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Giancarlo Buzzi: la scrittura come pensiero-forma


      
È morto lo scorso maggio lo scrittore lombardo, nato a Como 86 anni fa. Autore di grande qualità in chiave espressiva e concettuale di romanzi come “Il senatore” (1958), “L’amore mio italiano” (1963), “Isabella delle acque” (1977), “L’impazienza di Rigo” (1997) e il magnifico “Dell’amore” (2004). Lavorò come dirigente d’azienda e pubblicitario, firmando il saggio “La tigre domestica” (1964), il primo libro in Italia a riflettere sulle questioni sociali, culturali e politiche relative alla pubblicità.
      



      

 

 

di Mario Lunetta

 

                                                            

 …a un giovane importa di più

essere bello che credere in Dio.

                                                             

GEORGES  BERNANOS, Un mauvais reve

 

 

Come si sa, più che un paese di intensi spiriti religiosi l’Italia è un paese religiosamente conformista. Chiese e funzioni sono frequentate soprattutto la domenica, e perlopiù in orari comodi. Da noi religione e sacrificio non vanno precisamente d’accordo: e alzarsi presto nei giorni festivi sembra che davvero non valga una messa, anche se quest’ultima è la rappresentazione simbolica di un sacrificio supremo.

La cultura, per sua storica consuetudine e suo storico abito mentale, in massiccia misura si adegua. Si è sempre adeguata. La laicità non è mai stata il suo forte: e la letteratura non fa eccezione. Cattolica, o “cattolica” per assuefazione più che per tradizione, e ancor più per quieto vivere, ha trovato in un autore di grossa taglia come Manzoni il proprio alibi ferreo, che in modi apertamente subalterni o in modi più sottilmente mascherati non ha mai cessato di lucrare, fino a D’Annunzio (incredibile dictu) e a Gadda. La sparuta, eppure non di rado eccezionalmente vivida linea laica, non è mai andata oltre l’udienza ristretta di pochi gruppi sociali rocciosi e testardi, invariabilmente tacciati di fanatismo settario. La storia intellettuale del paese è lì a dimostrarlo, e di tale giostra può offrire in buon numero, come ognun sa, esempi pittoreschi ed eroici: di abiura miseranda (in quantità cospicua) o di coerenza indefettibile (in quantità decisamente esigua). Non appaia quindi eccentrico il fatto che nella letteratura italiana degna del nome siano assai rari personaggi di religiosi e tematiche ecclesiali o ecclesiastiche: meglio non toccare certi tasti, anche se rispettosamente, Dio ne guardi. Meglio non compromettersi.

Un autore come Giancarlo Buzzi fa eccezione, e tanto più sorprendente e significativo è il suo esempio, in quanto l’autore di Isabella delle acque non ammorbidisce di alcuna unzione la sua laicità, anzi lo si direbbe perfino impegnato a parodizzare dall’interno la lectio manzoniana, lui lombardo con tutti i crismi, e alla cultura lombarda sia di specie umanistica che di specie scientifica legato da mille fili tenaci ora visibili ora sotterranei. Quel romanzo esplicitava in una rete di grandi dinamismi retorici e di sulfuree accensioni poetiche l’àmor, o magari la passio, del suo autore: quelli per la lingua, intesa e vissuta non come involucro quanto si voglia stupefacente di certi “contenuti” di arduo approccio e di sottile trattazione, ma come corpo, organismo in perpetua metamorfosi, proteiforme e certo inattingibile in profondità mediante la bolsa categoria della Fedeltà, che nel beato Novecento “ermetico” e “neorealistico” ha stancamente etichettato più di un buon vino letterario, con una scotomizzazione orgogliosa delle proprie pigre miopìe.

Magnum opus davvero, quel libro buzziano: da leggersi quando vide la luce come un’altra via di ricerca innovativa (sperimentalismo paradossale, iperlinguismo sarcastico) rispetto a quella grandiosamente espressionistico-barocca di Gadda, e – ça va sans dire – come ripulsa carica di disgusto e di nuovo orizzonte nei confronti di quel mediocre “realismo” di memoria e di nostalgia – la Provincia Italiana Eterna!, potremmo dire – sotto la cui marca meschina ancor oggi vengono spudoratamente offerti/imposti alla tolleranza di lettori sempre più inebetiti, pacchettini precotti pronti ad essere trasferiti sul piccolo schermo delle cosiddette fiction. E da rileggersi oggi, anche sulla scorta attiva di romanzi successivi come L’impazienza di Rigo (1997) e l’odierno Dell’amore (Aliberti Ed., 2004), come riaffermazione del primato della parola-pensiero su tutti i minimalistici manierismi emotivo-narcisistici di cui, con l’apporto decisivo di un’“icona” ormai santificata come Pasolini, la nostra perlopiù mediocre narrativa non smette di essere portatrice.

Parola-pensiero: come dire pensiero-forma. Forma anche, e necessariamente, filosofica: in prosecuzione, appunto, del lavoro dei nostri classici più resistenti e più indigeribili. La scommessa, ancora e in opposizione radicale, della letteratura contro la simil- e contro la trivial-: con piglio da “eroici furori”, avrebbe detto il Nolano; con saldezza “eroica” avrebbe detto il Recanatese. Che poi i lettori di certe straordinarie testualità del nostro Giancarlo non siano proprio legione (come di contro non cessiamo di ardentemente augurarci), può anche infastidire: ma resta comunque questione di sociologia della letteratura, o della lettura, in questi lividi tempi spensierati (intendo: privi di pensiero, naturalmente).  





Giancarlo Buzzi (1929-2015)


In recensione al primo dei due appena ricordàti romanzi dello scrittore lombardo scrivevo, mi si perdoni l’autocitazione, che “il progetto narrativo buzziano, e la resa linguistica che lo incarna, contemplano una moltiplicazione di pesantezze talora vertiginosa, che per tutto l’arco della narrazione non cessa di farsi carico del proprio contrario. Non, quindi, l’arte del cavare presiede alla ricchissima operazione di Buzzi, ma l’arte del proliferare. È chiaro allora come sotto la crosta, pure assai solida, di vicende realisticamente e concretamente scolpite, si agiti una serie strabiliante di piste devianti, di rivoli intricati, di gestualità stilistiche contraddittorie, di deliranti tour de force riflessivi, a cavaturacciolo, a cannocchiale: un magma sempre comunque strenuamente regolamentato e governato da una coscienza del linguaggio di prim’ordine, e che indurrebbe a azzardare la formula di realismo irrealistico o, se più piace, di realismo congetturale, secondo la nota indicazione di Louis Aragon”.        

Il precedente gran dittico di Isabella (1975-77) si snodava su un’azione che si sarebbe detta provocatoriamente povera. Gli eventi che vi accadono rientrano quasi completamente nel dominio delle dinamiche mentali, più precisamente congetturali, appunto; e delle pulsioni psico-istintuali. Tutto, gesti, pensieri, parole degli attanti, sono filtrati da una sorta di crivello serico che li disincarna fin quasi alla dissolvenza. Essi funzionano, insomma, principalmente come finzioni e simulacri che di volta in volta, istante dopo istante, l’energia babelica di una scrittura che pare debordare da tutte le parti ma che è in realtà governata da una specie di implacabile furor logico, riempie e vivifica di sensi plurimi e di plurali sensualità, in una catena di grovigli immersi ora in un torbido brodo allegorico, ora in un’ altrettanto allegorica trasparenza.

A partire da quell’exploit, Buzzi ha elaborato con sempre più libero e puntiglioso impegno una lingua “metateologica”, che si contrappone criticamente a quella benevolmente teologale dell’autore dei Promessi Sposi, per farsi progressivamente più terrena e “realistica”, fino alla mimesi brutale, liberando i propri spiriti deliranti e lucidissimi in un plurilinguismo che nel suo macrocorpo fa coabitare con straordinaria vitalità l’italiano colto (coi suoi corrispettivi triviali), il latino, il greco, l’inglese, il francese, il tedesco, lo spagnolo, il meneghino: per funzionare, al dilà di ogni rischio di manierismo molecolare e mosaicale, come una macchina al tempo stesso compatta e effusiva, condensata e dispersa, coesa e esplosiva, perché obbediente a una filosofia della comunicazione cui ripugna qualsiasi concessione demagogica, in quanto muoventesi entro un orizzonte che fa della complessità del messaggio la propria ragione, quindi la propria forza. 

C’è un’aporia attiva, nel gioco strategico di Buzzi, e consiste nel fatto che – quasi in ironica contrapposizione – egli investe le sue tematiche teologico-pastorali di una scrittura capace anche di far scorrere senza posa nelle sue arterie un energico sangue materialistico. Lo spiritualismo di certe situazioni, così, si trova a districarsi in una serie di gorghi di accentuata corporalità. La divaricazione possibile si realizza in pura sintesi, perché il rapporto di Buzzi con la vita è complesso, costituito da insiemi la cui radice è ineluttabilmente unitaria, proprio come il suo rapporto con la scrittura. Niente facile ideologia, nel filosofico e fisiologico autore di Dell’amore. Nessuna esaltazione, nessuna alterazione, nessuna isterìa misticheggiante del tipo, mettiamo, di quelle un po’ troppo care al pur notevolissimo Bataille (più quello di Le bleu du ciel che quello, ben più celebrato, di Ma mère, ovviamente): ma solo una disposizione laica, da illuminista che accetta tutto senza stupore ma al tempo stesso con fresco gusto della scoperta, senza meraviglia o scandalo ma invece con una voglia generosa di partecipazione e quasi di complicità. Una visione razionale e disincantata del mondo che è anche, per spregiudicata energia di intelligenza, visione erotica. Qualcosa che, per forza di cose, contiene – detta o soltanto allusa – una sua acuta politicità: fatta ovviamente di consapevolezza dei rapporti di forza tra individui e gruppi, singole personalità e classi, spessori rugosi del sociale e agilità astute dell’immaginazione.

 

Se c’è qualcosa che dell’astuzia non si avvale, in un romanzo come Dell’amore, è proprio il titolo: più che una citazione, una dichiarazione di appartenenza, o di somiglianza, all’immortale club dei libertini il cui nume tutelare è per sempre il “milanese” Henri Beyle. E proprio non si saprebbe stabilire con precisione quanto intenzionali o quanto elaborati dall’inconscio di Buzzi, per simpatia riconoscente, siano certi motivi che in De l’amour di Stendhal e in Dell’amore del Nostro vibrano di consonanti rimandi: “De l’espérance”; “Du courage des femmes”; “De l’éducation des femmes”; “Qu’est-ce que le plaisir?”: temi e suggestioni che dalle pagine luminose dell’autore di Le Rouge et le Noir paiono riaffiorare con altra vita e altro suono, altri sensi e altra musica, in quelle – tormentate e labirintiche al pari di codici di manoscritti di un qualche impossibile Mar Morto della postmodernità – del libro di Buzzi. Nel cui paesaggio, ove si alternano con mescidazioni continue e repentini dérèglements, laghi di quiete e di tenerezza e crepacci e forre di angoscia, davvero la saggezza e la fantasia della Donna, la sua sensualità e – soprattutto – la sua capacità d’amore, brillano nella foschìa opaca dell’inquietudine o nel buio della disperazione: foschìa e buio in cui tutti si muovono, protagonisti e comprimari, per tratti più o meno lunghi, più o meno ricorrenti: il parroco don Clemente, forte di un suo “non cieco e ottuso tradizionalismo”; il suo vicario Gabriele, giovane dotato di “una fede discontinua, con sempre più brevi momenti di intensità”; il vescovo Anacleto Bertacchini, “uomo di vaglia, all’occorrenza severo ma mai incomprensivo o rigido”; la bella, desiderabilissima Matilde, non disdegnosa di amori saffici; sua figlia Ada, anche lei bella e intelligente, ma inchiodata alla carrozzella da un handicap pesante, tra le quali due si trova ad altalenare il sempre più turbato vicario. Egli sa di amare Matilde e di essere amato da Ada. È attratto fortemente da entrambe, ma al contempo molte delle sue riserve di amore sono dedicate agli ospiti dell’istituto per disabili denominato “Agàpito”, di cui intensamente si occupano sia lui che don Clemente, e che si regge con buona efficienza grazie alle capacità manovriere di quest’ultimo, che ha coinvolto nell’impresa un grosso industriale.





Nell’intero svolgimento di Dell’amore scorre carsicamente la convinzione che “il nostro è basilarmente un mondo di madri coraggiose e di padri vigliacchi”, come dice Matilde a suo marito Lucio. È l’ammirazione dello scrittore per il femminile, quando sia cosciente di sé e della sua presenza. Così in questo luogo separato, e quindi in tutto il romanzo, c’è alternanza ballerina di eros e thànatos, ovviamente senza un briciolo di fantasticherìa pararomantica, ché a incenerirne la più flebile fiammella pensa la lingua di Buzzi, sempre visiva e ragionativa, caldamente esposta e insieme regolata su un pentagramma mentale intransigente. L’amore, quindi, in tutte le sue manifestazioni, tiene il campo sia come pratica perfino violenta e “mostruosa”, fino all’incesto (vissuto dai due partners – una madre e un figlio disabile ospite dell’istituto – sia come equivoco sacrificio che come fonte di eccitazione peccaminosa: per cui, la confessione della donna resa a don Clemente è certo uno dei passaggi più poeticamente drammatici del romanzo, e alla fine – forse – l’éclat voraginoso attorno a cui tutto il resto si muove e quasi sprofonda). E la lingua di Buzzi è questa: “Gabriele sospirò. Sapeva che Ada lo amava, come lui Matilde. Inutilmente, se di adesione a un corpo spastico egli non si sentiva capace. Non bastavano grigiazzurrità d’occhi su magrore come lunato di viso, densa biondezza di capelli, spicco di labbra morbide, seduttivo sorriso, finezza di mani, prorompenti intensità di spirito e di intelligenza, sensualità, e la toccante evidenza di una voglia di vivere in lotta con quella di morire. Quella modalità dell’amore che implicava contatto anche corporale lo respingeva da Ada, da cui pure era attratto. Ma al di là del rifiuto e della repulsione, quel corpo, come gli altri difformi che praticava, lo faceva acerbamente soffrire, riproponendogli la misteriosità dell’amore, della sua essenza e del suo nome. Indefinibile ed elusiva essenza, dietro innumerevoli forme parvenze componenti riflessioni. Che cosa semplicizzava e apparentava i suoi amori per Matilde, per Ada, per gli ospiti straziati e strazianti dell’Agàpito, per i lieti e i tristi, i ricchi e i poveri, i fortunati e gli sventurati, i buoni e i malvagi? Insufficienza e inadeguatezza del nome? Del nome amore rispetto non all’essenza amorica ma alle sue figure e ai suoi modi esistenziali? Forse amore era solo quello di Dio e quello per Dio nell’anima liberata di ogni presenza altra dallo stesso Dio? Tutto dunque vanità, anche le rose, anche la presenza offertoria di rose su un altare? Ma se così, perché Dio giorno dopo giorno avrebbe detto fiat e si sarebbe compiaciuto degli esistenziamenti? Perché Gesù avrebbe in benignità e festevolezza moltiplicato pani e pesci, fatto di acqua vino, gradito profumi, e si sarebbe seduto a una tavola pasquale? Non si sentiva, Gabriele, colpevole perché prete amava Matilde e la voleva anche fisicamente. Altro era ciò che lo ansiava, altrove – ma dove? – la colpa dalla quale pure si sentiva punto. Non poteva essere nel cercare risposta all’irrispondibile”.

 

Una prosa di straordinario respiro, e – anche al dilà di questo prelievo minimo in un libro di 341 pagine – di andamento esplicitamente o segretamente interrogativo. Una prosa che mentre esprime, racconta, mette in scena (con tutta la tensione anche teatrale che si snoda nel romanzo), non cessa di conoscere se stessa, di porre (e porsi) quesiti, problemi, perplessità: perfino con sottigliezza “bizantina”, o da controversista barocco travestito, e sempre in prossimità del vuoto e del nulla: leopardianamente, insomma. Un’architettura di enorme complessità, retta da una sapienza retorica di classe superiore costantemente vivificata da una sorta di gusto non poi troppo lontanamente thriller, da un alternarsi dei ritmi e dei tempi diegetici assolutamente magistrale: e in cui il funambolico divertissement filologico-filosofico di Buzzi si scapriccia nell’invenzione di neologismi o nella torsione astrattiva di sostantivi correnti che di colpo assumono una finto-sublime, quindi acremente ironica e paròdica dignitas: e siamo allora, con delizia delle nostre papille linguistiche, in presenza del comico più smaliziato e perché no, invisibile.

C’è anche, nel libro di Buzzi, e direi con sensibile rilievo, una percezione assai acuta della condizione per così dire disabile, e di conseguenza un accento messo su chi, portatore di handicap, è quasi costretto a sviluppare in misura più forte dei “normali” certe prerogative dell’umano. Nel caso del triangolo ai cui apici si trovano il vicario Gabriele, la da lui concupita Matilde e sua figlia Ada, la meglio fornita in tal senso è certamente l’handicappata fanciulla, perfino sul piano erotico, se a un certo punto, trovandosi sola con Gabriele, va senza ambagi dritta al sodo: “Vedi,” mormorò Ada “una delle ragioni della mia tristezza è che nessuno si accorge del mio movimento. Uomo, le mie gambe, per esempio, sembrano immobili ma non lo sono”. “Sì”. “Che bisogno hai di dire sì, se non sai? Già, nessuno dei cosiddetti normali può sapere. Eppure quante volte ho sognato che facessi eccezione. Ti sfuggono le cose più semplici, persino che in una gara di sensualità fra me e mia madre sarei io a vincere”. E ancora, qualche tempo dopo: “Il sentimento che proviamo mia madre per te, tu per lei, io per te non so se sia amore. È con pena e con rabbia che prendo atto di questa mia insufficienza. È proprio così, se mi interrogo a fondo scopro che non so che cos’è l’amore. Ho sognato di impararlo da te, ancora coltivo il sogno, ma ho il sospetto che non lo sappia nemmeno tu”. E questo perché “Ti amo e ti voglio male. L’amore che provo per te puoi immaginarlo, ma non il male che ti voglio. Voglio più male a te che a me”. (…) “Di quello che ti dicevo resto convinta, rapporto a tre o fine della storia. Sì, potrei essere smentita, anche dolorosamente. Comunque vada, che la storia finisca o prosegua a due o a tre, trattala bene, mia madre, o te la farò pagare. Come? Troverò la maniera. Ultima risorsa, se non riuscissi ad architettare altro, il suicidio. Il mio handicap me lo renderebbe arduo, i mezzi usuali mi sarebbero preclusi, ma lasciarmi morire di fame o di sete, per esempio, potrei. Sai che sono caparbia”.





Buzzi negli anni Sessanta (ph. Ugo Mulas)


È ovvio che la franchezza, anzi la ferocia orgogliosa di Ada fatta di tenerezza frustrata agisca sui tormenti di Gabriele come un afrodisiaco doloroso, carico di sensi di colpa. E allora, rubinetti aperti perché si spargano, questi sensi di colpa, nelle veglie e nei sonni travagliati del giovane prete; e, sul piano tecnico-strutturale, tèntino di sistemarsi mediante quella che potremmo chiamare la retorica del dialogo, la dialettica della conversazione e dell’autoanalisi: inutile panacea, risibile placebo. E così, fortemente sostenuto da continui, lunghissimi colloqui versus externos e in interiore sui, di natura domestica, economica, erotica, teologica, filosofica, il romanzo prende aìre di melodramma: di melodramma in prosa, ma ovviamente percorso da una musica e da un passo che vanno con la massima scioltezza dalla “romanza” al “largo”, dal “recitativo” all’“aria”, per fornire un quadro assolutamente tragico del palcoscenico della vita nel nostro oggi, e magari di sempre: e quindi, per forza di rovesciamento, di Umkehrung poetica, di melodramma senza catarsi.

 

“Fai un gran parlare di spirito, Gabriele, ma sei irretito nella carne” dice al vicario l’handicappata Ada. È percettiva, la ragazza. È intelligente e perfino scaltra. E ha più coraggio dell’amato Gabriele, nelle intenzioni e nelle parole. È, come s’è detto, una delle cuspidi del triangolo che marchia a fuoco il libro. Ma chi ne costituisce il cardine è, fuor d’ogni dubbio, don Clemente, l’anziano curato che conosce il mondo, i pensieri, le parole. È un combattente che ha durato a lungo la sua battaglia, e sul fronte del collettivo l’ha vinta: l’“Agàpito” è una realtà concreta, un punto fermo nel caos mondano. La perde, ora, sul fronte individuale. E neppure il suo svariare ghiribizzoso e ingegnoso dal latino delle Scritture al dialetto milanese ha potuto farsi usbergo sufficiente di fronte al carcinoma che gli ha invaso polmoni e fegato. Eppure, poco prima di intraprendere un inutile trattamento chemio, Clemente trova la forza di filosofeggiare, cioè di voler bene ancora una volta al suo vicario innamorato che ha sorpreso sotto la casa di Matilde, inzuppato dalla pioggia, e che vuole sentire dal suo superiore ciò che dell’amore sa: “Quello che sappiamo. Poco io, poco tu. Forse io un tantino di più, perché sono vecchio e ho avuto più tempo per pensare, per farmi un’idea. Ma sì, riparliamone, alla svelta perché non possiamo restare troppo tempo così bagnati. Ecco, pensa all’amore infinito che si fa amori finiti, tutti diversi di forme, modi, luoghi, tempi, e quant’altro, e però uguali, perché vengono dalla stessa radice, dalla stessa essenza. L’amore infinito che, ce lo siamo detti tante volte, è la parola infinita. Dio è infinità di amore parola. Questa è l’essenza che fa tutte le esistenze e nelle esistenze si fa. Chissà perché molti distinguono fra amore e parola, ci caschiamo anche noi ogni tanto. Ci si illude forse di semplificare, di riuscire a fare stare nel nostro cervello, spaccandolo, un tutto che lo soverchia. L’amore parola si fa amori parole. E anche qui la distinzione è assurda. Che differenza c’è fra una pietra, un fiore, un fiume, un sentimento, un abbraccio? Sono tutti amori parole dall’amore parola e nell’amore parola. Finitezze dall’infinità e nell’infinità, diversità dall’egualità e nell’egualità. Non c’è nulla di fermo, la finitezza di parole amori è varianza, varianza infinita che ci riporta all’infinità dell’essenza, all’infinità della potenza che si attua in esistenze. Come e perché l’infinità di essenza si faccia infinite finità di esistenze non si capisce e non si può capire. Mica pretenderai di capirlo tu. Non si capisce questo, e non si capisce di conseguenza perché e come l’egualità si faccia diversità e permanga nella diversità. Generazione e creazione sono concetti che molti hanno usato nel tentativo di spiegare. Spiegazioni del cavolo. Non affaticarti neanche a cercare definizioni del logo, del verbo”.





Panteismo bruniano più misticismo alla Meister Eckhart più intelligenza pratica e capacità di comprensione non schematica del mondo, e dei misteri del mondo? Un po’ di tutto questo, ai confini dell’eresia, e altro, altro ancora. Al punto che, forse come estremo lascito di conoscenza al suo smarrito vicario, egli, e non solo per medicare caritatevolmente la ferita della gelosia di Gabriele dovuta alla relazione lesbica tra Matilde e una sua amica, così, scherzevolmente, lo indottrina: “Sicché tu, ah ah…” “Sicché io?” “Sicché tu ancora non sai…” “Ancora non so?” “Che nessun maschio può conoscere e fruire la bellezza di una femmina come un’altra femmina? Cosa me tocca imparà. E l’è on pret, quest chì. Dài, andiamo a casa. Ormai di dormire non si parla. Ci sdraieremo un paio di orette, dirò messa corta, e stamattina voglio che sia tu a servirmela. Dopo intendo fare qualcosa a dimostrazione del mio affetto per te. Dico affetto anziché amore, per pudicizia. Lo stomaco, lo sai, mi serve male, ma mangerò un pezzetto di gorgonzola, di gusto lo mangerò, e ci berrò sopra un mezzo bicchiere di Barbera. Mi hanno regalato del gorgonzola da fare resuscitare i morti, di quello piccantissimo. Mi farai il santo piacere di mangiarne un pochino anche tu, per compagnia e per rispetto. Direi quasi per devozione”. Che è, per un prete attaccato alla tradizione, un bel mix di sacroprofano spiritosamente offerto al discepolo, cioè una prova giudiziosa assai di umanità antidogmatica, di solidarietà, di amicizia paterna.

 

Oportet ut scandala eveniant, così la pensa il moribondo don Clemente. E che vengano capiti, specialmente se sono scandali d’amore. Ciò che chiamano incesto, si dice il prete, è solo una convenzione che ha radici nella conservazione socio-economica, e che è stato trasformato in “orrore”, come geme in confessione l’incestuosa Gemma. Il fatto che Clemente non la emargini nel fango dei reprobi ma non cessi di accoglierla tra le sue pecorelle, crea problemi al suo amico vescovo e genera sconcerto e riprovazione nel paese. Ma il presule ha anche lui uno scarto, si responsabilizza con un atto di coraggio: e gli serve la messa, sicuramente l’ultima per Clemente, come un qualsiasi chierichetto. Ora si può anche morire. E Clemente muore, molto socraticamente. Il suo vicario Gabriele si spreta: com’è giusto; quindi, com’è giusto, fa finalmente l’amore con Matilde. E questo romanzo bellissimo e crudele che sarebbe certo piaciuto, appunto per la sua crudeltà problematica, a uno come Bernanos, scrittore cattolico e tradizionalista pieno di sacrosanti furori, si chiude in apertura massima, direi, un’apertura ben oltre che illuministica, sulla contraddizione insolubile che è insieme Vita e Lingua, Esistenza e Letteratura, Amore e Invenzione.

                                                                                                                        

 

                   




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