LETTERATURE MONDO
DIARIO DA HONG KONG (2)
Se la libertà è sempre, ovunque sotto il controllo di qualcuno

      
Un dottorando italiano presso l’Università di Leeds è andato in visita di studio presso l’ateneo della grande città orientale. E ci racconta qui delle sue giornate e dei suoi incontri. Come l’intervista con il quasi settantenne fotografo e viaggiatore Leung Ka Tai, premiato come Artista dell’anno nel 1991. Passando poi alla visione del documentario “Citizen Four” di Laura Poitras sulla vicenda di Edward Snowden e lo scandalo spionistico della NSA. Ancora a colloquio con Pak Sheung-Chuen, altro originale artista-viaggiatore che ha esposto nel 2009 alla Biennale-Arte di Venezia. Tuffandosi, quindi, nella movida notturna hongkonghese per riemergerne all’alba in stato di ebrezza alcolica.
      




   

 

di Stefano Calzati

 

 

Seconda Parte

 

21 Aprile

 

Ieri – vestendo abiti più formali – sono ritornato al Foreigners Correspondents’ Club (dove avevo già incontrato lo scrittore Jason Y Ng). Potrei quasi abituarmici, alla tersa e distinta atmosfera del club, farne il mio secondo ufficio. Dopotutto, Hollywood Road, che si inerpica poco distante lungo i primi rilievi della city, offre come contesto una tale varietà di locali, ristoranti e street food banquets che è capace di addomesticare qualsiasi capriccioso sussulto dell’esprit. Inoltre, L’Asian Art Archive, nel quale mi reco almeno una volta a settimana per fare ricerca, si trova ad appena una ventina di minuti di cammino. Sicché, si potrebbe dire, ricerca ed edonismo trovano infine, in questi pochi chilometri di diametro, un loro stabile equilibrio, a miscelare scenari iper-urbani e paesani; congiure di vicoli, verande, cantieri, pinnacoli.

L’occasione per ritornare all’FCC è stata l’intervista con il fotografo e viaggiatore Leung Ka Tai. Artista distinto, Leung ha esposto i suoi lavori sia a Hong Kong che all’estero, e nel 1991 ha ricevuto il premio come Hong Kong Artist of the Year. Mi sono interessato al suo lavoro poiché Leung, dopo una fuga di lavoro e d’istruzione in Europa, all’inizio degli anni Ottanta è ritornato a Hong Kong, sua città natale, per poi intraprendere un viaggio-reportage nella Cina continentale della durata di svariati anni. Da quest’esperienza sono sbocciati diversi progetti, uno dei quali – o meglio, quello che mi interessava maggiormente – è On China: One to Twenty Four, un volume che presenta una rigida selezione di 24 scatti di viaggio, tutti accompagnati da una poesia dello scrittore Leung Ping Kwan (scomparso nel 2013), tradotte in inglese dallo stesso Leung. Allo stesso tempo, va detto, Leung non ha mai davvero interrotto i suoi viaggi, ma ha continuato a esplorare e fotografare il suo paese e il mondo intero (ultimamente è stato cinque mesi in Sudamerica) esponendo periodicamente i risultati. Di conseguenza, nella mia intervista ho cercato, pur avendo come centro focale il suddetto volume, di allargare gradualmente l’orbita delle mie domande arrivando a toccare anche i suoi lavori più recenti come Nako and Beyond (dedicato a un paese sull’altopiano tibetano) e Hong Kong from the Back (il suo sito personale Camera22 li raccoglie tutti, comprese le collaborazioni con magazine e riviste, tra cui National Geographic, Newsweek, Time, Paris Match).

L’intervista con Leung è stata un crescendo. Leung è una persona assai timida; i suoi stessi lavori trasmettono un intimismo del quotidiano che non può che derivare dalla sensibilità circospetta del suo sguardo. All’inizio dell’intervista, dunque, temendo fors’anche un eccessivo teoricismo delle mie domande, il suo sguardo è rimasto a lungo nelle retrovie, talvolta proiettato altrove, talvolta celato dai due avambracci puntati a cavalletto sul tavolino e inarcati a chiudere le mani a triangolo. A tal modo, l’ovale del suo volto mi ritornava per continue scomposizioni geometriche, quasi mi fosse richiesto di ricomporre la figura e lo stato d’animo di quell’artista quasi settantenne tanto disponibile ad accettare la mia intervista, quanto propenso all’assenza in loco. Eppure, imparando anche dalle interviste condotte in questi mesi, ho intuito ben presto che la sua non era una timidezza altezzosa, ma piuttosto una sincera deferenza verso se stesso e il proprio lavoro; una timidezza, dunque, che richiedeva di essere dissipata gradualmente, coltivando un dialogo al di là delle domande. Interviews, after all, are rarely about questions and answers and much more about mood. Leung, in effetti, è un soggetto che, una volta stabilite le proprie retoriche certezze, ostenta un certo gusto per l’ironia, che non disdegna di sfociare, seguendo la più dissacrante tradizione Cantonese, in commenti salaci e pungenti. Non ha mancato, per esempio, di dimostrarmi un irriverente pietismo quando gli ho detto che ho vissuto gli ultimi due anni e mezzo a Leeds: “Poor you! I have been there three days a long time ago, to pay visit to a friend of mine… When I left I was so relieved!

A quel punto, confrontando specularmente i rispettivi itinerari, la discussione ha raggiunto Parigi, una città dove entrambi abbiamo vissuto: “I would go back there tomorrow if I could, but my wife doesn’t speak French, so it would be an issue. I can’t complain about Hong Kong, after all…” “Indeed, you can’t!” ho replicato, giacché Hong Kong non mi pare certo un compromesso al ribasso… “But what about mainland China?”; “Hong Kong shares so many things with China”, mi dice Leung, “but then the first time I went there I realized that what I had learnt in schoolbooks about our common cultural and historical background was to remain on paper… They are so different!” La Cina e Hong Kong: culture simili, eppure sempre diverse; terre affratellate per forza o necessità, e tuttavia isolate reciprocamente; società tremendamente proiettate verso un progresso che annienta ambiente, campagne, paesi e, in ultimo, finanche se stesso e, al contempo, ancora portatrici e protettrici di tradizioni e di stili di vita secolari: “China has changed a lot recently, but mainly on a material level”, sentenzia Leung, “I believe that the attitude and the esprit of Chinese people have not changed that much, after all…”





Leung Ka Tai, Potala Afternoon, 1983


24 Aprile

 

L’altra sera, la Cinemathèque di Hong Kong aveva in programma la première del documentario Citizen Four. Citizen Four è un documentario spiazzante. Ed è tale, credo, non tanto per ciò che denuncia – ovvero ciò che potenzialmente rivela – sullo scandalo che ha coinvolto la National Security Agency (NSA) a seguito della denuncia, da parte dell’ex membro Edward Snowden, delle pratiche illegali di mappatura dei dati di milioni di cittadini americani perpetrate dall’ente. Piuttosto, credo si tratti di un documentario spiazzante per la prospettiva da cui la regista Laura Poitras è riuscita a narrare la storia. Il documentario è, in effetti, una sorta di retrospettiva che ripercorre le ultime giornate da libero cittadino di Edward Snowden, attraverso gli incontri che questi ha avuto con la regista stessa e il giornalista del Guardian Glenn Greenwald, ai quali Snowden aveva deciso di consegnare le informazioni in suo possesso sulle attività dell’NSA prima di denunciarsi apertamente sulla scena pubblica.

Nel documentario Snowden ostenta un pragmatismo scevro di retorica, ma non per questo a-ideologico; una efferata concretezza di pensiero che lascia infine lo spettatore – o quantomeno ha lasciato il sottoscritto – da solo davanti ad alcune spaventose domande; spaventose giacché la loro genesi, se si osa ammetterlo, si trova, in fondo, nella quotidiana pigrizia dei nostri atteggiamenti. Ogni libertà è frutto di un controllo, ovvero di una coercizione più o meno repressiva che non solo delimita i confini di tale libertà, ma ne presuppone le basi. Si tende a pensare – lascito illuminista – che la libertà sia l’assenza di determinate restrizioni; oppure, in maniera più morbida, si ipotizza che un certo controllo sia necessario al fine di circoscrivere e difendere una precisa forma di libertà. Tuttavia, ciò che il documentario dimostra – temo – è una tesi ben più radicale: la libertà d’espressione – e con essa la libertà di segretezza e secretazione di sé (privacy) – vengono concesse proprio perché controllate. E dunque: cosa sappiamo, come cittadini, di questo controllo? Poco; di certo non tutto. Ma il punto critico è il successivo: perché, anche quando sappiamo di questo controllo, ovvero quando veniamo a conoscenza della sua deriva, pur indignandoci, non riusciamo a correggere le nostre abitudini? Quale vortice triviale e istintuale divora la capacità di milioni di persone di difendersi? È la comodità? L’egocentrismo? Perché continuiamo a esporre al mondo coriandoli irrilevanti della nostra esistenza? Non sarebbe meglio un po’ di silenzio? Perché accettiamo di essere tracciabili e rintracciabili dovunque e in ogni momento? Non mi si risponda, per carità, che lo facciamo perché non abbiamo nulla da nascondere. Il problema è altrove, chiaramente; ed è ben più grande e ben più complesso. Non possiamo accettare la nostra mortale normalità? La banalità del quotidiano e la circospezione di anonime settimane incatenate una di seguito all’altra?

Il fatto che una larga parte degli eventi raccontati nel film abbiano avuto come scenografia il Mira Hotel di Hong Kong, dove le interviste tra Snowden, Poitras e Greenwald hanno effettivamente avuto luogo prima della fuga di Snowden in Russia, ha aggiunto un che di controverso all’intera storia. It all happened here. Ed ecco che, al riguardo, alcune domande del pubblico alla regista (durante il dibattito che ha seguito la proiezione), mi hanno mostrato un’aperçus delle paure e delle insicurezze innominabili della gente di Hong Kong, nonché del loro rapporto con l’autorità. È stato in quel preciso momento che ho avuto la possibilità di catturare un’impressione della lacerata attitudine con la quale gli hongkonghesi si posizionano nel loro rapporto con la Cina (la Cina continentale, per intenderci). Ovviamente, si tratta di un’attitudine che, lontano dal riguardare esclusivamente la vicenda di Snowden, retrocede verso il passato coloniale della città e si proietta nelle odierne, alterne relazioni con il potere centrale di Pechino. Da un lato, dalle domande filtrava un certo orgoglio allorché la gente veniva a sapere che Snowden aveva scelto espressamente Hong Kong come sede dell’incontro con Poitras e Greenwald per le libertà e le tutele giuridiche di cui gli stranieri possono godere qui. Dall’altro lato, a traspirare era un certo senso d’inadeguatezza per il ruolo e la responsabilità che tale scelta implicava. Appena al di sotto della superficie espressiva delle domande ho potuto avvertire una muta confessione di insicurezza e una silente richiesta di rassicurazione: avrebbero, le autorità di Hong Kong, potuto fare di più? O meglio? Cosa dovremmo fare noi, come cittadini, nei confronti delle restrizioni coatte dei diritti civili perpetrati in Cina? Per la verità, penso che quella stessa introspezione, pur tacita, abbia rappresentato già un esempio cristallino di prassi politica, ovvero di politica che si fa nell’atto stesso in cui viene dichiarata denunciata; di certo, una prassi che manca in molte altre parti del mondo. Il problema, allora, diventa un altro: non tanto come stimolare la consapevolezza, ma come mantenerla viva e attiva. Quanti spettatori, al termine della proiezione, hanno controllato i loro smartphone (pur sapendo che sono intercettati)? Davvero non ci importa nulla? E cosa dire di me, di queste mie parole, della libertà espressiva che esse – apparentemente – portano in dote, nonché della libertà di cui mi avvalgo per elucubrare e viaggiare liberamente in Cina? Non sarebbe meglio un po’ di silenzio, almeno un silenzio temporaneo che sia capace di restituire alle parole il loro giusto peso?

Riporto queste poche parole della regista; parole che mi hanno colpito e, forse, anche ferito: “‘Edward Snowden told us that he knew against what kind of power he was fighting; he knew and calculated the risk; he purposely did not want to hide; that’s why he decided to go public. But he also told me another more unsettling thing: ‘If I commit suicide’, he said, ‘keep investigating because I have no intention to kill myself.'” Ecco l’incommensurabile compito col quale l’artista deve confrontarsi: riuscire, dopo una tale confessione, a nascondere il proprio sguardo dietro una macchina da presa (o dietro una penna, o un pennello) e, lucidamente, immortalare il volto, la voce e le idee di un potenziale uomo morto.

Mentre ascoltavo Poitras, ho associato istintivamente la situazione di Edward Snowden a quella di Roberto Saviano. I punti di contatto, in fondo, sono più d’uno: una vita di segregazione; la difesa differenze. Snowden ha smascherato le devianze autoritaritarie di un potere formalmente legale o, quantomeno, legalizzato (l’amministrazione americana); Saviano ha squarciato l’omertà di cui si circonda l’affarismo mafioso in Italia e all’estero, ovvero le sue relazioni occulte, le sue pratiche illegali e immorali, nonostante la (o in forza della) connivenza e ignoranza sociale su cui spesso esse si fondano. Eppure, non stiamo forse parlando di due risvolti – due destini – che infine combaciano? Dalla prospettiva del presente, non pare, quella di Snowden e Saviano, un’unica storia raccontata da prospettive speculari? La più atroce differenza, allora, credo risieda nella consapevolezza di sé e del proprio gesto: Snowden conosceva il proprio destino, le conseguenze della propria decisione; Saviano, invece, si è visto attorniato da una scorta inattesa (e non cercata) nel volgere di pochi giorni. E forse una buona dose del dramma di Saviano sta proprio qui.





25 Aprile

 

Sabato, nell’ambito della mia ricerca, ho intervistato Pak Sheung-Chuen, un artista-viaggiatore che avevo già incontrato in una conferenza alla Baptist University of Hong Kong, tenutasi circa un mese fa. Nel 2012, Pak ha ricevuto il Contemporary Chinese Artist Award (CCAA) come migliore artista dell’anno, mentre nel 2009 è stato invitato a esporre alcune delle sue creazioni alla 53esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia.

Tra i tanti lavori di Pak, sono particolarmente interessato al suo Odd One in II: Invisible Travel, un libro che raccoglie i progetti, gli appunti e le foto di diversi viaggi che l’artista ha compiuto in vari paesi del mondo. Pak, infatti, ha viaggiato sia in terre a lui prossime, come Hong Kong e Taiwan – l’artista è originario della Cina, ma si è ormai stabilito a Hong Kong – sia in lontane regioni europee. Il suo approccio alla pratica del viaggio, mi ha confessato, si potrebbe definire “terapeutico”: Pak viaggia con lo scopo di ammorbidire le piccole noie e insofferenze che sprigionano dal quotidiano, non appena, indulgentemente, lasciamo che esso si trasformi in una cieca routine. L’aspetto intrigante dei suoi viaggi è che spesso essi rappresentano uno stimolo involontario per la creazione; o meglio: i viaggi diventano le opere stesse, ma solo se li si guarda da una prospettiva a posteriori. Quando Pak viaggia, infatti, lo fa senza avere in mente un obiettivo artistico preciso o una meta particolare; lascia che sia l’esperienza a parlargli, a mandargli dei segnali, o a disseminare degli indizi sul percorso, i quali successivamente sono “tradotti” – ricomposti – dall’artista nella concettualizzazione dell’opera. “The ordinariness of travel”, mi ha detto Pak, “can always be broken up into layers; reality should always be explored beyond its surface.”

Seguendo questo semplice principio, Pak – tra le altre imprese – ha tentato di perdersi a Torino – città nella quale “it’s impossible to get lost”, ha ammesso – ha viaggiato bendato in Malesia, confidando esclusivamente sull’olfatto, l’udito, il gusto e il tattoo per registrare nella sua memoria l’esperienza; ha stampato una mappa della città di Hong Kong sul foglio di un calendario – cosicché essa fosse suddivisa in 31 quadrati – e successivamente ha esplorato ogni giorno un quadrato diverso per un mese intero, con lo scopo di conoscere quei dettagli della città che la frenesia di ogni dì non ci permette di cogliere.

“My journeys”, Pak ha continuato, “are maybe not adventurous, but they are definitely conceptual; I delve into the practice of traveling… I dig into it, investigate it, and then I come out to the other end of the story looking at places from a different angle, as a different person.” “E cosa mi puoi raccontare della Cina?” gli ho chiesto; “I was actually born in China, but whenever I go back to my town, I feel uneasy to travel, as if not completely free; this is so despite the fact that China is my country… I guess this means I do not consider it as my home… Hong Kong is much more comfortable for me.”





Pak Sheung-Chuen, A Travel Without Visual Experience, Malaysia, 2007


29 Aprile

 

Una delle caratteristiche di Hong Kong che amo maggiormente è la molteplicità di esperienze, ambienti, tormenti, conoscenze in cui si può precipitare nello spasmo di una giornata appena. Si tratta di un riverbero intermittente che scompone e ricompone la vita secondo logiche del tutto arbitrarie e, per questo, sorprendenti. Hong Kong fonda la sua quotidianità sull’algoritmo dello stupore. La giornata di oggi ne è un esempio emblematico.

Tutto è cominciato nella mattinata. Confesso di aver saltato la lezione di cinese, poiché mi sono recato direttamente alla Chinese University of Hong Kong dove dovevo finalizzare la presentazione della mia ricerca al Dipartimento di Inglese. Per la verità, nel momento in cui sono entrato in aula per la discussione, stavo ancora cercando di smaltire l’ombrosa pesantezza di una notte insonne; eppure, se c’è un effetto positivo dell’adrenalina è quello di far svanire d’un colpo tutti gli acciacchi minori, lucidando a dovere la mente. E così è stato.

Dopo la presentazione, mi sono fiondato sull’isola per partecipate al raduno annuale degli ex-studenti dell’Università di Leeds a Hong Kong. Ovviamente, io non rientro (ancora) nella categoria, ma declinare un invito di tal sorta mi pareva irrispettoso e infausto dal punto di vista scaramantico, sicché credo di poter interpretare i calici di vino, i brindisi e la visione dello skyline della città di cui ho potuto godere dalla hall dell’Hilton Conrad Hotel, come una benedizione per la conclusione del mio dottorato. Almeno spero.

A seguito del ricevimento – il senso del dovere ormai oltre il ricordo – ecco una meritata immersione nel Monday night della city. The dark side of fieldwork, you could say. A Hong Kong, invero, non esiste alcuna sensibile flessione tra le varie serate della settimana. Quello che in quasi tutto il globo è, solitamente, un giorno di distensione – il cinema del lunedì – a Hong Kong non si discosta molto dalle nottate-cugine del weekend. Nell’alveare di vicoli, angoli e scalinate incastonato alle spalle di Central, là dove, un tempo, i francesi avevano stabilito le loro dipendenze, la vita, in effetti, non s’accuccia mai; anzi: ingurgita, rigurgita e digerisce se stessa senza alcuna interruzione. Dai balli di salsa – che in questo clima umido e tropicale ritrovano il loro spirito focoso, pur imbastardendosi in forme e movenze asiatiche – fino ai clubs – a congiurare un mix marchettaro e highbrow – passando per una sterminata varietà di pub: disco-pub, ethnic-pub, jazz-pub, sport-driven-pub. Caldo, afa, sudori, scintillanti colori; gleaming lights; birre, mojito e cuba libre come condizionatori dell’anima. The soul finds eventually its place. Il tutto, evidentemente, mentre allo scoccare delle quattro indossavo ancora le stessi vesti del mattino: un paio di jeans e camicia scura che avevano ormai raccattato dal selciato della vita un tono alquanto polveroso.

 

 

 

Hong Kong by night

 

 

Ignoro quanto ho speso; non ricordo l’orario del rientro, né la fatica delle scale per giungere all’appartamento. So che sono tornato in taxi: questo sì, lo ricordo, giacché la corsa verso casa è stata un folle rally che ha incollato le mie budella – già in uno stato non ideale – al sedile. Poi, ecco le strade familiari di Kowloon East; strade ora silenziose; il quartiere, infatti, di notte si denuda e torna villaggio; paese dalle anime assopite: forse non attraente a livello visivo – i colori della vita si stemperano e non rimane che il cemento dei palazzi anni Settanta a occupare la scena – ma affascinante sì, quantomeno per differenza rispetto allo spigoloso pullulare del dì.




Scarica in formato pdf  


   
Sommario
Letterature Mondo

Il contatore dei visitatori Shiny Stat è attivo da dicembre 2006