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di Mario
Lunetta
Per Gualberto Alvino,
transpoeta
L’uomo Alvino, italiano quanto basta che pure inalbera
senza alcuna iattanza il prenome Gualberto, di sapore germanicamente arcaico, è
in realtà un alchimista plurimo della più caotica e forsennata contemporaneità
che senza tregua fa precipitare nei suoi alambicchi spiralici mix a variazione
inesauribile di elementi di sempre spuria natura, dalla sfera vegetale a quella
chimica, da quella somatica a quella onirica, da quella più venefica a quelle
più fragorosamente o più silenziosamente esplosive/evanescenti: e ancora, e
più, sempre sotto i morsi di una fame insaziabile, insaziata. Fame di parole,
naturalmente; di nessi sintattici repentinamente scorciati o interrotti (come
in un coitus rabelaisiano che lasci l’attesa senza soddisfazione, crudelmente):
perché l’Alvino sunnominato, o se più piace il Gualberto inalberato, dilata
senza tregua la sua selva verbale, il suo bosco di pensieri, la sua foresta di
significanze estensivamente profferte o ‒ alla pari ‒ urbanamente
latenti, secondo una rete strategica che tutto avvolge facendosi come per magìa
cappa impenetrabile allestita su una giusta mancanza di pietà e di languorosa
partecipazione (che non costa poi troppo, francamente): per farsi violenta,
efferata cronistoria trasversale di un mondo inenarrabile che scoppia e
deflagra nella sua stupida orgia di orrori, nefandezze, imbecillità ecc.
semplicemente per manco di consapevolezza. Che, naturaliter, è in Alvino assoluta, sia nel suo progetto che nel suo
dargli forma. Una forma sistematicamente piena, carica di fatti, di cose e
soprattutto di cose corporee, dal momento che la presenza del sesso in questa
poesia assai densamente poematica ‒ e si direbbe senza pause ritmiche
eppure piena di pause di riflessione e di pensiero-verbo che si conta
ferocemente le pustole sulla sua propria pelle ‒ è manifestazione di ciò
che potremmo definire Prevalenza della Materia: principio princeps in un materialista della caratura di Gualberto Alvino.
Del resto, a partire dal titolo del libro (L’apparato animale, uscito nel febbraio
2015 per la collana di poesia «Robin» diretta da Mario Quattrucci ‒ e che
si avvale di una brillante introduzione di Giovanni Fontana che scorre, scarta,
vola quasi in sfida parallela al testo poetico), la parola riafferma la propria
corporeità, anche nella sua stessa mancanza di risarcimenti imponderabili e/o
immateriali. Facendosi voce che mangia se stessa, cerebro che collutta con le
proprie membrane più accese. Sì, perché L’apparato
animale è un libro che non cessa di bruciare il suo proprio diaframma, per
ululati, grida, sentenze di gran tono sempre pronte comunque a sghignazzare di
se stesse volgendo la tragedia in beffa, la sciagura in farsa. È l’impero del
carnevale perpetuo sotto il segno del grande Bachtin e il beneplacito dell’incommensurabile
Rabelais, ma tutto ributtato sull’oggi più repellente e più vile, dove la
mancanza di misura è la sola misura per chi, come Alvino, tratta la scrittura
come materia dinamica, mai come entità sovrana intrisa di spiriti contemplativi.
L’unica sovranità che uno come lui, ermeneuta,
filologo, critico di raffinatissima acuzie, e narratore, e poeta (se vogliamo
ancora servirci di queste partizioni di genere che alla fine servono solo a
nascondere l’inoccultabile vigore di una scrittura che si dice senza pudori in
tutto il suo sarcasmo incapace di quiete), è quella del furor di cui il linguaggio si pasce con avidità sapiente e sapienza
mai satolla, percorrendo in praesentia del
qui e ora una quantità di strade, tratturi, sentieri, piste umane e bestiali «per
città e per foresta» (direbbe Benjamin); e insieme, con stringentissima
compattezza e sgretolamenti delle architetture compositive in cui la
proposizione può all’improvviso bloccarsi a metà percorso, allusivamente o
minacciosamente, o chiudersi con un nonsense, oppure il verso catapultarsi
contro una muraglia invisibile soltanto sospettata. In questo processo in cui
tutto c’è tranne la sublimazione dei fenomeni e dei concetti (versavice), le fratture non stracciano
il saldissimo ordito della tessitura che il gran clericus Gualberto attraversa
in un gioco d’infralingua semplicemente formidabile, chiamando all’appello
appunto nel suo strepitoso paraulare le lingue cosiddette morte e le presunte
vive, nella coscienza lucidissima che assai spesso nel nostro oggi così
appestato di gergalismi pubblicitari che durano lo spazio di un mattino le
prime siano più resistenti e affidabili delle seconde.
Per cui ecco a rissoso convegno certe riesumate scritture
che sanno di sapori predanteschi accanto a rilanci vernacolari, ecco certe
tramature di specialismi teorici, ecco il riaffacciarsi del latino (magari
reinventato, fors’anche tenendo conto degli esilaranti, irrispettosi esempi di
Emilio Villa), ecco certi tratti dello spagnolo presente nelle cronache dei
Conquistadores, e altro, altro a iosa, altri passi nutriti di definizioni
tecniche soprattutto letterario-erudite, che tre o quattro volte suonano come
inserzioni di drastica intenzione al modo di vere e proprie dichiarazioni di
poetica, come ad esempio in Pepe: «sembra
incredibile ma un etimo / non si
cerca si trova / dal cerchio al
centro da questo a quello / conferendogli
una sua propria tonalità / svolta al
difuori d’analisi di stile / libero
completamente scevro da / interferenze
perturbatrici / con foga d’enigmista
/ sbrogliando il bandolo
dell’arruffata matassa / tutto un
viluppo d’immagini ciascuna con un suo / aroma
quelle dei sogni non sono più accese / s’organizzano
in gruppi spesso in conflitto fra loro / e
pensare che non possono fare a meno / l’uno
dell’altro del resto si capisce / i
deboli cercano i deboli / forti non
ve ne sono tuttavia le corazze / parrebbero
d’ottima lega / ma non bisogna
credere che l’ermeneutica / sia
deformazione è un controsenso / posto
che l’opera non è forma è tensione / si
dice l’interpretazione è tanto / più
autentica quanto più evita / consegnarsi
alla distorsione / chiede perché
l’opera deva diventar parte / del
nostro presente non saprei ma sia chiaro /
fin d’ora che lo sconfinato amore per la lingua / rivendico il diritto d’affermare / in piena scienza e coscienza /
è il primo movimento di un percorso / florebat olim / a raggiera in mille direzioni /
che ne sarà del ciliegio?».
Appunto, e d’accordo pienamente: l’opera non è forma chiusa nella sua inerte eleganza
ma tensione implacabile, per cui la
buona letteratura non è un ‘essere’ ma un ‘fare’, non un discorso in bell’assetto
ma ‒ sic et simpliciter ‒
un attraversamento armato del senso
comune nel quale tutto si pacifica e si sfarina in puro suono titillatorio. La
categoria della conflittualità, che anima con tanta forza L’apparato animale, è certo un punto fermo non negoziabile di tutta
l’attività creativa, esegetica, filologica di Gualberto Alvino: documentarsi
per credere. Ecco dunque perché i suoi autori sono Jacopone e Guittone, i due Guidi, Machiavelli, Vico, Foscolo, Leopardi e pochi altri, fino a Gadda, Sanguineti e all’amatissimo Pizzuto. Altra compagnia
pìcciola potrebbe aggiungere chi scrive, ma ci siamo comunque
capiti, ovviamente, sapendo che Alvino è perfettamente consonante.
Ricordiamoci quindi, dopo aver goduto della lettura del suo libro che impegna in
ogni verso
a fare i conti con la legittimità delle proprie
convinzioni e la resistenza di certe proprie predilezioni figurali
e ideologiche, di riaffermare contro l’ipocrita
ondata a-ideologica che tenta da tempo di sommergerci negando· vilmente evidenza e coscienza, che in poesia
nessuna bellezza può permettersi di andare
esente da una Weltanschauung
critica che ne sorregga la passione e l’intelligenza: proprio
perché, come la letteratura non è solo quella che è ma quella che ha il coraggio di negare affermativamente la relegazione del proprio status storico, l’ideologia può essere quel che deve essere, per intelligenza e inesausta avventura, negando le proprie
possibili ripetitività dogmatiche. Non cessando, insomma, di farsi senza tregua metodo
lungimirante e dialetticamente aperto: proprio perché
la parola è sempre parte
profonda del nostro apparato animale,
materia sempre rimateriata di ciò che si vede e di ciò che si nasconde, per gioco o per giocosa catastrofe, nella luce e nel gorgo.
4 maggio 2015
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