LETTURE
GUALBERTO ALVINO
      

L’apparato animale

 

Torino, Robin Edizioni, 2015, pp. 146, € 10,00

    

      


di Mario Lunetta

 

 

Per Gualberto Alvino, transpoeta

 

L’uomo Alvino, italiano quanto basta che pure inalbera senza alcuna iattanza il prenome Gualberto, di sapore germanicamente arcaico, è in realtà un alchimista plurimo della più caotica e forsennata contemporaneità che senza tregua fa precipitare nei suoi alambicchi spiralici mix a variazione inesauribile di elementi di sempre spuria natura, dalla sfera vegetale a quella chimica, da quella somatica a quella onirica, da quella più venefica a quelle più fragorosamente o più silenziosamente esplosive/evanescenti: e ancora, e più, sempre sotto i morsi di una fame insaziabile, insaziata. Fame di parole, naturalmente; di nessi sintattici repentinamente scorciati o interrotti (come in un coitus rabelaisiano che lasci l’attesa senza soddisfazione, crudelmente): perché l’Alvino sunnominato, o se più piace il Gualberto inalberato, dilata senza tregua la sua selva verbale, il suo bosco di pensieri, la sua foresta di significanze estensivamente profferte o ‒ alla pari ‒ urbanamente latenti, secondo una rete strategica che tutto avvolge facendosi come per magìa cappa impenetrabile allestita su una giusta mancanza di pietà e di languorosa partecipazione (che non costa poi troppo, francamente): per farsi violenta, efferata cronistoria trasversale di un mondo inenarrabile che scoppia e deflagra nella sua stupida orgia di orrori, nefandezze, imbecillità ecc. semplicemente per manco di consapevolezza. Che, naturaliter, è in Alvino assoluta, sia nel suo progetto che nel suo dargli forma. Una forma sistematicamente piena, carica di fatti, di cose e soprattutto di cose corporee, dal momento che la presenza del sesso in questa poesia assai densamente poematica ‒ e si direbbe senza pause ritmiche eppure piena di pause di riflessione e di pensiero-verbo che si conta ferocemente le pustole sulla sua propria pelle ‒ è manifestazione di ciò che potremmo definire Prevalenza della Materia: principio princeps in un materialista della caratura di Gualberto Alvino.

Del resto, a partire dal titolo del libro (L’apparato animale, uscito nel febbraio 2015 per la collana di poesia «Robin» diretta da Mario Quattrucci ‒ e che si avvale di una brillante introduzione di Giovanni Fontana che scorre, scarta, vola quasi in sfida parallela al testo poetico), la parola riafferma la propria corporeità, anche nella sua stessa mancanza di risarcimenti imponderabili e/o immateriali. Facendosi voce che mangia se stessa, cerebro che collutta con le proprie membrane più accese. Sì, perché L’apparato animale è un libro che non cessa di bruciare il suo proprio diaframma, per ululati, grida, sentenze di gran tono sempre pronte comunque a sghignazzare di se stesse volgendo la tragedia in beffa, la sciagura in farsa. È l’impero del carnevale perpetuo sotto il segno del grande Bachtin e il beneplacito dell’incommensurabile Rabelais, ma tutto ributtato sull’oggi più repellente e più vile, dove la mancanza di misura è la sola misura per chi, come Alvino, tratta la scrittura come materia dinamica, mai come entità sovrana intrisa di spiriti contemplativi.

L’unica sovranità che uno come lui, ermeneuta, filologo, critico di raffinatissima acuzie, e narratore, e poeta (se vogliamo ancora servirci di queste partizioni di genere che alla fine servono solo a nascondere l’inoccultabile vigore di una scrittura che si dice senza pudori in tutto il suo sarcasmo incapace di quiete), è quella del furor di cui il linguaggio si pasce con avidità sapiente e sapienza mai satolla, percorrendo in praesentia del qui e ora una quantità di strade, tratturi, sentieri, piste umane e bestiali «per città e per foresta» (direbbe Benjamin); e insieme, con stringentissima compattezza e sgretolamenti delle architetture compositive in cui la proposizione può all’improvviso bloccarsi a metà percorso, allusivamente o minacciosamente, o chiudersi con un nonsense, oppure il verso catapultarsi contro una muraglia invisibile soltanto sospettata. In questo processo in cui tutto c’è tranne la sublimazione dei fenomeni e dei concetti (versavice), le fratture non stracciano il saldissimo ordito della tessitura che il gran clericus Gualberto attraversa in un gioco d’infralingua semplicemente formidabile, chiamando all’appello appunto nel suo strepitoso paraulare le lingue cosiddette morte e le presunte vive, nella coscienza lucidissima che assai spesso nel nostro oggi così appestato di gergalismi pubblicitari che durano lo spazio di un mattino le prime siano più resistenti e affidabili delle seconde.

Per cui ecco a rissoso convegno certe riesumate scritture che sanno di sapori predanteschi accanto a rilanci vernacolari, ecco certe tramature di specialismi teorici, ecco il riaffacciarsi del latino (magari reinventato, fors’anche tenendo conto degli esilaranti, irrispettosi esempi di Emilio Villa), ecco certi tratti dello spagnolo presente nelle cronache dei Conquistadores, e altro, altro a iosa, altri passi nutriti di definizioni tecniche soprattutto letterario-erudite, che tre o quattro volte suonano come inserzioni di drastica intenzione al modo di vere e proprie dichiarazioni di poetica, come ad esempio in Pepe: «sembra incredibile ma un etimo / non si cerca si trova / dal cerchio al centro da questo a quello / conferendogli una sua propria tonalità / svolta al difuori d’analisi di stile / libero completamente scevro da / interferenze perturbatrici / con foga d’enigmista / sbrogliando il bandolo dell’arruffata matassa / tutto un viluppo d’immagini ciascuna con un suo / aroma quelle dei sogni non sono più accese / s’organizzano in gruppi spesso in conflitto fra loro / e pensare che non possono fare a meno / l’uno dell’altro del resto si capisce / i deboli cercano i deboli / forti non ve ne sono tuttavia le corazze / parrebbero d’ottima lega / ma non bisogna credere che l’ermeneutica / sia deformazione è un controsenso / posto che l’opera non è forma è tensione / si dice l’interpretazione è tanto / più autentica quanto più evita / consegnarsi alla distorsione / chiede perché l’opera deva diventar parte / del nostro presente non saprei ma sia chiaro / fin d’ora che lo sconfinato amore per la lingua / rivendico il diritto d’affermare / in piena scienza e coscienza / è il primo movimento di un percorso / florebat olim / a raggiera in mille direzioni / che ne sarà del ciliegio?».

Appunto, e d’accordo pienamente: l’opera non è forma chiusa nella sua inerte eleganza ma tensione implacabile, per cui la buona letteratura non è un ‘essere’ ma un ‘fare’, non un discorso in bell’assetto ma ‒ sic et simpliciter ‒ un attraversamento armato del senso comune nel quale tutto si pacifica e si sfarina in puro suono titillatorio. La categoria della conflittualità, che anima con tanta forza L’apparato animale, è certo un punto fermo non negoziabile di tutta l’attività creativa, esegetica, filologica di Gualberto Alvino: documentarsi per credere. Ecco dunque perché i suoi autori sono Jacopone e Guittone, i due Guidi, Machiavelli, Vico, Foscolo, Leopardi e pochi altri, fino a Gadda, Sanguineti e all’amatissimo Pizzuto. Altra compagnia pìcciola potrebbe aggiungere chi scrive, ma ci siamo comunque capiti, ovviamente, sapendo che Alvino è perfettamente consonante.

Ricordiamoci quindi, dopo aver goduto della lettura del suo libro che impegna in ogni verso a fare i conti con la legittimi delle proprie convinzioni e la resistenza di certe proprie predilezioni figurali e ideologiche, di riaffermare contro l’ipocrita ondata a-ideologica che tenta da tempo di sommergerci negando· vilmente evidenza e coscienza, che in poesia nessuna bellezza può permettersi di andare esente da una Weltanschauung critica che ne sorregga la passione e lintelligenza: proprio perché, come la letteratura non è solo quella che è ma quella che ha il coraggio di negare affermativamente la relegazione del proprio status storico, lideologia può essere quel che deve essere, per intelligenza e inesausta avventura, negando le proprie possibili ripetitività dogmatiche. Non cessando, insomma, di farsi senza tregua metodo lungimirante e dialetticamente aperto: proprio perché la parola è sempre parte profonda del nostro apparato animale, materia sempre rimateriata di ciò che si vede e di ciò che si nasconde, per gioco o per giocosa catastrofe, nella luce e nel gorgo.

 

 

 

4 maggio 2015




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