di Sarah Panatta
"Oggi è l'ultimo giorno
dell'anno... le persone si intrattengono a dibattere con se stesse le buone
azioni che intendono mettere in atto... giurando... che dalla loro bocca
emendata non uscirà mai più... una bugia... un inganno... è chiaro che è degli
uomini comuni che stiamo parlando, gli altri, quelli d'eccezione, fuori
dall'ordinario... non si lasciano illudere, arrivano a ridersela di noi... ma,
alla fin fine... già nei primi giorni di gennaio abbiamo dimenticato la metà
dei nostri propositi e... non c'è motivo di tenere fede al resto, è come un
castello di carte... gli dei ci guardano indifferenti... anche loro procedono
sul fiume delle cose... poiché si suppone che... giustamente le verità ultima
degli dei sia il non sapere nulla...".
(L'anno della morte di
Ricardo Reis, José Saramago,
1984)
Tutto
tengo e nulla stringo. You got the love. Vacancy, vacanza, e-vacu-azione. You
got the love. Oggi è l'ultimo domani? You got. Lo cunto de li cunti. You got
the love. Ultima scena, il protagonista dice... o resta zitto? You got the
love. Umanità ex-machina. You got. Ispirazione o fermentazione? You got the
love. Ma come si fa a toccarsi? You got the love. Lei latita sbavando al
davanzale. You got the love. I figli non devono sapere i segreti dei genitori.
You got the love. L'esilio è il capezzale della salute stanca. You got the
love. La tragedia è non ricordare se è andato a letto con Gilda Black. You got
the love. Ma Gilda Black è un feticcio indimenticabile e lui mente. You got the
love. Ingioiellate coltri di teste affittate ad un "this is the end",
or not? You got the love. Sulla sdraia,
nella cuffietta, su sedie a rotelle a scontro, in un giardino d'inverni
accumulati. You got the love. La pop star prostituta si stordisce col
respiratore. You got. Tutti passeggeri, inchiodati a due tavole in corsa su
curva. You got the love. Oggi quattro gocce di piscio, nuova moneta del
piacere. You got to love. To love, credere a tutto per inventare tutto. You
gotta love. Le emozioni sono sopravvalutate. You gotta love. Non è vero, sono
tutto ciò che abbiamo (abbiamo?). You got. Trovare un comodino sul K2. You got
the love. Sospendersi senza reti contro un green screen. You got. Youth got. Il
manto diafano della verità. Le membra vertiginose e allucinatorie della
fantasia. "Ultimo idillio". Youth[1].
Le intermittenze dello stare alla morte, secondo Paolo Sorrentino.
Let's
sing. Simple songs. Sedimenti di rimorso. Cessato il "bla bla bla". Arrampicati
nell'anticamera purgatoriale. (In)finiti sono i corridoi. Avanzate in fila
indiana, denudate l'epidermide repulsiva, mettete le terga in decozione
collettiva, serrate nelle maschere i ranghi. Qui non temete rivelazione
abrasiva. Benvenuti nell'ospizio della Giovinezza!
"You
got the love", carrello simulato per centripeta ouverture. Pronunciabile e
trasform-abile in "you gotta love". Così canta, in cotonatura
sixties, "The Retrosettes Sister Band" sul palco circo circolo
rotante. L'uomo deve amare, affrancarsi dalla libertà taroccata, dalla muraglia
spicciola dell'età. Piegare con cura
nello spogliatoio le vestigia del risiko sociale. E viaggiare nel tempo e sopra
tutto, nel proprio desiderio di quel tempo, che è ricordo e ancora amore. Visto
e stravisto che "l'amore è una cosa semplice", per dirla con un idolo
pop che sia erede della Carrà de La Grande Bellezza, Tiziano Ferro,
desiderare è altrettanto inevitabilmente puro, facile, da dire. Chiave servita
nell'incipit? O chiavata ego-solidale per confermare,
meta-cinematograficamente, il teorema geppiano per cui "si parla di
vacuità per non misurarsi con le meschinità". Piomba addosso tra piano
sequenza e tagli vivi Youth, di Paolo Sorrentino, didascalia lirica a La
Grande Bellezza e al suo Gep, in concorso a Cannes 2015, in sala dal 20
maggio. Paolo Sorrentino vuole firmare il suo testamento. Un morituri te
salutant gridato con un hard core iconico che strazia e affievolisce in
naif il pulp rodato sin dall'esordio del 2001, nel famigerato L'uomo in più,
suo vero prematuro testamento e postilla esistenziale.
Giovinezza, dice Sorrentino, qui da solo alla sceneggiatura, è (ar)rendersi
pronti all'amore e al suo ricordo, all'empatia incondizionata verso l'altro
(moglie catatonica, figlia viziata e recriminante, amico d'infanzia depresso e
cinicamente vezzoso, massaggiatrice socratica, commensali inceronati, cantante
nipponica sottovalutata, partitura da rivalutare, sogni da materializzare)
sempre. Ultimatum alla vita. Ode all'ossessione della memoria del presente.
Sorrentino
traghetta Gep e compagnia dalle catacombali inettitudini del precedente
incensato film, in un al di qua dantesco altrettando scioccato. Youth.
Opera sovrabbondante e verbosamente autocitazionista per l'ex regista prodigio
(l'esordiente trentenne nello stivale italiota è sempre enfant) ormai
quarantacinquenne, premio Oscar per propaganda da cartolina expo(sitiva) e
volto Fiat. Dichiaratamente assillato, come tutti in fondo, dal conteggio della
Morte, Sorrentino scrive e dirige sorretto dall'impalcatura alchemica della
fotografia di Luca Bigazzi, le conseguenze dell'invecchiamento,
inscatolate in aforismi filosofici a metà tra biscotto cinese e pubblicità
Barilla (tra gli sponsor del film).
Mick
è un ex compositore e maestro d'orchestra in pensione, marito fedifrago e padre
assente, apparentemente votato alla semplice grande bellezza della musica,
stalkerizzato dai francesi per un'autobiografia e dagli inglesi per
un'esibizione dinanzi alla regina. Fred è il suo amico di buone notizie e di
amarcord "corretti", prostatico regista col talento enorme di mister
Ripley nel sangue, sul viale del tramonto e alle prese con l'ultima
sceneggiatura, influenzata dalle voglie (o meglio dai reumatismi capitalistici)
di una ex diva "gola profonda" ora dedita alle fiction in New Mexico.
Entrambi in vacanza in un hotel lussuoso, rifugio/comunità di recupero. Danza
morbida di panze vere e tette rifatte, di onde (di pelle d'acqua di venti)
cascanti sulla bruma strigliata di giorni mai distrattamente uguali. Di donne
frustrate e di alpinisti arrapati. Di confessioni filiali e di devastazioni
cerebrali. Di prostituzioni morali e di biciclette palliative, bugie
autodifensive. Di piccole routine accettabili.
Un
giovane attore che studia il mondo, da camera, nei suoi minuti parossismi. Un
violinista in erba e mancino che solfeggia la sintassi misteriosamente generosa
di una "canzone semplice". Un ex calciatore obeso di fama e inetto
alla gloria che palleggia con i suoi fantasmi retro-cessi. Una battona postpuberale,
stretta nella plissettatura elementare e nell'odore ottuso di camere estranee.
Una schiera di comparse grottesche crocifisse per errori stolti, figure
deformabili e poetiche di un hereafter spesso blasfemo (vedi la pop star
trash che brucia in un incubo-par(odi)a-videoclip, tra i pochi picchi di
genialità seppur incontrollata), aiutano Mick e Fred a trovare le proprie
personali ragioni e mezzi di "trapasso". Con il calore di gesti
alienati, con vulve vip sventolate a bordo vasca, con lacrime versate per gioie
mai provate (prima).
Mentre
la "monarchia" intellettuale si mostra vulnerabile, fa intenerire
(anche se stessa) nella propria ridicola decadenza e stira le cuoia,
"ritirando" a vigorosa sopravvivenza, seppur già postuma, la
creatività ormai rassegnata, paralizzata, senile. Spiaggiata idromassaggiata
consolata da miss, badanti palestrate, sushi d'autore, sinfonie forestali,
brividi sessuali da piscina.
Da
Fellini pulp a Resnais almodovariano? Tra Saramago e Borges? O nessuno di loro?
Perché in fondo, lo dice forse con candida autoironia Sorrentino, a se stesso,
il bravo autore "ruba" senza conoscere, come un monello furbo e ben
allenato. L'Hotel geometricamente cullato dalla natura sontuosa, pastorale,
silenziosamente bianco e onirico, popolato di coreografie mute e deteriori,
prive di memoria appunto come nella villa de L'anno scorso a Marienbad[2]
(del compianto Resnais), è ritiro (sophia)coppoliano, classico non luogo o
meglio "somewhere", isola deserta, sovraffollamento di anime
migranti, di casi oltre umani, oasi bruciante e fetida ma materna, ai piedi
delle Alpi Svizzere, appositamente medicale e ipoteticamente redentrice.
|
Michael Caine e Harvey Keitel in Youth (2015, ph. Gianni Fiorito)
|
Giocoliere
di dolly e di campi lunghi, Sorrentino funamboleggia, di quadro in quadro,
hopperiano e vulnerabile, altezzoso, novello Moravia o Sartre, nelle
interpretazioni sfatte della noia del vivere. E sforna sentenze sulle
frustrazioni comuni del non sentirsi "all'altezza". Certo
autobiografico e chiuso nel suo unico, fulgido, sebbene tracimato
metalinguaggio, magnifico esteta e tecnico ancora sublime, non riesce ad
incastonare nel flusso della sua "simple song" (come invece riesce
Mick/Michael Caine, sir di un cast lodevole e "in" parte sempre, come
le musiche, comprimarie) le virate impressioniste e gli assoli tragicomici. Gli
inserti humoristici diventano kitsch stonati e l'equilibrio si rompe, come il
reticolato della pelle di Jane Fonda ("gola profonda" di cui sopra).
I momenti di soprassalto sorrentiniano, ove ancora muto riappare "l'uomo
in più" che sorride della futilità fabulosa dell'esistere, sono perduti,
come lacrime nella pioggia[3].
Dove è la giovinezza? Aggrappata ad una parete pesta di ideali scialbi,
palesemente a picco nell'epilogo del film, posticcio quanto la parrucca servilliana
del mitologico Caine?
A
Cannes l'ardua risposta, o meglio necrologio anzi tempo dell'autotumulato
gigantesco Sorrentino. Qui parvenu ingenuamente didascalico o prestigiatore
incallito ma abbandonato a se stesso da una produzione a cui è (s)venduto
eppure non del tutto accondiscendente votato? Si era già confessato, Paolo/Gep, fin da ragazzo alla penetrazione
della "fessa" preferiva la gestazione mortifera di altri antri,
"l'odore delle case dei vecchi". Sorrentino sa, entomologo per
istinto, e scaltramente registra, cofidica e mostra a sua volta mostruoso la
mostruosità, o confessa la propria tragica inattualità? Giovinezza è
metabolismo della vecchiaia intrinseca? Un uomo oggi marchio di fabbrica,
santino del made in Italy, professionista riuscito, col potere di far fallire
la propria stessa festa o portarla sull'orlo del ridicolo con raffinato
scherno. Sorrentino continua, a differenza del pigro remissivo Gep Gambardella,
suo massimo alter ego, a dettagliare l'apparato umano, nel suo romanzo
senza cesure iniziato nel 2001, un libro "frivolo e pretenziosetto" e
per questo inguaribilmente magnetico, che non vuole "grondare" alcuna
"vocazione civile", solo rapirci e violentarci, nel suo dedalo di
corpi consumati e di menti epicuree, di leggi dettate dal copia&incolla
facebookiano della cultura letteraria post-post-moderna, aggiornate (ma non del
tutto) all'attualità 3.0. Al mondo che desidera, che sfoga ansie represse e non
troppo recondite senza misurare e interrogare quel desiderio, e che comunica con
alfabeti intraducibili a se stessi, perché non sa che cosa sapere. E dove colui
che osservando impara (senza sapere davvero), vedi Mick, Gep, Paolo medesimo,
decide di lottare bluffando.
D'altronde,
come cita la voce off lievemente turbata seppure impeccabile di Titta Di
Girolamo colto in fallo (riciclatore dei soldi della mafia nel secondo grande
film sorrentiniano, Le conseguenze dell'amore) nella vita non si può
bluffare a metà e poi dire la verità, il bluff va condotto fino in fondo. Ed
esporsi al rischio più grande possibile: apparire ridicoli. E inondare piazze e
schermi. Orchestrare la sinfonia delle mucche tra i boschi alpini, come il volo
dei fenicotteri rosa di disneyana dumbesca scaturigine sugli attici romani.
Formule visive di un autismo artistico, di una burla o ammutinamento camuffato
al sistema produttivo che lo ha dominato? O il suo modo di lasciar pascolare il
fanciullino mai cresciuto, il suo Antonio Pisapia (coprotagonista/doppio di
Tony, del rivelatore "L'uomo in più", 2001, v. sopra) in calzoncini
corti e senza responsabilità? Quello che piange tutte le sue lacrime spostato
da un carcere all'altro, da un nuovo mega spot pro domo patria all'altro,
privato dei suoi balocchi milionari e del suo mare di profumi e carogne
mafiose, dei suoi dolly decentrati e dei suoi ammiccamenti sornioni alla morte?
Sorrentino dice, logorroico re di parole retoricamente inappuntabili, come
Tony, "ho sempre amato la libertà" permettendosi di indulgere nei
quadri grotteschi della santa oscenamente idolatrata de La Grande Bellezza
o dei seni immani, turgidamente imposti sulla gravità terrestre della Miss
Universo ultimo "idillio" terreno per due pensionati ammollo?
|
Madalina Ghenea in una scena del film diretto da Paolo Sorrentino
|
Ispezione
anale in guanti bianchi e in contumacia, l'opera di Sorrentino, vediamo e non
sentiamo il dolore, l'opposto della poetica del conterraneo Matteo Garrone, e
ciò che vediamo è sempre ostentato trucco nelle epiche messe del divo Paolo.
Nella
vita non esiste pareggio. L'uomo in più (l'autore, Paolo Sorrentino, lo
spettatore, il noi sociale sgretolato e spaurito dietro avatar e vibrazioni
occasionali) per essere libero deve sparire, mostrare lo scarto, farsi da parte
parte nel tutto che ha o non ha avuto ma ha sempre cercato, desiderato. E sulla
strada mentre svanisce e si reincarna testando il brivido di (non) essere
"all'altezza", Sorrentino e il suo cinema diventa amplesso rococò,
numero da circo, ruzzola e si/ci inganna e meraviglia. Fino a farci sogghignare
ed esplodere.
"Come me li ha
rotti i coglioni lei Pisapia non me li ha rotti mai nessuno, ma che cosa vuole
fare lei, l'allenatore o il calciatore?"