di Stefano Docimo e Pablo Docimo
Caro Pablo,
vedo quello che stai facendo, il tuo lavoro con il Presidente, bhé, è la narrazione di
un percorso unico e irripetibile, che mostra... ecc. Mi rendo conto che, continuando, mi sperticherei in
lodi di cui credo non abbia bisogno, dal momento che
parlano i fatti.
Entrando invece in quello che mi pare il nodo dell’esperienza da te fin qui condotta, vorrei ricordarti, ma
ricordarlo soprattutto a me stesso, alcuni dati agghiaccianti, che dovrebbero
illustrare a sufficienza, la schizofrenia, quando non
la malafede, del sistema a cui tu hai giurato fedeltà.
Tanto per entrare nel merito e per tentare, al di là d’ogni
retorica ufficiale, di radiografare una situazione, quella del nostro Paese,
come lo chiami tu, insieme al contesto mondiale, da
cui credo non si possa prescindere.
Vorrei, innanzi tutto, premettere che non sentendomi
personalmente coinvolto negli interessi di quella che potremmo ancora definire
“borghesia illuminata”, che d’altro
canto sa fare più che bene il proprio interesse, mi sento, al contrario, spinto
a cercare le motivazioni e le esistenze della gran massa degli abitanti del
nostro pianeta; e per gran massa intendo i tre quarti e più degli “abitanti” i
vari continenti.
Ma proprio su questo primo concetto, quello dell’abitare, voglio soffermarmi e partire per quest’analisi.
Come ben sai, ho avuto la ventura, o “sventura”, a seconda dei punti di vista, ma anche di questo
scriverò più avanti, di nascere “bene”, e cioè all’interno di quella che un tempo veniva definita “classe
borghese” e che costituiva la parte “illuminata” di quell’altra entità di agglomerati che è stata chiamata “città”: una borghesia inurbata e urbana, saldamente radicata nel
tessuto sociale della capitale. Ma come per altro
ancora conosci, non ho mai partecipato ai fasti, nè mai mi sono sentito un granchè partecipe del destino di classe che la sorte mi aveva
segnato. E questo per vari motivi, ma anche per uno in particolare: l’estraneità, come condizione permanente, dal
resto dell’umanità, che tale classe ha prodotto e produce, unita a una certa
dose di melanconia mia propria.
Anche oggi che sono ritornato ad “abitare” nel vecchio
quartiere dell’adolescenza e della giovinezza -e sai come sia avvenuto per quella casualità che tu giustamente critichi per rituffarmi in parte nelle
problematiche inerenti la mia famiglia d’origine, da cui, come per altro ancora fin troppo sai, ero
fuggito a vent’anni, non ho alcuna voglia di “sentirmi” parte partecipante
di una urbanità che continua a offrirmi tanta comodità ma anche tanto disagio e contraddizione.
Insomma, so di essermi nuovamente blindato, ma con l’aria di chi, appena possibile, tornerà “alla strada”, alla storia dell’umanità che non “abita” da nessuna parte,
perché non vuole, ma più che altro perché non è un abitare il suo.
Non ho smesso, come ancora sai, di lavorare ai margini di
questa società civile, sia col mio lavoro d’insegnante, che con quello d’intellettuale e di scrittore.
Ecco, vedi, nel pronunciare i
nomi di tutte e tre queste attività tipiche della borghesia “civile”, mi vergogno un po’ e tu questo non puoi capirlo, ma cercherò di spiegartelo.
(continua)
papà
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Stefano Docimo (1945-2014)
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Caro Papà,
che dire? Non posso nascondere un certo apprezzamento per essere nei tuoi pensieri notturni - la notte
porta i migliori pensieri- per la voglia che hai avuto di fissare su carta,
bravo da sempre, il tuo pensiero, la tua melanconia o più semplicemente le tue
considerazioni. Di fissarli e comunicarli. Ne sono
felice. Amo molto anche io lo scrivere, così per me intendiamoci, perché mi
aiuta a edulcorare i miei pensieri, a fissarli, a nobilitarli o quasi, è questa
forse la verità, a renderli eterni, oltre il tempo.
Se sono lì, sono veri altrimenti fluttuano nella mia mente e basta.
Ma questo sono io, sempre ansioso di fissare le cose, di
renderle sicure, indiscutibili. Io che cerco sempre delle giuste certezze. Mi
piace molto. Mi piace l’idea
di una sintesi tra generazioni che tanto, la tua e la mia, sono complementari, molto di più di quanto abbiamo sino ad ora
creduto.
E’ un
mondo che non amo, questo. Non amo il classismo, non ne amo i (non) valori, non
amo l’ipocrisia
del successo fintamente accessibile a tutti, non amo la borghesia e l’elite, illuminata e non, che troppo ha
condizionato sull’interesse di pochi, la vita della gran massa, come la
chiami tu.
Non amo il nostro mondo e non m’illudo, anche se...ne sono parte. Il mio starci, però, ha
un fine. Conoscerlo e cambiarlo, per la parte che potrò. Anche se, storicizzando (concetto di eredità semantica della tua generazione) i passaggi generazionali,
qualcosa è cambiato.
Oggi, forse, tutti hanno la coscienza di ciò che è. Prima era molta l’ignoranza del “sistema”. Ora, la gran massa preme, chiede e
pretende l’accesso al benessere.
Questo è il paradosso. Così com’ è oggi, il benessere è una risorsa finita, limitata
e quindi non accessibile ma selettiva perché selettivi sono gli strumenti con
cui accedere a “quel”
benessere. Quando diciamo, quindi, che dobbiamo
consentire a tutti un percorso di vita coerente con le proprie aspirazioni
attraverso saperi e strumenti democraticamente accessibili alla gran massa,
ben sapendo che tali aspirazioni in realtà sono
limitate a “poche cose”, mentiamo spudoratamente.
Mentiamo e prendiamo il tempo necessario a disegnare una nuova via ‒ la
terza? No, credo debba essere un’altra ancora ‒.
Chi può condizionare e determinare quest’apertura alla gran massa, sa bene che il “lume” si eredita e non si compra. Il risultato di
questa apertura democratica (?) ha prodotto una sola grande middle-class a cui abbiamo regalato l’illusione che, magari in leasing, può comprare gli
archetipi del benessere e credere di essere “arrivati”.
È il grande falso storico di
questa fine millennio. E poi? Avremo una classe dirigente fatta di mercanti?
Già è così?
Allora abbiamo il dovere di cercare e credere in una nuova via. La tua
generazione – l’elite
della tua generazione a cui tu appartieni ‒ ha il grande merito di
aver lanciato il sasso ma....
Ricordo, da bambino, vi sentivo urlare il vostro dissenso
al “sistema” e preoccuparvi del vostro impegno. Vi sentivo e mi piaceva
immaginare quello che sarei stato io. Me l’ero un po’ dimenticata, quella generazione
di uomini e donne che così bene hanno conosciuto “il sistema” che meglio di
tanti altri hanno poi gabbato lo Santo e ‒ in barba all’entrismo di Trotskjiana memoria ‒ hanno saputo starci dentro alla grande pur continuando a
pontificare sui massimi sistemi.
Questo, forse, è stato il grande guaio della mia
generazione che, spinta dai giovani genitori alla rivoluzione, a un certo punto
s’è voltata e dietro ha visto non più ideali, non più voglia di cambiare, non
più credere nella forza degli individui ma solo
carrierismo, soldi, potere e la rabbia ‒ la vostra – di volerci stare e contare sempre di più, non
importa poi per fare cosa ma l’importante era starci.
Questo non sei tu, lo so, ma è la tua generazione, è quello
che la tua generazione ha lasciato alla storia.
Ma allora questa illuminata borghesia intellettuale che si
blinda e non abita cosa fa? Perché lasciate a noi il fardello? Aiutateci a
capire, aiutateci a cambiare.
Da soli non possiamo, siamo giovani...........
(continua..)
Pablo
Caro Pablo,
fare qualcosa, certo. Ognuno nel proprio ambito: manifestare il
dissenso. Già questo è fare qualcosa. Resistere a un sistema tanto
pervasivo da invadere anche il laboratorio privato di ogni essere umano, come
avviene anche mentre ti scrivo, usando una tecnologia
che nasce dallo sfruttamento, anche minorile, di aree già depresse, per offrire a me scrittore, o meglio scrivente,
la possibilità di accesso a prezzi sempre più competitivi; questo è già fare qualcosa.
Ma si finisce con l’essere emarginati.
E poi “il sistema” mi ha già fregato in partenza: se voglio sopravvivere devo
sottomettermi alle sue regole e usare i suoi prodotti. La mattina, appena mi
alzo dal letto, già respiro il sistema, uso la sua tecnologia, la sua organizzazione dei trasporti, il suo inquinamento: l’aria che respiro è la sua aria. Alzandomi per andare a
lavorare il sistema mi veste, fin nei dettagli: i pensieri non sono più miei,
come l’aria
che respiro non appartiene più alla mia natura. Ogni momento della mia vita è già previsto,
calcolato, incluso.
Ogni desiderio si traduce in un bisogno da soddisfare. E il
sistema oggi è in grado di soddisfare ogni più recondito desiderio: è l’ipermercato postmoderno della società americana. Tutto ciò avviene in modo
non indolore. Viene imposto con la forza: l’intero assetto mondiale si fonda sulla prevaricazione e
sulla sottomissione del più debole.
Un iper reale macchina da guerra si scatena su chiunque contrasti,
per qualsiasi ragione, gli interessi di questo mercato
mondiale, di cui noi non siamo che una provincia. La tecnologia messa in atto
in quei casi è impressionante: non è che io voglia pensare ai massimi sistemi
perché non ho altro da fare. Il significato stesso dell’attuale sistema d’interessi è basato sull’espropriazione delle differenze nazionali e territoriali,
ed è un sistema mondiale: è la postmodernità.
L’umanità non è che una variabile: è la postumanità dei consumi. Non c’è bisogno che sia io ad insegnarti ciò
che conosci meglio di me: il sistema delle imprese e
il loro dipendere dal capitale mondiale.
Non si può tornare più indietro. Il contesto non lo
permette. Il soggetto di tale situazione caleidoscopica, o meglio, ipermediale,
si è spostato dall’essere al disessere, cioè al mercato. La macchina
che si è messa in moto ha proporzioni tali da non rispecchiare il benché minimo
parametro personale: la spersonalizzazione, voluta da tali logiche, è il prezzo
da pagare. Come la desertificazione. È una follia oramai ingovernabile e inarrestabile. Non
esistono spazi di manovra, spazi esterni di nessun tipo.
Questo sistema di cose ha conquistato tutti gli spazi. Non
c’è angolo di mondo che sfugga alla sua “autoreferenziale” complessità. Il sistema è in grado di
crescere e di svilupparsi da solo, e la crescita è esponenziale. E’ un sistema, per molti versi, rinnovato, inedito. Di fronte
al quale siamo tutti al punto di partenza, siamo tutti uguali. Non si può
insegnare nulla a nessuno, perché di fronte al nuovo
siamo tutti nudi e disarmati. Si può solo partecipare alla società dell’informazione. E chi ha maggiori informazioni, vince.
Informazione e disinformazione, su questo dualismo si gioca la partita. Fino a
quando?
(papà)
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Pablo Docimo
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Caro Padre,
ah la dialettica, quale rovina di tutta una generazione!
Stiamo sul pezzo e andiamo con ordine.
Intanto, vedo che eviti di rispondere al mio “che fate,
generazione di blindati?” ma ci possiamo tornare più avanti. Ora, tu parli di
spersonalizzazione però, quasi come un contraltare,
personalizzi il sistema, lo fai godere di vita propria, attribuisci lui volontà, personalità, ambizioni, visioni e percorsi. Te ne senti succube e
schiavo tuo malgrado. Questo, forse, lo fai con un retaggio tipico della tua generazione, assumendo una coscienza collettiva come
soggetto pensante, genitrice (non sola, certo) del sistema e condizionante poi
gli stessi soggetti individuali da cui è generata.
Io non ho mai concordato con quest’approccio. Provo a spiegarmi, fuor di retorica.
L’assunto
di una coscienza collettiva e quindi di un sistema-soggetto, ha fondamento solo
se non si riconosce al singolo individuo né coscienza di sé né la
consapevolezza del sé come parte di un sistema, ovvero
del contributo che apporta. Io sono, io faccio e quello che genero si proietta
e si concretizza in un sistema onnivoro, indipendentemente dalla mia volontà.
Forse era vero in altri periodi storici – e non ne sono poi
convinto, basti pensare alla democrazia partecipata
dei nostri antichi padri – ma ora il gioco – e che gioco – è quello di capire
prima e sentire poi la responsabilità del contributo individuale ad un sistema collettivo,
sistema che, solo così, può essere espressione sistemica di distinte individualità.
Se poi, come vuole la scienza sociale, parliamo non di
singolo individuo ma di segmenti di società – con caratteristiche omogenee – questo micro sistema diventa
un macro sistema eterogeneo.
Quindi, non credo nel sistema ma credo in un insieme di
sistemi che fanno sistema.
Fin qui parliamo di sistemi sociali ma il modo che si è
dato l’individuo
di organizzare il suo essere collettivo – come vedi al materialismo storico
preferisco la ragion pratica di Kantiana memoria –
passa per uno strumento di valorizzazione del benessere che è il denaro.
Ecco il vero punto: il sistema economico. È di
questo che, secondo me, dobbiamo parlare. O meglio, è di questo che si parla da
un po’ di anni (Anthony Giddens, guarda caso sociologo e Rettore della London School of Economics – La terza Via ) ‒.
Allora valutiamo i sistemi.
Il sistema è sociale perché organizza la vita collettiva ed
è economico perché produce i beni utili alla vita della collettività. Dobbiamo vedere i due volti del
sistema e non appiattire l’uno all’altro. L’economia è un mezzo e non un fine (Se si confonde il mezzo con il
fine si perde qualsiasi battaglia). Il benessere – lo stare bene ‒ è
molto di più che essere economicamente ricchi. Siamo
noi a servire il sistema – atteggiamento succube e passivo e non foriero di
progresso – o deve essere il sistema a servire l’individuo e l’individuo a migliorarlo?
Il modo che si è dato l’individuo di governare se stesso, paradossalmente, non pone
l’individuo al centro (poi dovremmo parlare del passaggio dall’individualismo all’individualità) e lo fa sentire succube e servo dal sistema che egli
stesso ha generato.
Per cui, caro padre, essere dentro un sistema ha senso se
si partecipa al suo miglioramento.
Il tuo disessere è anche il mio. Ma non può essere tardi per fare. Quello
che non accetto è la resa. E la tua generazione, non ho ancora capito, è stata
sconfitta o si è arresa?… ammesso che abbia combattuto.
(continua…)
Pablo
(…)