LETTURE
WALTER PEDULLÀ
      

Giacomo Debenedetti, interprete dell’invisibile

 

Venezia, Marsilio, 2015, pp. 282, € 25,00

    

      


di Ugo Piscopo

 

 

Un intellettuale plurale, un plurale che è un intellettuale: Giacomo Debenedetti.

Un’illuminante densa sosta (ulteriore) di Pedullà su Giacomino

 

Giacomo Debenedetti (1901-1967), chi era costui? Ci dà l’imbeccata con la notissima domanda Don Abbondio, perciò la riproponiamo tale e quale riguardo a uno dei più significativi intellettuali del ’900, postosi su un versante di modernità vissuta quale un esperimento azzardoso, ma ineludibile su di sé, come in corpore vili. Certo, c’è anche una modernità ornamentale, bellettristica,

epigonica, da nicchia. Ma, questa, non era la modernità per Debenedetti, cioè non era, non è la modernità in assoluto. Per questa scelta di campo, il personaggio Debenedetti ha dovuto pagare degli scotti onerosissimi. In quanto situazione complessa in divenire, non rassicurante e non pregiudizialmente rassicurata, non poteva che generare intorno a sé fascino, particolarmente presso i giovani che ne venivano calamitati, e, insieme, disagio e inquietudine presso la società che si faceva/si fa custode dell’esistente, quale sistema di controllo e di dominio. Perciò, lui, un resistente per vocazione, si caricava di accensioni e di tensioni e si proiettava nella vita, negli studi, nella relazionalità col mondo della cultura anche artistica (musica, cinema, spettacolo in generale) per verificare e testimoniare una vicenda aperta, a rischio, senza reti di protezione. I custodi dell’ordine naturalmente ne diffidavano e lo respingevano ai margini, come nell’ambito universitario, dove lui aveva tutte le carte in regola non solo per avervi cittadinanza e residenza da addetto ai lavori, ma anche per insegnare qualcosa di fondamentale  a tante otri piene di vento che vi si impiantano a maestri e padroni. I concorsi all’università non potevano non andargli male e gli andarono male. Fu professore sì, ma incaricato, cioè collaterale e in via provvisoria. E questo, fino agli ultimi anni di vita. Il primo incarico lo ebbe a Messina, dove generosamente lo chiamò il Rettore, Salvatore Pugliatti (anche lui fine intenditore di musica, ma pure di poesia moderna, non per nulla era molto amico di Salvatore Quasimodo). Nel dargli l’incarico, Pugliatti lo avvisò : “Se non siete almeno in cinque, niente lezione, per parlare in quattro basta un tavolino, la cattedra è troppo”.

Una rivisitazione seria, molto ravvicinata e oggettivamente motivata, di questo personaggio scomodo, prima che per gli altri, a sé stesso, d’altra parte suggestivo di lievitazioni di gusto e di ricerca fondamentali in Italia per i destini della modernità della letteratura (da intendere come nella Nouvelle Critique francese del secondo Novecento), ce la dà fresca di stampa Walter Pedullà, con un volume, che resterà essenziale negli studi: Giacomo Debenedetti interprete dell’invisibile.

Pedullà è già intervenuto, né poteva non intervenire su Giacomino, per un denso reticolo di interrelazioni, che fanno di lui un alter ego di quel geniale pioniere e difensore della tradizione del nuovo nel nostro Paese e che, insieme, fanno di Debenedetti (in controluce e à rebours) un alter ego di Pedullà. Egli ne ha parlato e scritto in molteplici occasioni e in molteplici ambiti, dall’Università alle riviste, ai convegni, ai libri (si veda, tra l’altro, nei suoi volumi: Le letteratura del benessere, ed. Bulzoni,  Le caramelle di Musil, ibidem, e Racconta il Novecento, ed. Rizzoli, passim. Ma si veda anche il vol. collettaneo I Maestri e la memoria, ed. Bulzoni). Ma ne ha parlato/ne parla soprattutto e più incisivamente ancora, quando non ne parlava/non ne parla esplicitamente, quando lo ascoltava/lo ascolta in silenzio, quando lo portava/lo porta sulle sue stesse gambe nella vita quotidiana.

Adesso, raccoglie in volume altri decisivi saggi debenedettiani, (mentre tralascia tante altre pagine sul medesimo argomento disseminate in maniera militante su numerosi fogli), disposti, dopo una nota-saggio prefativa, tutta accensioni aforistiche e allusioni a lontananze consonanti tra loro, che ordinariamente sfuggono alla sensibilità del nostro Zeitgeist, su assi indirizzati a formare solide griglie ermeneutiche per la proposta di un nuovo profilo, anzi di un vero e proprio profilo nuovo. Di Debenedetti, naturalmente, come saggista attrezzato e originalissimo, come prosatore elegantissimo e intrigante, come maestro di vita e di cultura, come professore impareggiabile a dispetto dei dispetti e delle diffidenze dei professori titolari e di lungo corso, erettisi e venerati come numi tutelari dell’aurea mediocritas. I vari saggi, entro tale strategia, non restano saggi a sé o piccole monografie, quali essi erano nel contesto delle sedi originarie, ma interreagendo fra loro e d’impulso di accorti interventi dell’autore, diventano capitoli fra loro organici e integrativi per lo svolgimento di un discorso solido e insieme aperto verso vari obiettivi.

I quali, in sintesi, sono: 1. una ricognizione complessivamente di scavo e di illuminazione di aspetti intercettati velocemente o non intercettati per l’innanzi da chi scrive, perché una ricerca genuina non si alimenta di tautologie o di recuperi di materiali di riporto, funziona invece come work in progress, come avventura in svolgimento; 2. un intervento energico di reazione più che legittima nei confronti di ricostruzioni altrui recenti e meno recenti piuttosto riduttive, imbalsamanti e perfino distorsive, se il profilo di Debenedetti viene ridotto a quello di un’erma che guarda all’indietro, piuttosto che en avant; 3. un’inquisizione sull’attualità di una vicenda densa di spunti e di palpitanti vibrazioni, che appartengono anche a noi, anche all’oggi e al domani, e di cui l’immaginario collettivo deve riappropriarsi, pena lo slittamento verso la banalizzazione delle ipotesi e delle soluzioni; 4. una consegna a futura memoria per tutti, ma particolarmente per i giovani, di ampliare e approfondire le ricerche avviate, che, se hanno risolto o stanno per risolvere dei problemi, è, qualunque sia il grado di consapevolezza degli operatori, per porre nuovi e maggiori problemi, per guardare per latitudini più vaste e inclusive.

L’operazione Debenedetti di Pedullà è non un sasso lanciato nello stagno, ma un sasso lanciato in avanti di sfondamento, di provocazione. Di sostegno appassionato a una nuova cultura che sia nuova, non tanto nelle intenzioni e nelle dichiarazioni di massima, quanto nei fatti.

Egli, però, non affida il discorso a teorizzazioni e a topiche astratte o metafisiche, ma cala il discorso (vichianamente, debenedettianamente) nel concreto della storia, nella verità degli accadimenti e delle prassi, se verum e factum vanno a braccetto, come sostiene l’autore della Scienza nuova.

Il verum et factum nell’operazione di Pedullà si identifica con una avventura culturale di carattere sperimentale e di ascolto del modificarsi in atto delle ricerche, che si storicizza  in Italia tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta del secolo scorso in ambito letterario e dintorni. È l’avventura di un intellettuale, Debenedetti, il quale è un Debenedetti che non si concede il lusso di guardarsi allo specchio e di compiacersi un attimo di sé, è fuoco che si brucia dall’interno come possono essere gli ingegni che tengono un piede sul cavallo della progettualità lucida e coerente e l’altro sul cavallo della passione della relazionalità viva col mondo, con gli altri. È un Debenedetti matrioska, dentro il quale stanno uno nell’altro più profili: lo studioso, il narratore che viene scoprendosi nei suoi esercizi di lettura, il palombaro che ama scendere nelle profondità del vivere e dello scrivere, il critico che sa sempre più nettamente e argomentatamente che non esiste un solo modulo di critica e che questa nel presente deve costituirsi su molteplici saperi (dall’ambito stilistico-retorico a quello psicoanalitico e delle archeologie dell’umano, a quello delle scienze matematiche e contermini), familiarizzando quindi con canali intercomunicanti e con assaggi di sinergie (e di sinestesie). E, fra gli altri e con gli altri, non può non starci, nella matrioska, l’uomo in quotidiano, dialettico flusso di conversazioni con giovani e con adulti, con maschi e con femmine, con allievi e con maestri di allievi.

A complicare la vicenda, già implementata di molteplici tensioni, interviene il fatto che a narrare e a rappresentare la vicenda è uno che si è formato all’ombra di questa avventura, restandone fortemente segnato, e dentro il quale brucia egualmente un fuoco vulcanico come quello del Maestro. È Walter Pedullà, che per parlare di Debenedetti deve parlare, non per spocchia, ma per necessità storica di sé e parlando di sé deve parlare di un’intera generazione.

Così, il libro è il tracciato dell’autoanalisi di un intero gruppo. E il gruppo è costituito da molti personaggi, che sono più di sei, quei sei che si pongono in essere sulla scena in un esemplare dramma pirandelliano, alla ricerca non tanto di sé, quanto dell’autore. E, se proprio volessimo scoprirlo, questo autore, non sarebbe difficile, perché non ama autonominarsi a voce, ma si firma col nome di LETTERATURA.

                                                                                              

 




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