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di Enrico Pietrangeli
C’era una volta
l’antifascismo, io non ne ho una memoria diretta per ragioni anagrafiche, ma
nondimeno ho sempre amato documentarmi di una pluralista aneddotica presso chi,
sui diversi fronti, li ha vissuti sulla propria pelle quei giorni che hanno
fatto la nostra storia. E forse da lì, dalla tanta curiosità e sete di storia
che ho iniziato a farmi un’idea della forma mentis degli italiani e di come
vanno le cose in questo amato e malandato Paese …
C’era chi ci credeva,
nel torto o nel giusto che fosse, ma c’era sempre onnipresente l’opportunista
di turno, la faida famigliare da consumare dietro l’angolo, l’interesse
personale da perseguire …
C’era anche chi volle
tenersi fuori da tutto questo, taluni sì per viltà e per mancanza di scelte, ma
anche chi non seppe riconoscere, pur avendo sempre fatto il proprio dovere, una
piena ragione di coscienza di fondo. C’era l’entusiasmo della vittoria e una
crudeltà tutta italiana, a dire il vero, che si contraddistingue nell’inferire
sui vinti. Una crudeltà insita in ogni guerra civile ma che altrove, dalla
Spagna al Vietnam, sia pure con assai discutibili metodi e argomentazioni,
ricercò una via verso la pacificazione.
Eppure, nel paradosso
del nostro amato e malandato Paese, ciò che fece comodo preservare del fascismo
fu conservato cambiando colori e simboli in una memoria che riporta al
Gattopardo, emblematica fotografia della letteratura post unitaria.
Dell’antifascismo, di
fatto, la mia memoria più diretta sono gli anni Settanta, dove si radicava un
significato politico volto a evidenziare una resistenza mutilata e quindi da
completare fino a palesare un clima di anticamera di guerra civile da una parte
e, dall’altra, c’era una connotazione più strettamente culturale, dove per
opposizione al fascismo veniva additato quel conformismo ben radicato nella
società italiana. Una precisa ragione assai più estesa dello stesso fascismo e
che il fascismo nondimeno fece sua, a partire dal trasformismo di una
rivoluzione nata dallo sgretolamento dello stato liberale per integrarsi poi,
su misura, nel vuoto di potere vacante.
Negli anni Settanta
emergono dunque due evidenze discutibili ma chiare ed evidenti
dell’antifascismo alla luce degli sviluppi del primo trentennio della nostra
democrazia. Riabilitare, rivalutare e riconsiderare gli anni Settanta è uno slogan
che voglio riproporre e attualizzare in quanto momento storico di presa di
coscienza, spontaneità e autenticità da riabilitare nel suo effettivo ruolo
culturale. Rivalutare in quanto troppo spesso la storia degli anni Settanta
l’abbiamo dovuta subire solo e soltanto come un momento buio in cui, al
contrario, molta gente iniziò a pensare e a chiedersi un perché. Riconsiderare
poiché, sulla base della storia e della nostra contemporaneità, l’ideologia e
la sua dogmatica di eliminare l’avversario è venuta meno e con essa si ha la
catarsi di un ciclo storico e quello che fu il solo effettivo tumore degli anni
Settanta.
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Una manifestazione antifascista negli anni Settanta
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Un cancro che oggi non ha più metastasi e non può
continuare a infangare la bellezza, la spontaneità e la capacità di pensare di
una generazione che seppe dare il meglio di sé, ma purtroppo in un mondo diviso
dall’ideologia e pilotato in ambigui giochi da servizi segreti tanto dell’Ovest
quanto dell’Est. Una generazione che, tanto nel torto quanto nel giusto, da
sinistra a destra ruppe gli schemi di partito ponendosi in posizioni
extraparlamentari, prima ancora che per ragioni politiche e sovversive che
allora fossero, su connotazioni culturali che riconsideravano autonomia e
capacità di pensiero.
Ad oggi, condannando ogni forma di violenza ed illegalità
politica, occorre riconsiderare fortemente quel ruolo culturale insito negli
anni Settanta, quella capacità di critica, rottura e autonomia che ci fu a
sinistra verso il PCI di Berlinguer come pure, sia pure in forma nettamente
inferiore e minoritaria, lo stesso fenomeno avvenne a destra nei confronti del
MSI di Almirante. Con questo non si vogliono sminuire personalità e meriti che
pure hanno avuto i due statisti in questione, ma evidenziare quel conformismo
che entrambi hanno dovuto comunque cavalcare nella ricerca dei soli compromessi
possibili col postumo risultato di altri quarant’anni di democrazia dove, pur
essendo tutto mutato all’apparenza, nulla, di fatto, è cambiato.
L’antifascismo di oggi vorrei che fosse un po’ come lo
sognava Gaber: “… un uomo che ha bisogno / di spaziare con la propria fantasia
/ e che trova questo spazio / solamente nella sua democrazia. / Che ha il
diritto di votare / e che passa la sua vita a delegare / e nel farsi comandare
/ ha trovato la sua nuova libertà” ma “la libertà non è uno spazio libero /
libertà è partecipazione”.
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