di Saverio Vasta
Illegali vene
di Alfonso Lentini è, fin dall'inizio, la ricerca di un codice comune per
decifrare l’esistenza umana dispersa nel “dilatato parlatorio / di ospedale,
caserma, aeronave” (pag. 8) che è il nostro tempo. Farsi varco tra le macerie,
creare un contatto, liberare la propria voce: un appello accorato che l’“io”
rivolge a un “tu” che sta altrove, in un luogo indefinito, altrettanto fragile
e precario.
Il
“difficile lago di parole” dei primi versi non è un corso d’acqua incontrollato
soggetto alla foga della piena, ma il segno di un espandersi e oscillare entro
un confine di senso. C’è, fin dall’inizio, una verticalità vertiginosa – resa
da un ritmo incalzante, da una versificazione accorta e da punteggiatura minima
– che, in un gioco di sottili affinità e riflessi, sembra voler liberare dal
superfluo il sedimento, il residuo fisso: quella parte, insomma, che richiede
un “approfondimento”, uno sforzo ulteriore d’indagine, un “oltre” (“dimmi dei
rami esclusi dalla foto / della parte mancante”, pag. 8; e ancora “parlami del
tuo nero, a precipizio / fra l’orizzonte mobile e la mosca / caduta nel
bicchiere”, pag. 9).
In
questo tentativo di comunicazione a distanza, che scorre sui fili di una
connessione digitale e insieme analogica, solo le parole – graffi sui muri o
graffiti sulla carne (“scrivo... dalla carne di un muro”, pag. 7) – possono
forse scovare (e “scavare”) se non altro “una lucina rossa ancora accesa” (pag.
9), un segno di vita. L’“io” esorta l’“altro” (altra) a restituire un segnale,
un indizio da un osservatorio altrettanto precario (“quadrante che non quadra”,
“allunaggio / sbagliato” pag. 9) o alternativo (“dai margini del foglio / dalla
parte tagliata della foto”, pag. 15), ma forse più libero (“dal lato disabile e
scosceso”; “là dove senza frontiere / tutto è oriente / e tutto è luminoso / e
senza peso”, pag. 13), per “poi
sciogliere i nodi / allentare gli elastici...” (“con le dita fuori campo fuori
fuoco... stana gli impulsi elettrici, i fosfeni”, pag. 18), recuperare una voce
che sia umana (... “implora che si aggreghi una voce” pag. 11), con cui godere
del mistero che fa l’uomo osservatore stupito di un universo indecifrabile,
luogo geografico e interiore nello stesso tempo.
È
forse ancora possibile guardare al di là, far filtrare la luce, riemergere (o
far riemergere) dal buio, eludere la rete che imprigiona (“ma cosa seleziona,
cosa salva / a cosa si connette, a cosa...” pag. 11), per trovare un contatto,
un segnale, un indizio “fra questo ammassamento di ferrami catrame chiodi viti
macchie d’uovo”? I versi conclusivi sembrano consegnare il miraggio di un
ritrovamento, il reperto di uno scavo da cui “viene fuori una vela / tutta
intera”. In una dimensione, però, – forse l’unica possibile? – che appare più
onirica che reale (pag. 21).
******
Da Illegali vene:
***
scrivimi in fermo immagine
usa l’acqua salata
per bagnare la pagina
e cancella. Scampata
alla luce, al macello,
a voci crocifisse,
l’impronta del cerchio permane
ora solo permane
l’eclisse
***
nel
display brilla solo
mezza
palpebra, un’unghia
un
dettaglio di neve:
allora
dimmi
dimmi
dei rami esclusi dalla foto
della
parte mancante
raccontami
dei tagli alle montagne
dimmi
di questo moto provvisorio
intorno
al vuoto:
la
caduta simultanea delle mani
in
questo dilatato parlatorio
di
ospedale, caserma, aeronave
***
ma
cosa seleziona, cosa salva
a
cosa si connette, a cosa, questa
calma
resurrezione, specchio d’alba
a
cosa riconduce
è
un riassunto di luce
che
ti annusa dai vetri ogni mattina
e
implode e implora
che
si aggreghi una voce
a
una mano più nuova
***
avrai camicie d’aria
stivali risuonanti suoni ciechi
l’ossigeno che sfugge dall’argilla
ti offrirà un suo sollievo
avrai illegali vene
e un nome sullo sfondo
un cubo trasparente che contiene
l’incertezza del mondo
***
ti
scrivo a mano aperta
ma
da un cinque, ma dal lato
sinistro,
dalla mano
che
traccia un capogiro
righe
e piume proibite, ma ti scrivo
dal
lato disabile e scosceso
che
permane
là
dove senza frontiere
tutto
è oriente
e
tutto è luminoso
e
senza peso
***
stanotte sui monti d’Atlante
fievoli supernove
rilasciano bagliori
invisibili agli occhi
e rilasciano suoni per mosche,
scarabocchi
di traiettorie
per tigri, per gibboni, per giraffe
inseguono sott’acqua le oloturie
***
ho
scavato nell’orto. Con le dita
azzannavo
la terra e respiravo
il
suo nero. Dal buco
qualche
folla affiorava:
un
giocattolo antico
uno
specchio di latta, un vecchio chiodo
conficcato
in un pezzo di cuoio.
E
scava ancora e scava:
una
candida cocca. La strappo,
viene
fuori una vela
tutta
intera
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