporgendo da larghe maniche, si fondono tra loro in un unico dorso. Ma tutto l’insieme della figura è come teso in un congiungersi simmetrico di due parti, con le volute dei panneggi che, ampie in basso, si stringono verso l’alto fino a estinguersi fasciando le curve delle spalle. Ci si aspetterebbe che le mani, in questa posa ieratica, siano congiunte nella consueta appuntita verticalità di preghiera, ma è invece, inaspettatamente, e questo è il particolare che impressiona, la testa a essere appiattita verticale, in due lisce valve congiunte. È la testa che mono emana la sensazione di un racchiuso assunto, in un biconvesso bianco spento che si adombra in un grigio più intenso verso il basso. È una testa che prega in essenziale, rivolta a…? In un senso di tedio, che soffonde l’intera sagoma, mentre ci si sente oppressi da una implosa estesa densità di vuoto.

Pregare per l’infinito, estraneo e di cui si fa parte, attraverso il proprio idolo (io dolo): apprensione egocentrica nell’infimo proprio infinito.

Si prende allora il reperto, lo si porta via. Si ruba, anche se è cosa di propria appartenenza? Si ottiene quello che covava imperturbato. Viene messo su un mobile in camera da letto. Si può guardarlo stando a letto. Non ha necessità di un lumino che gli stia davanti. Anzi è meglio se l’immagine non si vede in quanto la devozione è appagata nell’immagine già compresa, che rende sazietà non aspirando a oltre.

Tuttavia qualche volta ci si specchia nell’oggetto idolo. La mattina ci si alza e si fa un leggero inchino alla presunta cosa esposta, che risponde inghiottita nel proprio io.

La caratteristica di questo io devoto, andando avanti nel tempo, è una mestizia solitaria, con un andamento un po’ ingobbito che risente di un aspetto in petto.

Ci si trova a essere un religioso egobbista.








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