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CINEPRIME – "YOUTH"
Dov'è la giovinezza? Le visioni di un regista in più


      
Presentato al Festival di Cannes 2015, il nuovo film del 45enne Paolo Sorrentino, vincitore l’anno scorso del Premio Oscar con "La grande bellezza", si svolge come una raffinata 'simple song' sul malinconico scorrere e le irresolubili contraddizioni dell’esistenza, ambientata in un lussuoso hotel-comunità per ricchi sulle alpi svizzere, che ricorda la villa di "L’anno scorso a Marienbad" di Resnais (1961). Tra i protagonisti della pellicola, Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz e Jane Fonda.
      



      

 

 

di Sarah Panatta

 

 

"Oggi è l'ultimo giorno dell'anno... le persone si intrattengono a dibattere con se stesse le buone azioni che intendono mettere in atto... giurando... che dalla loro bocca emendata non uscirà mai più... una bugia... un inganno... è chiaro che è degli uomini comuni che stiamo parlando, gli altri, quelli d'eccezione, fuori dall'ordinario... non si lasciano illudere, arrivano a ridersela di noi... ma, alla fin fine... già nei primi giorni di gennaio abbiamo dimenticato la metà dei nostri propositi e... non c'è motivo di tenere fede al resto, è come un castello di carte... gli dei ci guardano indifferenti... anche loro procedono sul fiume delle cose... poiché si suppone che... giustamente le verità ultima degli dei sia il non sapere nulla...".

(L'anno della morte di Ricardo Reis, José Saramago, 1984) 

 

 

Tutto tengo e nulla stringo. You got the love. Vacancy, vacanza, e-vacu-azione. You got the love. Oggi è l'ultimo domani? You got. Lo cunto de li cunti. You got the love. Ultima scena, il protagonista dice... o resta zitto? You got the love. Umanità ex-machina. You got. Ispirazione o fermentazione? You got the love. Ma come si fa a toccarsi? You got the love. Lei latita sbavando al davanzale. You got the love. I figli non devono sapere i segreti dei genitori. You got the love. L'esilio è il capezzale della salute stanca. You got the love. La tragedia è non ricordare se è andato a letto con Gilda Black. You got the love. Ma Gilda Black è un feticcio indimenticabile e lui mente. You got the love. Ingioiellate coltri di teste affittate ad un "this is the end", or not? You got the love. Sulla sdraia,  nella cuffietta, su sedie a rotelle a scontro, in un giardino d'inverni accumulati. You got the love. La pop star prostituta si stordisce col respiratore. You got. Tutti passeggeri, inchiodati a due tavole in corsa su curva. You got the love. Oggi quattro gocce di piscio, nuova moneta del piacere. You got to love. To love, credere a tutto per inventare tutto. You gotta love. Le emozioni sono sopravvalutate. You gotta love. Non è vero, sono tutto ciò che abbiamo (abbiamo?). You got. Trovare un comodino sul K2. You got the love. Sospendersi senza reti contro un green screen. You got. Youth got. Il manto diafano della verità. Le membra vertiginose e allucinatorie della fantasia. "Ultimo idillio". Youth[1]. Le intermittenze dello stare alla morte, secondo Paolo Sorrentino.

 

Let's sing. Simple songs. Sedimenti di rimorso. Cessato il "bla bla bla". Arrampicati nell'anticamera purgatoriale. (In)finiti sono i corridoi. Avanzate in fila indiana, denudate l'epidermide repulsiva, mettete le terga in decozione collettiva, serrate nelle maschere i ranghi. Qui non temete rivelazione abrasiva. Benvenuti nell'ospizio della Giovinezza!

"You got the love", carrello simulato per centripeta ouverture. Pronunciabile e trasform-abile in "you gotta love". Così canta, in cotonatura sixties, "The Retrosettes Sister Band" sul palco circo circolo rotante. L'uomo deve amare, affrancarsi dalla libertà taroccata, dalla muraglia spicciola  dell'età. Piegare con cura nello spogliatoio le vestigia del risiko sociale. E viaggiare nel tempo e sopra tutto, nel proprio desiderio di quel tempo, che è ricordo e ancora amore. Visto e stravisto che "l'amore è una cosa semplice", per dirla con un idolo pop che sia erede della Carrà de La Grande Bellezza, Tiziano Ferro, desiderare è altrettanto inevitabilmente puro, facile, da dire. Chiave servita nell'incipit? O chiavata ego-solidale per confermare, meta-cinematograficamente, il teorema geppiano per cui "si parla di vacuità per non misurarsi con le meschinità". Piomba addosso tra piano sequenza e tagli vivi Youth, di Paolo Sorrentino, didascalia lirica a La Grande Bellezza e al suo Gep, in concorso a Cannes 2015, in sala dal 20 maggio. Paolo Sorrentino vuole firmare il suo testamento. Un morituri te salutant gridato con un hard core iconico che strazia e affievolisce in naif il pulp rodato sin dall'esordio del 2001, nel famigerato L'uomo in più, suo vero prematuro testamento e postilla esistenziale.





Giovinezza, dice Sorrentino, qui da solo alla sceneggiatura, è (ar)rendersi pronti all'amore e al suo ricordo, all'empatia incondizionata verso l'altro (moglie catatonica, figlia viziata e recriminante, amico d'infanzia depresso e cinicamente vezzoso, massaggiatrice socratica, commensali inceronati, cantante nipponica sottovalutata, partitura da rivalutare, sogni da materializzare) sempre. Ultimatum alla vita. Ode all'ossessione della memoria del presente.

Sorrentino traghetta Gep e compagnia dalle catacombali inettitudini del precedente incensato film, in un al di qua dantesco altrettando scioccato. Youth. Opera sovrabbondante e verbosamente autocitazionista per l'ex regista prodigio (l'esordiente trentenne nello stivale italiota è sempre enfant) ormai quarantacinquenne, premio Oscar per propaganda da cartolina expo(sitiva) e volto Fiat. Dichiaratamente assillato, come tutti in fondo, dal conteggio della Morte, Sorrentino scrive e dirige sorretto dall'impalcatura alchemica della fotografia di Luca Bigazzi, le conseguenze dell'invecchiamento, inscatolate in aforismi filosofici a metà tra biscotto cinese e pubblicità Barilla  (tra gli sponsor del film).

Mick è un ex compositore e maestro d'orchestra in pensione, marito fedifrago e padre assente, apparentemente votato alla semplice grande bellezza della musica, stalkerizzato dai francesi per un'autobiografia e dagli inglesi per un'esibizione dinanzi alla regina. Fred è il suo amico di buone notizie e di amarcord "corretti", prostatico regista col talento enorme di mister Ripley nel sangue, sul viale del tramonto e alle prese con l'ultima sceneggiatura, influenzata dalle voglie (o meglio dai reumatismi capitalistici) di una ex diva "gola profonda" ora dedita alle fiction in New Mexico. Entrambi in vacanza in un hotel lussuoso, rifugio/comunità di recupero. Danza morbida di panze vere e tette rifatte, di onde (di pelle d'acqua di venti) cascanti sulla bruma strigliata di giorni mai distrattamente uguali. Di donne frustrate e di alpinisti arrapati. Di confessioni filiali e di devastazioni cerebrali. Di prostituzioni morali e di biciclette palliative, bugie autodifensive. Di piccole routine accettabili.

Un giovane attore che studia il mondo, da camera, nei suoi minuti parossismi. Un violinista in erba e mancino che solfeggia la sintassi misteriosamente generosa di una "canzone semplice". Un ex calciatore obeso di fama e inetto alla gloria che palleggia con i suoi fantasmi retro-cessi. Una battona postpuberale, stretta nella plissettatura elementare e nell'odore ottuso di camere estranee. Una schiera di comparse grottesche crocifisse per errori stolti, figure deformabili e poetiche di un hereafter spesso blasfemo (vedi la pop star trash che brucia in un incubo-par(odi)a-videoclip, tra i pochi picchi di genialità seppur incontrollata), aiutano Mick e Fred a trovare le proprie personali ragioni e mezzi di "trapasso". Con il calore di gesti alienati, con vulve vip sventolate a bordo vasca, con lacrime versate per gioie mai provate (prima).

Mentre la "monarchia" intellettuale si mostra vulnerabile, fa intenerire (anche se stessa) nella propria ridicola decadenza e stira le cuoia, "ritirando" a vigorosa sopravvivenza, seppur già postuma, la creatività ormai rassegnata, paralizzata, senile. Spiaggiata idromassaggiata consolata da miss, badanti palestrate, sushi d'autore, sinfonie forestali, brividi sessuali da piscina.

Da Fellini pulp a Resnais almodovariano? Tra Saramago e Borges? O nessuno di loro? Perché in fondo, lo dice forse con candida autoironia Sorrentino, a se stesso, il bravo autore "ruba" senza conoscere, come un monello furbo e ben allenato. L'Hotel geometricamente cullato dalla natura sontuosa, pastorale, silenziosamente bianco e onirico, popolato di coreografie mute e deteriori, prive di memoria appunto come nella villa de L'anno scorso a Marienbad[2] (del compianto Resnais), è ritiro (sophia)coppoliano, classico non luogo o meglio "somewhere", isola deserta, sovraffollamento di anime migranti, di casi oltre umani, oasi bruciante e fetida ma materna, ai piedi delle Alpi Svizzere, appositamente medicale e ipoteticamente redentrice.





Michael Caine e Harvey Keitel in Youth (2015, ph. Gianni Fiorito)


Giocoliere di dolly e di campi lunghi, Sorrentino funamboleggia, di quadro in quadro, hopperiano e vulnerabile, altezzoso, novello Moravia o Sartre, nelle interpretazioni sfatte della noia del vivere. E sforna sentenze sulle frustrazioni comuni del non sentirsi "all'altezza". Certo autobiografico e chiuso nel suo unico, fulgido, sebbene tracimato metalinguaggio, magnifico esteta e tecnico ancora sublime, non riesce ad incastonare nel flusso della sua "simple song" (come invece riesce Mick/Michael Caine, sir di un cast lodevole e "in" parte sempre, come le musiche, comprimarie) le virate impressioniste e gli assoli tragicomici. Gli inserti humoristici diventano kitsch stonati e l'equilibrio si rompe, come il reticolato della pelle di Jane Fonda ("gola profonda" di cui sopra). I momenti di soprassalto sorrentiniano, ove ancora muto riappare "l'uomo in più" che sorride della futilità fabulosa dell'esistere, sono perduti, come lacrime nella pioggia[3]. Dove è la giovinezza? Aggrappata ad una parete pesta di ideali scialbi, palesemente a picco nell'epilogo del film, posticcio quanto la parrucca servilliana del mitologico Caine?

A Cannes l'ardua risposta, o meglio necrologio anzi tempo dell'autotumulato gigantesco Sorrentino. Qui parvenu ingenuamente didascalico o prestigiatore incallito ma abbandonato a se stesso da una produzione a cui è (s)venduto eppure non del tutto accondiscendente votato? Si era già confessato,   Paolo/Gep, fin da ragazzo alla penetrazione della "fessa" preferiva la gestazione mortifera di altri antri, "l'odore delle case dei vecchi". Sorrentino sa, entomologo per istinto, e scaltramente registra, cofidica e mostra a sua volta mostruoso la mostruosità, o confessa la propria tragica inattualità? Giovinezza è metabolismo della vecchiaia intrinseca? Un uomo oggi marchio di fabbrica, santino del made in Italy, professionista riuscito, col potere di far fallire la propria stessa festa o portarla sull'orlo del ridicolo con raffinato scherno. Sorrentino continua, a differenza del pigro remissivo Gep Gambardella, suo massimo alter ego, a dettagliare l'apparato umano, nel suo romanzo senza cesure iniziato nel 2001, un libro "frivolo e pretenziosetto" e per questo inguaribilmente magnetico, che non vuole "grondare" alcuna "vocazione civile", solo rapirci e violentarci, nel suo dedalo di corpi consumati e di menti epicuree, di leggi dettate dal copia&incolla facebookiano della cultura letteraria post-post-moderna, aggiornate (ma non del tutto) all'attualità 3.0. Al mondo che desidera, che sfoga ansie represse e non troppo recondite senza misurare e interrogare quel desiderio, e che comunica con alfabeti intraducibili a se stessi, perché non sa che cosa sapere. E dove colui che osservando impara (senza sapere davvero), vedi Mick, Gep, Paolo medesimo, decide di lottare bluffando.

D'altronde, come cita la voce off lievemente turbata seppure impeccabile di Titta Di Girolamo colto in fallo (riciclatore dei soldi della mafia nel secondo grande film sorrentiniano, Le conseguenze dell'amore) nella vita non si può bluffare a metà e poi dire la verità, il bluff va condotto fino in fondo. Ed esporsi al rischio più grande possibile: apparire ridicoli. E inondare piazze e schermi. Orchestrare la sinfonia delle mucche tra i boschi alpini, come il volo dei fenicotteri rosa di disneyana dumbesca scaturigine sugli attici romani. Formule visive di un autismo artistico, di una burla o ammutinamento camuffato al sistema produttivo che lo ha dominato? O il suo modo di lasciar pascolare il fanciullino mai cresciuto, il suo Antonio Pisapia (coprotagonista/doppio di Tony, del rivelatore "L'uomo in più", 2001, v. sopra) in calzoncini corti e senza responsabilità? Quello che piange tutte le sue lacrime spostato da un carcere all'altro, da un nuovo mega spot pro domo patria all'altro, privato dei suoi balocchi milionari e del suo mare di profumi e carogne mafiose, dei suoi dolly decentrati e dei suoi ammiccamenti sornioni alla morte? Sorrentino dice, logorroico re di parole retoricamente inappuntabili, come Tony, "ho sempre amato la libertà" permettendosi di indulgere nei quadri grotteschi della santa oscenamente idolatrata de La Grande Bellezza o dei seni immani, turgidamente imposti sulla gravità terrestre della Miss Universo ultimo "idillio" terreno per due pensionati ammollo?





Madalina Ghenea in una scena del film diretto da Paolo Sorrentino


Ispezione anale in guanti bianchi e in contumacia, l'opera di Sorrentino, vediamo e non sentiamo il dolore, l'opposto della poetica del conterraneo Matteo Garrone, e ciò che vediamo è sempre ostentato trucco nelle epiche messe del divo Paolo.

Nella vita non esiste pareggio. L'uomo in più (l'autore, Paolo Sorrentino, lo spettatore, il noi sociale sgretolato e spaurito dietro avatar e vibrazioni occasionali) per essere libero deve sparire, mostrare lo scarto, farsi da parte parte nel tutto che ha o non ha avuto ma ha sempre cercato, desiderato. E sulla strada mentre svanisce e si reincarna testando il brivido di (non) essere "all'altezza", Sorrentino e il suo cinema diventa amplesso rococò, numero da circo, ruzzola e si/ci inganna e meraviglia. Fino a farci sogghignare ed esplodere.

"Come me li ha rotti i coglioni lei Pisapia non me li ha rotti mai nessuno, ma che cosa vuole fare lei, l'allenatore o il calciatore?"

 

 

 

 

 



[1] Regia di Paolo Sorrentino. Con Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano, Mark Kozelek, Robert Seethaler, Alex MacQueen, Luna Mijovic, Tom Lipinski, Chloe Pirrie, Alex Beckett, Nate Dern, Mark Gessner, Paloma Faith, Ed Stoppard, Sonia Gessner, Madalina Ghenea, Sumi Jo e Jane Fonda. Soggetto e sceneggiatura di Paolo Sorrentino. Fotografia Luca Bigazzi. Montaggio Cristiano Travaglioli A.M.C. Musica David Lang. Scenografia Ludovica Ferrario. Carlo Poggioli. Produttore esecutivo Viola Prestieri. Indigo Film, Pathé Film, France 2 Cinéma, Number 9 Films, C-Films. Ita 2015. Durata 118 min.

 

[2] Nella aritmetica liquida del suo montaggio visivo, il castello/hotel alpino di Sorrentino ospita un labirinto di destini incrociati che non dialogano tra loro, ma che si specchiano nella solitudine, covata nell'assenza di senso e in alcuni casi, di sensi. Una passeggiata a ritroso o in avanti, proiettata nel vuoto a rendere dell'esistere indisturbati nell'universo che ci partorisce e rigetta. E il fulcro è la memoria, il calco e la proiezione di quei sé a perdere. La perdita o la rincorsa disperatamente placida di quella memoria è la sincope visiva e concettuale che tenta Sorrentino e che respira invece totalmente Resnais nel suo L'anno scorso a Marienbad (Fra/Ita, 1961), imbastito dal sodale artistico di Resnais, Robbe-Grillet, a sua volta andato a pesca in un testo di A. Bioy Casares, L'invenzione di Morel. Forse nella suggestione fantastica di Casares Sorrentino si è impigliato scegliendo il cognome della ex diva Brenda Morel/Jane Fonda? Seminando un'indizio, a pochi mesi dalla morte del maestro francese, di quel gioco di fiammiferi e memoria sull'isola deserta e postapocalittica della vita che è (anche) Youth?

 

[3] O come lacrime nell'acqua alta di Venezia. L'acqua prosopopeica materia di incubo e di agnizione, torna, nella fasulla teatralità della passerella con inondazione (nel primo sogno premonitore di Mick/Michael Caine) o nelle prospettive semisommerse delle vasche termali in cui gli ospiti decadenti dell'hotel svizzero si trastullano ordinati e silenti, in Youth. Torna esondando dai titoli d'inizio del magistrale e insuperato capolavoro sorrentiniano (forse solo dall'ipercinesi sarcastica de Il Divo), L'uomo in più, sua palestra e dichiarazione poetica, quattordici anni addietro. Lì una battuta di pesca completamente subacquea, caccia al tesoro e prova di libertà e insieme di asfissia nei propri stessi diletti infausti, conduce, spiazzante e diretta, alle viscere del protagonista doppio, Antonio e Tony. Numeri che non tornano nel cunto de li cunti, destinati a diventare/ritornare scarto e vuoto. Nell'acqua trasparente e fredda che li aveva generati.




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