LETTURE
ALFONSO LENTINI
      

Illegali vene


100 esemplari numerati con interventi manuali dell’autore

e nota introduttiva di Eugenio Lucrezi


Corato, Collana CentodAutore

a cura di Rossana Bucci e Oronzo Liuzzi,

Eureka Edizioni, dicembre 2014

    

      


di Saverio Vasta

 

 

Illegali vene di Alfonso Lentini è, fin dall'inizio, la ricerca di un codice comune per decifrare l’esistenza umana dispersa nel “dilatato parlatorio / di ospedale, caserma, aeronave” (pag. 8) che è il nostro tempo. Farsi varco tra le macerie, creare un contatto, liberare la propria voce: un appello accorato che l’“io” rivolge a un “tu” che sta altrove, in un luogo indefinito, altrettanto fragile e precario. 

Il “difficile lago di parole” dei primi versi non è un corso d’acqua incontrollato soggetto alla foga della piena, ma il segno di un espandersi e oscillare entro un confine di senso. C’è, fin dall’inizio, una verticalità vertiginosa – resa da un ritmo incalzante, da una versificazione accorta e da punteggiatura minima – che, in un gioco di sottili affinità e riflessi, sembra voler liberare dal superfluo il sedimento, il residuo fisso: quella parte, insomma, che richiede un “approfondimento”, uno sforzo ulteriore d’indagine, un “oltre” (“dimmi dei rami esclusi dalla foto / della parte mancante”, pag. 8; e ancora “parlami del tuo nero, a precipizio / fra l’orizzonte mobile e la mosca / caduta nel bicchiere”, pag. 9).

In questo tentativo di comunicazione a distanza, che scorre sui fili di una connessione digitale e insieme analogica, solo le parole – graffi sui muri o graffiti sulla carne (“scrivo... dalla carne di un muro”, pag. 7) – possono forse scovare (e “scavare”) se non altro “una lucina rossa ancora accesa” (pag. 9), un segno di vita. L’“io” esorta l’“altro” (altra) a restituire un segnale, un indizio da un osservatorio altrettanto precario (“quadrante che non quadra”, “allunaggio / sbagliato” pag. 9) o alternativo (“dai margini del foglio / dalla parte tagliata della foto”, pag. 15), ma forse più libero (“dal lato disabile e scosceso”; “là dove senza frontiere / tutto è oriente / e tutto è luminoso / e senza peso”, pag. 13),  per “poi sciogliere i nodi / allentare gli elastici...” (“con le dita fuori campo fuori fuoco... stana gli impulsi elettrici, i fosfeni”, pag. 18), recuperare una voce che sia umana (... “implora che si aggreghi una voce” pag. 11), con cui godere del mistero che fa l’uomo osservatore stupito di un universo indecifrabile, luogo geografico e interiore nello stesso tempo.

È forse ancora possibile guardare al di là, far filtrare la luce, riemergere (o far riemergere) dal buio, eludere la rete che imprigiona (“ma cosa seleziona, cosa salva / a cosa si connette, a cosa...” pag. 11), per trovare un contatto, un segnale, un indizio “fra questo ammassamento di ferrami catrame chiodi viti macchie d’uovo”? I versi conclusivi sembrano consegnare il miraggio di un ritrovamento, il reperto di uno scavo da cui “viene fuori una vela / tutta intera”. In una dimensione, però, – forse l’unica possibile? – che appare più onirica che reale (pag. 21).

 

******

 

Da Illegali vene


***

scrivimi in fermo immagine
usa l’acqua salata
per bagnare la pagina

e cancella. Scampata 
alla luce, al macello,
a voci crocifisse,
l’impronta del cerchio permane

ora solo permane
l’eclisse

 

***

 

nel display brilla solo

mezza palpebra, un’unghia

un dettaglio di neve:

allora dimmi

 

dimmi dei rami esclusi dalla foto

della parte mancante

 

raccontami dei tagli alle montagne

dimmi di questo moto provvisorio

intorno al vuoto:

la caduta simultanea delle mani

in questo dilatato parlatorio

di ospedale, caserma, aeronave

 

 

***

 

ma cosa seleziona, cosa salva

a cosa si connette, a cosa, questa

calma resurrezione, specchio d’alba

a cosa riconduce

 

è un riassunto di luce

che ti annusa dai vetri ogni mattina

e implode e implora

che si aggreghi una voce

a una mano più nuova

 

 

***

avrai camicie d’aria
stivali risuonanti suoni ciechi
l’ossigeno che sfugge dall’argilla
ti offrirà un suo sollievo

avrai illegali vene 
e un nome sullo sfondo
un cubo trasparente che contiene
l’incertezza del mondo


***

 

ti scrivo a mano aperta

ma da un cinque, ma dal lato

sinistro, dalla mano

che traccia un capogiro

righe e piume proibite, ma ti scrivo

dal lato disabile e scosceso

che permane

là dove senza frontiere

tutto è oriente

e tutto è luminoso

e senza peso

 

 

***

stanotte sui monti d’Atlante
fievoli supernove 
rilasciano bagliori
invisibili agli occhi
e rilasciano suoni per mosche, 
scarabocchi
di traiettorie
per tigri, per gibboni, per giraffe
inseguono sott’acqua le oloturie 

 

 

***

 

ho scavato nell’orto. Con le dita

azzannavo la terra e respiravo

il suo nero. Dal buco

qualche folla affiorava:

un giocattolo antico

uno specchio di latta, un vecchio chiodo

conficcato in un pezzo di cuoio.

 

E scava ancora e scava:

una candida cocca. La strappo,

viene fuori una vela

tutta intera

 

 




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