di Isabella Horn

Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, Frankfurt, S. Fischer
Verlag, 2015.
Traduzione di Moshe Kahn
Dal 19 febbraio
2015, a quarant’anni dalla sua pubblicazione in lingua originale (Milano,
Mondadori, 1975), campeggia nelle librerie tedesche, stampato dall’editore
Fischer, il monumentale romanzo di Stefano D’Arrigo Horcynus Orca, romanzo
tra i maggiori della letteratura novecentesca.
Quasi
dimenticato in un’Italia che legge poco e, se e quando legge, preferisce letture
facili e veloci, il libro di D’Arrigo – fonte di poesia per una ristretta
cerchia di lettori ‘forti’ – è stato a lungo considerato scoraggiante se non
addirittura disperante per chiunque avesse voluto tentare l’impresa di
‘traghettare’ l’opera verso le sponde di un’altra lingua. Con le sue
innumerevoli innovazioni, locuzioni gergo-dialettali, creazioni, rivisitazioni
e reinvenzioni lessicali, suggestioni onomatopeiche, periodi ondeggianti e
spesso baroccamente dilatati, Horcynus
Orca presentava ostacoli insormontabili: appariva, insomma, un’opera intraducibile.
Ma ora, grazie
alla competenza e all’impegno tenace di Moshe Kahn (che a questo lavoro immane ha
dedicato molti anni, l’epopea darrighiana è approdata in Germania. Approdo quanto
mai felice e acclamato, stando alle prime reazioni sia della critica, sia del
pubblico tedesco: dove, per fortuna, non manca una cospicua fascia di lettori
esigenti, non appiattiti sui fin troppo diffusi bestseller di turno. Per loro,
il romanzo di D’Arrigo ha significato la gioiosa scoperta di una meraviglia
diventata finalmente accessibile. E, se l’accoglienza calorosa, anzi
entusiastica di Horcynus in terra
germanofona – nemo propheta in patria –
rende, sia pure parzialmente, una tardiva giustizia all’unicità di questo
capolavoro, il merito va senz’altro a chi ha avuto il coraggio, la costanza e
l’amore di tradurlo…: sfidando tutti gli ostacoli dello Scill’e Cariddi letterario.
Forse non è un
caso se la prima traduzione in assoluto dell’opera darrighiana è stata
realizzata in lingua tedesca. Primato che, probabilmente, non sarebbe
dispiaciuto a D’Arrigo: si tratti di una
‘felice coincidenza’ oppure di un arcano alchemico di lunghezze d’onda in sintonia,
l’autore di Horcynus Orca si è
laureato con una tesi sull’opera del tedesco Friedrich Hölderlin, poeta tra i più
complessi e più intensamente musicali…
Comunque sia, con
la sua grammatica labirintica, sorprendentemente duttile e plasmabile al di là
dei suoi apparenti rigori, con il suo lessico sterminato e ulteriormente
arricchito dalla possibilità di creare sempre nuovi neologismi grazie al ‘gioco
infinito’ delle parole composte, il tedesco offre indubbiamente uno strumento
privilegiato per l’avventura di tradurre il romanzo di D’Arrigo rendendone nel
modo più adeguato e sapiente possibile le invenzioni strutturali e lessicali
nonché gli effetti emotivi e/o evocativamente sonori di una scrittura poetico-musicale.
Infatti, al posto di una pedissequa – d’altronde impraticabile – traduzione
convenzionale, Horcynus Orca richiede al traduttore ben più di una a dir
poco perfetta conoscenza dell’italiano, lingua di partenza: occorre anche la
sensibilità insieme all’audacia di compiere una trasposizione nella lingua d’arrivo, vale a dire un’operazione essenzialmente
musicale. È quanto è riuscito a fare
Moshe Kahn, fine conoscitore della grande musica sinfonica (soprattutto d’un
Gustav Mahler). Il suo rappresenta infatti un lavoro di trasposizione da una lingua/tonalità di partenza (l’italiano) ad
una lingua/tonalità d’arrivo (il tedesco). Ora, benché, da un punto di vista
strettamente tecnico-musicale, la trasposizione di un brano non sia
particolarmente difficile, c’è tuttavia da osservare una regola fondamentale, irrinunciabile:
l’adattamento ad un’altra tonalità (che spesso significa anche l’uso di uno strumento
diverso da quello iniziale, previsto dal compositore) non deve alterare né snaturare o distorcere la composizione
originale che va mantenuta intatta, perfettamente riconoscibile come melodia e
ritmo. Il che, a seconda del rapporto tra la tonalità di partenza e quella
d’arrivo, può comportare il ricorso a tanto di diesis o di bemolle, pena
di tradire l’impegno di fedeltà al punto di partenza.
Nella
trasposizione musicale, l’unico elemento a cambiare di segno è il timbro ovvero
la qualità sonora in quanto ogni tonalità e ogni strumento hanno una loro
caratteristica o forza evocativa inconfondibile: basti pensare alla luminosità
solare del do maggiore oppure alle atmosfere tenebrose, inquietanti, talvolta
oltremondane del re minore.
Sennonché,
mentre per la trasposizione di un brano musicale esistono regole precise, da
seguire scrupolosamente, la regola di un brano letterario che si proponga di restituire
fedelmente la musicalità del testo originale, si presenta ben più complessa,
articolata e problematica. Il ‘traspositore’ non può, infatti, affidarsi ad una
tecnica preesistente al suo intervento, collaudata da secoli di ‘mestiere’ e
basata su una solida conoscenza dei rapporti tra gli intervalli musicali.
Condivide con il traspositore musicale lo scopo della resa perfetta della
tonalità/strumento/lingua di partenza nella tonalità/strumento/lingua d’arrivo,
ma senza disporre della ‘rete di protezione’ di leggi d’ordine matematico, atte
a garantire la riuscita dell’operazione. Le eventuali regole o ‘leggi’ della
trasposizione letteraria se le deve creare lui stesso, senza rete, a suo rischio e pericolo, ascoltando più l’intuito e
l’intelligenza emotiva che non la voce dell’intelletto cartesiano. In altri
termini, deve valutare e scegliere di volta in volta, pagina per
pagina, paragrafo per paragrafo, frase per frase e, a seconda dei casi,
addirittura parola per parola, se e come procedere nel modo da lui giudicato il
più giusto e idoneo per conseguire l’effetto (e l’efficacia) della restituzione
fedele alle intenzioni dell’autore, ma al contempo comprensibile e fruibile
nella lingua d’arrivo. Compito arduo che, per la trasposizione di un’opera
della portata letteraria e complessità stilistica di Horcynus Orca, esige il più alto livello di competenza linguistica,
senso estetico, sensibilità musicale, agilità mentale ed un’empatia tale da
fare del traduttore l’alter ego e il portavoce
dello stesso autore.
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Moshe Kahn
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Non c’è dubbio
che il romanzo abbia impegnato al massimo anche un traduttore/traghettatore di
lungo corso qual è Kahn. Tra le tante questioni da affrontare c’era,
innanzitutto, quella della terminologia gergo-dialettale: per esempio, come far
parlare in lingua germanica i pescatori siciliani o le “femminote”? Adottando
il platt delle regioni
settentrionali, costiere/insulari dello Schleswig-Holstein o del Mecklemburgo?
Soluzione improbabile, poco o niente credibile oltre che troppo banale, visto
lo stretto legame tra suono ed immaginario nordico. Ricorrere ai dialetti della
Germania meridionale (priva di mare) come lo svevo, il bavarese o l’alemanno?
Ipotesi altrettanto improbabile, per niente credibile oltre che fuori contesto
in quanto evocatrice di scenari boschivi e lacustri, alpini o prealpini.
Optando per una
delle poche strade percorribili senza esiti grotteschi, Kahn sceglie il
linguaggio comune, quotidiano, delle persone semplici; con frequenti
intercalazioni in lingua originale (p. es., focu,
focu meo; per la Madò) seguite dal corrispettivo tedesco (o Feuer; HeiligeJungfrau). Oppure, in
alternativa, adotta modi arcaici, caduti in disuso come gangt! per rendere l’imperativo iate!
– onde evocare l’atmosfera di un mondo e un modo di parlare antico, in via di
estinzione.
In ogni modo, la
soluzione privilegiata (e senz’altro la più attendibile) rimane quella della
parlata corrente, diffusa e compresa nell’intero territorio tedesco: p. es., “Habt Ihr Angst?” (“Vi spagnaste?”); die armen Kerle (sti meschinelli);
Weiberheld (femminaro); Arschhocker
(culiseduti); “Habt Ihr jetzt Euer Mütchen gekühlt?” (“Vi
scapricciaste”?); Göttin (deissa); Bengel (muccuselli); Werter Herr (Vossia), termine
efficacemente anticheggiante;“Habt Acht auf Euer Leben!” (Accùra alla vita); Steuermann (filere); Klagen (dolidoli);
ecc.
Le ricche
possibilità del tedesco nella creazione di neologismi facilitano la
trasposizione di termini quali nonnave,
felicemente e fedelmente reso, anche a livello ‘musicale’, con Ohmahninnen.
Flacco
flacco raddoppia agevolmente in mattmatt; questa milleunanotte (di difficile comprensione per un lettore tedesco)
mutando nell’aggettivo sostantivato diese
Tausendundeinnächtige risulta magicamente evocativa e perfettamente
comprensibile anche se inconsueta; corridore/scorridore
si rispecchia in Wellenpflüger/Wellenflieger; essi vanno e le femmine stanno si
risolve nella rima sie eilen und die
Frauen verweilen; regno e sdiregno si traspone senza
problemi in Reich und Unreich.
Al suggestivo acconchigliato fa eco con naturalezza la
versione tedesca, altrettanto suggestiva, eingemuschelt;
miria e miria trova il suo
equivalente in Abermyriaden, chichiunque nel ricalco jedjeden. Spigare si risolve agevolmente
con aufschiessen (= svettare,
crescere, detto sia delle piante che
delle persone); di mastro e mastria viene
efficacemente trasposto in mit dem Können
eines Meisters (= con l’arte/la sapienza di un maestro-mastro).
Riuscitissimo,
poi, parlando dell’Orca come Morte marina,
il neologismo assoluto, audace ma non azzardato, die Tödin des Meeres, onde rendere l’idea della Morte femmina/Orca
femmina (mentre in tedesco la morte è maschile come il greco thanatos).
Ci sono tuttavia
i casi – frequenti – in cui, contrariamente a quanto avviene in musica, una
trasposizione esatta risulta davvero impossibile. A questo punto, il
traghettatore si vede costretto ad una doppia operazione: quella di trasporre interpretando/spiegando –
senza mai tradire/stravolgere lo spirito dell’autore. Operazione che richiede,
pertanto, ‘giri di parole’ talvolta anche lunghi e tortuosi, ma necessari per ‘aggirare’ un ostacolo altrimenti invalicabile. Di
conseguenza, tali giri/aggiramenti (che
devono essere sia esplicativi, sia stilisticamente validi) portano
immancabilmente ad una lievitazione del testo nella versione d’arrivo. Vediamo
alcuni esempi di trasposizioni/soluzioni
interpretative:
Essi stilavano la campanella ‘funziona’
in italiano, ma non in tedesco dove occorre un più dilatato in dieser Gegend war die Glocke durchaus
üblich (= in quella zona la campanella era senz’altro in uso) perché il lettore capisca/fruisca fino in fondo. Lo scill’e cariddi viene “presentato” come die Meere von Skylla und Charybdis; s’alloppiano (le fere) si risolve con il
giro (sie) verfallen in einen Opiumrausch (= sprofondano in un’ebbrezza
oppiacea); riconco di borie e reme diventa
il più laborioso Gewirr von aufgeplusterten
Winden und Stömungen (= groviglio di venti e correnti rigonfi); l’iperespressiva
locuzione un’iradiddio –
incomprensibile per un lettore tedesco se tradotta alla lettera – è resa con ein Wunderwerk Gottes (= una meraviglia
divina), meno intensa ma comunque aderente al concetto.
E ancora: il
suggestivo quanto conciso far sangue,
per significare l’attrazione erotica, muta nel più lungo das Blut in Wallung bringen (= far ribollire/agitare il sangue):
modo di dire tedesco per descrivere l’effetto di una violenta emozione
psicofisica.
E ancora: il
termine quelle sbordellate (come
Ciccina Circé definisce con disprezzo le “femminote” compaesane) ha bisogno,
per risultare comprensibile, dell’aggiramento esplicativo dieser Puffabfall (= questi rifiuti da bordello); voleva smagarla viene trasposto/spiegato
con il ben più lungo er wollte den Zauber
aus ihr bannen (= voleva scacciare il sortilegio da lei); vava è reso con Neugeborenes, Säugling (= neonato, poppante); il conciso quanto
visceralmente complesso Misdea,
locuzione/concetto inaccessibile per un lettore germanofono, viene prima
tradotto/illustrato ‘metaforicamente’ con Blutbad
(= bagno di sangue, massacro, macello): per cui – grazie alla precedente
spiegazione –, in un secondo momento la frase una misdea d’ossa può essere più agevolmente e fedelmente resa con eine ‘misdea’ von Knochen . Terribilio muta in Naturgewalt (= forza/potenza
della natura); quel diocenescampi di
fetore trova una trasposizione azzeccata in diesen gottverdammten Gestank ( = quel fetore dannato da Dio); allionarsi (riferito al solleone, idea
lontana da un immaginario/lessico che vede nel sole un’entità femminile e
parla, p. es. nelle fiabe e nelle canzoni, di Frau Sonne – la Signora Sole
– muta in das Löwenhaupt schütteln (= agitare/scuotere la testa leonina,
alludendo alla criniera del leone maschio).
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Tra Scill'e Cariddi
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Ci sono infine
alcuni rompicapo particolarmente ostici perché basati su modi di dire di
un’area o regione (siciliana o comunque meridionale, nel caso del romanzo
darrighiano): modi di dire ignoti non
solo in Germania, ma, per di più – in quanto estranei al contesto antropologico-culturale
germanofono –, senza alcunché di equivalente o corrispondente, o almeno affine,
nel pure cospicuo frasario dei proverbi e/o modi di dire tedeschi.
Si prenda una
locuzione tanto espressiva come con una
mano davanti e una di dietro, tutt’altro che infrequente in Sicilia e, in
fin dei conti, comprensibile anche per un italiano del Centro o del Nord.
Invece un fruitore tedesco, a meno che non abbia una discreta conoscenza della
lingua italiana e sia magari stato in Sicilia, di fronte alla traduzione
letterale di un simile modo/pensiero rimane per lo meno perplesso e, per capire
fino in fondo, ha bisogno della spiegazione sapientemente aggiunta da Moshe
Kahn nämlich arm und nackt (= cioè povero e nudo). Lo stesso dicasi della
frase la vede pietrepietre con la sua
regata, concetto difficile a tal punto da richiedere la circonlocuzione esplicativa
er sieht, wie sich seine Regatta in Luft
auflöst (= vede come la sua regata si volatilizza: l’aria, nell’immaginario
tedesco, prende il posto delle pietre!). Per non parlare del piede di canzone, locuzione che resiste,
in tedesco, a qualsiasi tentativo di traduzione o trasposizione, per cui
l’unico modo di renderla accessibile – anche se solo approssimativamente –
rimane l’empatica sensibilità del traduttore, con l’espediente di un lungo giro/aggiramento
interpretativo.
Talvolta, la traduzione/trasposizione
di Kahn opta, secondo criteri di scelta da lui delucidati nelle note aggiunte
alla versione tedesca, per il mantenimento (o quasi) di alcuni termini particolarmente
significativi nello svolgimento dell’opera di D’Arrigo. Ciò vale, p. es., per pellisquadre, parola perfettamente
traducibile con Haihäute (= pelli di
squalo), ma riportata invariata in quanto comprensibile nel e dal contesto del
romanzo. Lo stesso dicasi di fere
parlando dei delfini come animali feroci
e malvagi anche se giocherelloni: l’uso ricorrente del termine e la frequenza di
episodi con i delfini protagonisti bastano da soli perché il lettore, dopo un primo
impatto estraniante, entri nella storia senza ulteriori spiegazioni.
La creazione
darrighiana arcalamecca (per accennare
ad una specie di arcano suscitante stupore e meraviglia) viene ‘germanizzata’
in Arkelamekk, cambiando in e la a
finale di arca onde agevolare la
trasposizione nel tedesco – come sottolinea Kahn –, cioè la ‘trasformazione’
dell’arca in barca (Barke in tedesco).
Continente è reso con Kontinent ribadendo nelle note quanto il
lettore avrà senz’altro dedotto dal contesto: vale a dire, che si tratta della
definizione usata dai siciliani (insulari) per indicare la terraferma. Vengono
infine mantenuti invariati i nomi
specifici di alcuni tipi di imbarcazioni/pescherecci (inesistenti nei mari e
nelle zone costiere dell’Europa settentrionale) quali ontro e palamitara (barca
tradizionale per la pesca artigianale del tonno).
Gli effetti del
passaggio dalla tonalità/strumento/lingua di partenza (l’italiano) alla
tonalità/strumento/lingua d’arrivo (il tedesco) si possono pertanto descrivere
approssimativamente (non di certo esaurire) nel seguente modo:
1.
Comportano la scelta obbligata di una
tonalità discendente (più bassa rispetto a quella di partenza: il tedesco, più
povero di vocali (che d’altronde, nel pronunciarle, sono spesso penalizzate con
una articolazione ‘sbavata’ che tende a ‘mangiarle’) e abbondante di consonanti
soprattutto occlusive implica, necessariamente, l’incupimento/indurimento/inasprimento
dovuto alla gutturalizzazione del ‘livello musicale’. Il che non sempre
rappresenta uno svantaggio, in quanto la ricchezza onomatopeica del tedesco ben
si adatta a evocare sonorità marine/oceaniche come quelle di Horcynus Orca (basta leggere – o rileggere – a questo proposito la celebre
ballata Der Taucher di Friedrich
Schiller. Oppure il magnifico finale ‘marino’ (e precisamente mediterraneo!) della
Klassische Walpurgisnacht nella seconda
parte del Faust goethiano). Per cui, pur
cambiando – ovviamente – di ‘timbro’, la qualità
musicale è mantenuta e rispettata, condizione irrinunciabile per una
trasposizione in piena regola. Del resto – parlando di musica – quale appassionato di composizioni classiche sarebbe
pedante al punto di rifiutare come ‘eresia’ p. es. una riscrittura per flauto o
corno o addirittura orchestra della nota Serenata
di Schubert, purché sia fatta bene, cioè salvaguardando le intenzioni e lo
spirito del compositore, oltre che osservando le leggi musicali?
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La prima edizione di Horcynus Orca (Mondadori, 1975)
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2. Comportano, a seguito della frequenza d’un inevitabile ricorso a giri
di parole esplicativi/interpretativi – pena l’incomprensione da parte del lettore
tedesco – una lievitazione/dilatazione della
versione d’arrivo rispetto al già monumentale testo di partenza: le 1257 pagine
di Horcynus in lingua italiana
aumentano fino alle ben 1454 (escludendo le note aggiunte e la postfazione di
Moshe Kahn) della traduzione tedesca. I periodi s’allungano ulteriormente, le
‘ondosità’ maestosamente barocche rotolano con una lentezza ed ampiezza perfino
superiori a quelle dell’originale italiano. Il che, ancora una volta, non va a
scapito della qualità letteraria/musicale in quanto rispetta il codice di base,
profondamente e musicalmente ‘oceanico’, della scrittura darrighiana. Infatti,
nell’ambito specificamente musicale, tale operazione corrisponderebbe, a
livello interpretativo, ad un ‘allungamento’ (= rallentamento) dei tempi, p.es.
dell’esecuzione di una sinfonia beethoveniana o di una ouverture wagneriana – in totale contrasto con l’innovazione dei
tempi ‘dimezzati’ (= accelerati) in voga da Karajan in poi, ma non per questo
estranei allo spirito del compositore. Con la differenza di fondo che, mentre i
tempi interpretativi di un brano musicale sono spesso frutto di una
visione/scelta direttoriale (talvolta discutibile o persino arbitraria), nel
caso di una trasposizione letteraria dipendono, necessariamente, dalla
diversità ‘fisiologica’ tra la lingua di partenza e la lingua d’arrivo: i tempi
fisiologici dell’italiano sono oggettivamente più veloci di quelli del tedesco,
incapace di ‘scorrere’ melodioso perché impedito dalla sua scarsità di vocali.
3. Comporta infine – fatalmente –
una perdita di specificità linguistica territoriale/regionale dovuta alla già
accennata problematicità di ‘traghettare’ locuzioni di stampo
dialettale/gergale verso una sponda dialettale/gergale diametralmente opposta
e/o comunque estranea all’immaginario
del codice di partenza. In poche parole, la versione d’arrivo risulta, in
qualche modo, meno mediterranea e/o
insulare per la mancanza di corrispettivi mentali e perciò espressivi. Si
tratta però – sia ben chiaro – di un effetto ‘collaterale’ assai sottile,
percettibile forse a un soggetto perfettamente bilingue, e pertanto ininfluente
per la comprensione ‘globale’ di un lettore tedesco attento e sensibile che (ac)coglierà
ed apprezzerà l’epica mediterranea di D’Arrigo nel suo insieme anziché nei suoi
risvolti linguistici inconfondibilmente siciliani (per il lettore italiano).
Lo stesso processo si verificherebbe, d’altronde, in un ipotetico caso
inverso. Se un esperto in regionalismi dialettali tedeschi avesse la quanto mai
bizzarra idea di tentare una traduzione di
Ut mine Stromtid di Fritz Reuter (1810-1874), scritto
interamente in platt mecklemburghese,
il risultato del passaggio da un linguaggio dialettale/regionale (il ‘basso
tedesco’ delle pianure e zone costiere del Nord) ad un italiano inevitabilmente
comune e livellato sarebbe, tra l’altro, la perdita parziale del carattere settentrionale
dell’opera nonché del suo umorismo sornione e ‘sottotono’, piuttosto lontano dal
sentire del lettore italiano medio.
Al di là di questi ‘effetti collaterali’ e di
quanto, a seconda del contesto, aggiungono o tolgono al caso specifico di
qualche locuzione o frase, la fatica di Moshe Kahn adempie perfettamente alle
condizioni irrinunciabili per la riuscita di una simile operazione di
‘traghettamento’, e sono precisamente quelle della trasposizione musicale oltre
che di una traduzione tecnicamente valida. La versione tedesca restituisce cioè compiutamente
e fedelmente lo spirito del testo originale e la bellezza poetica del
linguaggio darrighiano salvaguardandone l’andamento oceanico, la musicalità e
le innovazioni lessico-strutturali al punto di assumere valenze creative o per lo meno ‘co-creative’.
Pertanto il lettore tedesco ‘forte’ ma anche
e soprattutto sensibile ne può cogliere ed apprezzare appieno il respiro profondo e dilatato, le immagini
oniricamente baroccheggianti, la visionarietà mitico-metafisica, la plasticità
sonora e la ricchezza lessicale. Valga a titolo d’esempio la scena finale,
senz’altro una delle chiuse più toccanti – se non la più toccante, con quel suo strazio infinito –
della letteratura novecentesca:
Testo di
partenza (italiano):
Masino pensò, pensava solo a portare ‘Ndrja
al duemari: solo quel pensiero sentiva, pungente, doloroso, dominante e
commosso, nella sua mente. E con quel pensiero, gli pareva di speronare e
scavare il mare davanti alla lancia, con quel pensiero barbaro, pietoso, lo
riportava al loro mare.
“Oooh…oh…” gridava: e gridava al mare
medesimo, lui in persona spronava, speronava.
Allo
scuro si sentiva lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli
come l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato, dentro i petti.
La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli,
come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più
dentro dove il mare è mare.
Testo d’arrivo
(tedesco):
Masino dachte, dachte unausgesetzt nur daran, ‘Ndrja wieder an die
beiden Meere zu bringen, einzig diesen Gedanken empfand er stechend,
schmerzhaft, beherrschend und bewegend in seinem Kopf. Und unter diesem Gedanken
war es ihm, als würde er das Meer durchrammen und es vor dem Boot zerteilen,
unter diesem barbarischen, erbarmungsvollen Gedanken brachte er ihn zu ihrem
Meer zurück.
“Hooo…ho…”, schrie er, und er schrie das Meer selbst an, er selbst gab die
Sporen, er selbst durchrammte es.
In der Dunkelheit hörte man das
wildwütende Gleiten der Barke, und das Schluchzen der Milchbärtigen wie das
Echo eines sanften, dumpfen, eines warmen und gebrochenen Widerhalls in ihrer
Brust. Das Boot glitt hinauf zu den Meeren zwischen Skylla und Charybdis, unter
den zerrissenen Seufzern und Klagen der Jungs, wie in einem Meer von Tränen,
das mit jedem Ruderschlag entstand und wieder verging, drinnen, tief drinnen,
wo das Meer ist, das Meer.
Non c’è bisogno
di essere bilingue per rendersi conto, a colpo d’occhio, della
lievitazione/dilatazione della versione tedesca (con riferimento al paragrafo
riportato in grassetto). Aumentano e, soprattutto, si allungano/appesantiscono le
parole (71 contro 67, con 365 caratteri/battute contro 293); mentre diminuisce
il numero delle sillabe (da 129 a 117) determinato dalla presenza/assenza di
vocali e/o dittonghi, il che comporta la ‘tonalità discendente’ dovuta all’inasprimento/incupimento/gutturalizzazione
del suono/timbro nella lingua d’arrivo (tenendo conto anche della pronuncia
tipicamente tedesca che, enfatizzando la sillaba radicale – di solito
coincidente con quella iniziale – tende alla quasi soppressione delle vocali
della sillaba finale).
Sorprendentemente,
rimane invece pressoché invariata la
quantità degli accenti (corrispondenti alla funzione delle ‘battute’ musicali):
“In der Dúnkelheit hörte man das
wíldwütende Gléiten der Bárke, und das
Schlúchzen der Mílchbärtigen wie das Écho
eines sánften, dúmpfen, eines wármen und
gebróchenen Wíderhalls in ihrer Brúst.
Das Bóot glitt hináuf zu den Méeren zwischen Skýlla
und Charýbdis, unter den zerríssenen Séufzern und Klágen der Júngs, wie in einem Méer von Tränen, das mit jédem Rúderschlag entstánd und wieder vergíng, drínnen, tief drínnen, wo das
Méer ist, das Méer” . Alle trentuno ‘battute’ del testo originale fanno eco le
trentatre (per chi avesse la pazienza di contarle) della versione d’arrivo
dando luogo ad un ritmo che rispecchia musicalmente quello darrighiano: lo si
noti nella cadenza finale wo das Meer
ist, das Meer, fedele e felice ricalco dell’italiano dove il máre è máre, grazie ad una sapiente
trasposizione (in senso letterale) ovvero ‘licenza poetico-musicale’ che, senza
tradirne il senso profondo, ne sposta
le parole (pedissequamente, la traduzione dovrebbe recitare wo das Meer Meer ist) a beneficio
dell’ineguagliabile, oceanico ritmo di Horcynus
Orca.
Ora, se insieme
alla melodia il ritmo è uno degli
elementi costituenti della musica e, pertanto, della musicalità del linguaggio di un’opera letteraria soprattutto se poetica
– e il romanzo di D’Arrigo lo è a tutti gli effetti – una traduzione/trasposizione
deve impegnarsi al massimo per restituire l’andamento ritmico del testo
‘traghettato’, evitando di sminuirlo. Moshe Kahn, da ‘traghettatore-musicista’
comunica al lettore germanofono, compiutamente, l’oceano sonoro di Horcynus, con l’infinito dei suoi marosi e cavalloni, delle sue distese e
bonacce, dei suoi anfratti e abissi, dei suoi misteri e segreti insondabili, e
della sua Morte marina, la Tödin des
Meeres.

Stefano D’Arrigo (1919 – 1992)