di Stefano Calzati
Seconda
Parte
21 Aprile
Ieri – vestendo
abiti più formali – sono ritornato al Foreigners Correspondents’ Club (dove avevo già incontrato lo
scrittore Jason Y Ng). Potrei quasi abituarmici, alla
tersa e distinta atmosfera del club, farne il mio secondo ufficio. Dopotutto, Hollywood
Road, che si inerpica poco distante lungo i primi rilievi della city, offre
come contesto una tale varietà di locali, ristoranti e street food banquets
che è capace di addomesticare qualsiasi capriccioso sussulto dell’esprit. Inoltre,
L’Asian Art Archive, nel quale mi
reco almeno una volta a settimana per fare ricerca, si trova ad appena una
ventina di minuti di cammino. Sicché, si potrebbe dire, ricerca ed edonismo
trovano infine, in questi pochi chilometri di diametro, un loro stabile
equilibrio, a miscelare scenari iper-urbani e
paesani; congiure di vicoli, verande, cantieri, pinnacoli.
L’occasione per
ritornare all’FCC è stata l’intervista con il fotografo e viaggiatore Leung Ka Tai. Artista distinto, Leung ha esposto i suoi lavori sia a Hong Kong che
all’estero, e nel 1991 ha ricevuto il premio come Hong Kong Artist of the Year. Mi sono
interessato al suo lavoro poiché Leung, dopo una fuga
di lavoro e d’istruzione in Europa, all’inizio degli anni Ottanta è ritornato a
Hong Kong, sua città natale, per poi intraprendere un viaggio-reportage nella
Cina continentale della durata di svariati anni. Da quest’esperienza sono
sbocciati diversi progetti, uno dei quali – o meglio, quello che mi interessava
maggiormente – è On China: One to Twenty Four,
un volume che presenta una rigida selezione di 24 scatti di viaggio, tutti
accompagnati da una poesia dello scrittore Leung Ping Kwan (scomparso nel 2013),
tradotte in inglese dallo stesso Leung. Allo stesso tempo,
va detto, Leung non ha mai davvero interrotto i suoi
viaggi, ma ha continuato a esplorare e fotografare il suo paese e il mondo
intero (ultimamente è stato cinque mesi in Sudamerica) esponendo periodicamente
i risultati. Di conseguenza, nella mia intervista ho cercato, pur avendo come
centro focale il suddetto volume, di allargare gradualmente l’orbita delle mie
domande arrivando a toccare anche i suoi lavori più recenti come Nako and Beyond (dedicato a un paese
sull’altopiano tibetano) e Hong Kong
from the Back (il suo sito personale Camera22
li raccoglie tutti, comprese le collaborazioni con magazine e riviste, tra cui National Geographic,
Newsweek, Time, Paris Match).
L’intervista
con Leung è stata un crescendo. Leung
è una persona assai timida; i suoi stessi lavori trasmettono un intimismo del
quotidiano che non può che derivare dalla sensibilità circospetta del suo
sguardo. All’inizio dell’intervista, dunque, temendo fors’anche
un eccessivo teoricismo delle mie domande, il suo
sguardo è rimasto a lungo nelle retrovie, talvolta proiettato altrove, talvolta
celato dai due avambracci puntati a cavalletto sul tavolino e inarcati a
chiudere le mani a triangolo. A tal modo, l’ovale del suo volto mi
ritornava per continue scomposizioni geometriche, quasi mi fosse richiesto di
ricomporre la figura e lo stato d’animo di quell’artista quasi settantenne
tanto disponibile ad accettare la mia intervista, quanto propenso all’assenza
in loco. Eppure, imparando anche dalle interviste condotte in questi mesi, ho
intuito ben presto che la sua non era una timidezza altezzosa, ma piuttosto una
sincera deferenza verso se stesso e il proprio lavoro; una timidezza, dunque,
che richiedeva di essere dissipata gradualmente, coltivando un dialogo al di là
delle domande. Interviews, after all, are rarely about questions and answers and much
more about mood. Leung, in effetti, è
un soggetto che, una volta stabilite le proprie retoriche certezze, ostenta un
certo gusto per l’ironia, che non disdegna di sfociare, seguendo la più
dissacrante tradizione Cantonese, in commenti salaci e pungenti. Non ha
mancato, per esempio, di dimostrarmi un irriverente pietismo quando gli ho
detto che ho vissuto gli ultimi due anni e mezzo a Leeds: “Poor you! I have been there three days a long time ago, to pay
visit to a friend of mine… When I left I was so relieved!”
A quel punto,
confrontando specularmente i rispettivi itinerari,
la discussione ha raggiunto Parigi, una città dove entrambi abbiamo vissuto: “I would go back there tomorrow if I could, but my
wife doesn’t speak French, so it would be an issue. I can’t complain about Hong Kong, after all…” “Indeed, you can’t!” ho replicato, giacché
Hong Kong non mi pare certo un compromesso al ribasso… “But what about mainland China?”; “Hong Kong shares so
many things with China”, mi dice Leung, “but then the first time I went there I
realized that what I had learnt in schoolbooks about our common cultural and
historical background was to remain on paper… They are so different!” La Cina e Hong Kong: culture simili, eppure sempre
diverse; terre affratellate per forza o necessità, e tuttavia isolate
reciprocamente; società tremendamente proiettate verso un progresso che
annienta ambiente, campagne, paesi e, in ultimo, finanche se stesso e, al
contempo, ancora portatrici e protettrici di tradizioni e di stili di vita secolari:
“China has changed a lot recently, but
mainly on a material level”, sentenzia Leung, “I believe that the attitude and the esprit of Chinese
people have not changed that
much, after all…”
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Leung Ka Tai, Potala Afternoon, 1983
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24 Aprile
L’altra sera,
la Cinemathèque
di Hong Kong aveva in programma la première del documentario Citizen Four. Citizen Four è
un documentario spiazzante. Ed è tale, credo, non tanto per ciò che denuncia –
ovvero ciò che potenzialmente rivela – sullo scandalo che ha coinvolto la
National Security Agency (NSA) a seguito della denuncia, da parte dell’ex
membro Edward Snowden, delle pratiche illegali di
mappatura dei dati di milioni di cittadini americani perpetrate dall’ente.
Piuttosto, credo si tratti di un documentario spiazzante per la prospettiva da
cui la regista Laura Poitras è riuscita a narrare la
storia. Il documentario è, in effetti, una sorta di retrospettiva che
ripercorre le ultime giornate da libero cittadino di Edward Snowden,
attraverso gli incontri che questi ha avuto con la regista stessa e il
giornalista del Guardian
Glenn Greenwald, ai quali Snowden
aveva deciso di consegnare le informazioni in suo possesso sulle attività
dell’NSA prima di denunciarsi apertamente sulla scena pubblica.
Nel
documentario Snowden ostenta un pragmatismo scevro di
retorica, ma non per questo a-ideologico; una efferata concretezza di pensiero
che lascia infine lo spettatore – o quantomeno ha lasciato il sottoscritto – da
solo davanti ad alcune spaventose domande; spaventose giacché la loro genesi,
se si osa ammetterlo, si trova, in fondo, nella quotidiana pigrizia dei nostri
atteggiamenti. Ogni libertà è frutto di un controllo, ovvero di una coercizione
più o meno repressiva che non solo delimita i confini di tale libertà, ma ne
presuppone le basi. Si tende a pensare – lascito illuminista – che la libertà
sia l’assenza di determinate restrizioni; oppure, in maniera più morbida, si
ipotizza che un certo controllo sia necessario al fine di circoscrivere e
difendere una precisa forma di libertà. Tuttavia, ciò che il documentario
dimostra – temo – è una tesi ben più radicale: la libertà d’espressione – e con
essa la libertà di segretezza e secretazione di sé (privacy) –
vengono concesse proprio perché
controllate. E dunque: cosa sappiamo, come cittadini, di questo controllo?
Poco; di certo non tutto. Ma il punto critico è il successivo: perché, anche
quando sappiamo di questo controllo, ovvero quando veniamo a conoscenza della
sua deriva, pur indignandoci, non riusciamo a correggere le nostre abitudini?
Quale vortice triviale e istintuale divora la capacità di milioni di persone di
difendersi? È la comodità? L’egocentrismo? Perché continuiamo a esporre al
mondo coriandoli irrilevanti della nostra esistenza? Non sarebbe meglio un po’
di silenzio? Perché accettiamo di essere tracciabili e rintracciabili dovunque
e in ogni momento? Non mi si risponda, per carità, che lo facciamo perché non
abbiamo nulla da nascondere. Il problema è altrove, chiaramente; ed è ben più
grande e ben più complesso. Non possiamo accettare la nostra mortale normalità?
La banalità del quotidiano e la circospezione di anonime settimane incatenate
una di seguito all’altra?
Il fatto che
una larga parte degli eventi raccontati nel film abbiano avuto come scenografia
il Mira Hotel di Hong Kong, dove le interviste tra Snowden,
Poitras e Greenwald hanno
effettivamente avuto luogo prima della fuga di Snowden
in Russia, ha aggiunto un che di controverso all’intera storia. It all happened here. Ed ecco che,
al riguardo, alcune domande del pubblico alla regista (durante il dibattito che
ha seguito la proiezione), mi hanno mostrato un’aperçus delle paure e delle
insicurezze innominabili della gente di Hong Kong, nonché del loro rapporto con
l’autorità. È stato in quel preciso momento che ho avuto la possibilità di
catturare un’impressione della lacerata attitudine con la quale gli hongkonghesi si posizionano nel loro rapporto con la Cina (la
Cina continentale, per intenderci). Ovviamente, si tratta di un’attitudine che,
lontano dal riguardare esclusivamente la vicenda di Snowden,
retrocede verso il passato coloniale della città e si proietta nelle odierne,
alterne relazioni con il potere centrale di Pechino. Da un lato, dalle domande
filtrava un certo orgoglio allorché la gente veniva a sapere che Snowden aveva scelto espressamente Hong Kong come sede
dell’incontro con Poitras e Greenwald
per le libertà e le tutele giuridiche di cui gli stranieri possono godere qui.
Dall’altro lato, a traspirare era un certo senso d’inadeguatezza per il ruolo e
la responsabilità che tale scelta implicava. Appena al di sotto della
superficie espressiva delle domande ho potuto avvertire una muta confessione di
insicurezza e una silente richiesta di rassicurazione: avrebbero, le autorità
di Hong Kong, potuto fare di più? O meglio? Cosa dovremmo fare noi, come
cittadini, nei confronti delle restrizioni coatte dei diritti civili perpetrati
in Cina? Per la verità, penso che quella stessa introspezione, pur tacita, abbia
rappresentato già un esempio cristallino di prassi politica, ovvero di politica
che si fa nell’atto stesso in cui viene dichiarata denunciata; di certo, una
prassi che manca in molte altre parti del mondo. Il problema, allora, diventa
un altro: non tanto come stimolare la consapevolezza, ma come mantenerla viva e
attiva. Quanti spettatori, al termine della proiezione, hanno controllato i
loro smartphone (pur sapendo che sono intercettati)?
Davvero non ci importa nulla? E cosa dire di me, di queste mie parole, della
libertà espressiva che esse – apparentemente – portano in dote, nonché della
libertà di cui mi avvalgo per elucubrare e viaggiare liberamente in Cina? Non
sarebbe meglio un po’ di silenzio, almeno un silenzio temporaneo che sia capace
di restituire alle parole il loro giusto peso?
Riporto
queste poche parole della regista; parole che mi hanno colpito
e, forse, anche ferito: “‘Edward Snowden told us that he knew against
what kind of power he was fighting; he knew and calculated the risk; he
purposely did not want to hide; that’s why he decided to go public. But he also told me another more unsettling thing: ‘If I
commit suicide’, he said, ‘keep investigating because I have no intention to
kill myself.'” Ecco
l’incommensurabile compito col quale l’artista deve confrontarsi: riuscire,
dopo una tale confessione, a nascondere il proprio sguardo dietro una macchina
da presa (o dietro una penna, o un pennello) e, lucidamente, immortalare il
volto, la voce e le idee di un potenziale uomo morto.
Mentre
ascoltavo Poitras, ho associato istintivamente la
situazione di Edward Snowden a quella di Roberto
Saviano. I punti di contatto, in fondo, sono più d’uno: una vita di
segregazione; la difesa differenze. Snowden ha smascherato
le devianze autoritaritarie di un potere
formalmente legale o, quantomeno, legalizzato (l’amministrazione americana);
Saviano ha squarciato l’omertà di cui si circonda l’affarismo mafioso in Italia
e all’estero, ovvero le sue relazioni occulte, le sue pratiche illegali e
immorali, nonostante la (o in forza della) connivenza e ignoranza sociale su
cui spesso esse si fondano. Eppure, non stiamo forse parlando di due risvolti –
due destini – che infine combaciano? Dalla prospettiva del presente, non pare,
quella di Snowden e Saviano, un’unica storia
raccontata da prospettive speculari? La più atroce differenza, allora, credo
risieda nella consapevolezza di sé e del proprio gesto: Snowden
conosceva il proprio destino, le conseguenze della propria decisione;
Saviano, invece, si è visto attorniato da una scorta inattesa (e non cercata)
nel volgere di pochi giorni. E forse una buona dose del dramma di Saviano sta
proprio qui.
25
Aprile
Sabato,
nell’ambito della mia ricerca, ho intervistato Pak Sheung-Chuen,
un artista-viaggiatore che avevo già incontrato in una conferenza alla Baptist University of
Hong Kong, tenutasi circa un mese fa. Nel 2012, Pak ha ricevuto il Contemporary Chinese Artist
Award (CCAA) come migliore artista dell’anno, mentre nel 2009 è stato
invitato a esporre alcune delle sue creazioni alla 53esima Esposizione
Internazionale d’Arte di Venezia.
Tra
i tanti lavori di Pak, sono particolarmente interessato al suo Odd One in II: Invisible Travel, un libro che raccoglie i progetti,
gli appunti e le foto di diversi viaggi che l’artista ha compiuto in vari paesi
del mondo. Pak, infatti, ha viaggiato sia in terre a lui prossime, come Hong
Kong e Taiwan – l’artista è originario della Cina, ma si è ormai stabilito a
Hong Kong – sia in lontane regioni europee. Il suo approccio alla pratica del
viaggio, mi ha confessato, si potrebbe definire “terapeutico”: Pak viaggia con
lo scopo di ammorbidire le piccole noie e insofferenze che sprigionano dal
quotidiano, non appena, indulgentemente, lasciamo che esso si trasformi in una
cieca routine. L’aspetto intrigante dei suoi viaggi è che spesso essi
rappresentano uno stimolo involontario per la creazione; o meglio: i viaggi
diventano le opere stesse, ma solo se li si guarda da una prospettiva a posteriori. Quando Pak viaggia,
infatti, lo fa senza avere in mente un obiettivo artistico preciso o una meta
particolare; lascia che sia l’esperienza a parlargli, a mandargli dei segnali,
o a disseminare degli indizi sul percorso, i quali successivamente sono
“tradotti” – ricomposti – dall’artista nella concettualizzazione dell’opera. “The ordinariness of travel”, mi ha detto Pak, “can always be broken up into layers;
reality should always be explored beyond its surface.”
Seguendo
questo semplice principio, Pak – tra le altre imprese – ha tentato di perdersi
a Torino – città nella quale “it’s impossible to get lost”, ha ammesso – ha viaggiato bendato in Malesia,
confidando esclusivamente sull’olfatto, l’udito, il gusto e il tattoo per
registrare nella sua memoria l’esperienza; ha stampato una mappa della città di
Hong Kong sul foglio di un calendario – cosicché essa fosse suddivisa in 31
quadrati – e successivamente ha esplorato ogni giorno un quadrato diverso per
un mese intero, con lo scopo di conoscere quei dettagli della città che la
frenesia di ogni dì non ci permette di cogliere.
“My journeys”, Pak ha continuato, “are maybe not adventurous, but they are
definitely conceptual; I delve into the practice of traveling… I dig into it,
investigate it, and then I come out to the other end of the story looking at
places from a different angle, as a different person.” “E cosa
mi puoi raccontare della Cina?” gli
ho chiesto; “I was actually born in China, but
whenever I go back to my town, I feel uneasy to travel, as if not completely
free; this is so despite the fact that China is my country… I guess this means
I do not consider it as my home… Hong Kong is much more comfortable for me.”
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Pak Sheung-Chuen, A Travel Without Visual Experience, Malaysia, 2007
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29 Aprile
Una
delle caratteristiche di Hong Kong che amo maggiormente è la molteplicità di
esperienze, ambienti, tormenti, conoscenze in cui si può precipitare nello
spasmo di una giornata appena. Si tratta di un riverbero intermittente che
scompone e ricompone la vita secondo logiche del tutto arbitrarie e, per
questo, sorprendenti. Hong Kong fonda la sua quotidianità sull’algoritmo dello
stupore. La giornata di oggi ne è un esempio emblematico.
Tutto
è cominciato nella mattinata. Confesso di aver saltato la lezione di cinese,
poiché mi sono recato direttamente alla Chinese University of Hong Kong dove dovevo finalizzare la
presentazione della mia ricerca al Dipartimento di Inglese. Per la verità, nel
momento in cui sono entrato in aula per la discussione, stavo ancora cercando
di smaltire l’ombrosa pesantezza di una notte insonne; eppure, se c’è un
effetto positivo dell’adrenalina è quello di far svanire d’un colpo tutti gli
acciacchi minori, lucidando a dovere la mente. E così è stato.
Dopo
la presentazione, mi sono fiondato sull’isola per partecipate al raduno annuale
degli ex-studenti dell’Università di Leeds a Hong Kong. Ovviamente, io non
rientro (ancora) nella categoria, ma declinare un invito di tal sorta mi pareva
irrispettoso e infausto dal punto di vista scaramantico, sicché credo di poter
interpretare i calici di vino, i brindisi e la visione dello skyline della
città di cui ho potuto godere dalla hall dell’Hilton Conrad Hotel, come una
benedizione per la conclusione del mio dottorato. Almeno spero.
A
seguito del ricevimento – il senso del dovere ormai oltre il ricordo – ecco
una meritata immersione nel Monday night della city. The dark side of fieldwork,
you could say. A Hong Kong, invero, non esiste alcuna
sensibile flessione tra le varie serate della settimana. Quello che in quasi
tutto il globo è, solitamente, un giorno di distensione – il cinema
del lunedì – a Hong Kong non si discosta molto dalle nottate-cugine del
weekend. Nell’alveare di vicoli, angoli e scalinate incastonato alle spalle di
Central, là dove, un tempo, i francesi avevano stabilito le loro dipendenze, la
vita, in effetti, non s’accuccia mai; anzi: ingurgita, rigurgita e digerisce se
stessa senza alcuna interruzione. Dai balli di salsa – che in questo clima
umido e tropicale ritrovano il loro spirito focoso, pur imbastardendosi in
forme e movenze asiatiche – fino ai clubs – a
congiurare un mix marchettaro e highbrow – passando per una sterminata varietà di pub:
disco-pub, ethnic-pub, jazz-pub, sport-driven-pub. Caldo, afa, sudori, scintillanti colori; gleaming lights;
birre, mojito e cuba libre come condizionatori
dell’anima. The soul finds
eventually its place. Il tutto, evidentemente, mentre allo scoccare
delle quattro indossavo ancora le stessi vesti del mattino: un paio di jeans e
camicia scura che avevano ormai raccattato dal selciato della vita un tono alquanto
polveroso.

Hong Kong by night
Ignoro
quanto ho speso; non ricordo l’orario del rientro, né la fatica delle scale per
giungere all’appartamento. So che sono tornato in taxi: questo sì, lo ricordo,
giacché la corsa verso casa è stata un folle rally che ha incollato le mie
budella – già in uno stato non ideale – al sedile. Poi, ecco le strade
familiari di Kowloon East; strade ora silenziose; il quartiere, infatti, di
notte si denuda e torna villaggio; paese dalle anime assopite: forse non
attraente a livello visivo – i colori della vita si stemperano e non rimane che
il cemento dei palazzi anni Settanta a occupare la scena – ma affascinante sì,
quantomeno per differenza rispetto allo spigoloso pullulare del dì.