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di Sarah Panatta
"Piccola festa del silenzio". Accade
sulle labbra di chi è entrato nel nonluogo del Tattoo Motel. Accade con
timidezza e fervore, con tutta l'innata irrefrenabile foga dell'amore come
compenetrazione e compresenza di forme e nomi, verbi e segni. Come un
"vecchio capitano" odora le rotte con felpata cadenza e sotterraneo,
metabolico, costante tremore, solcando paratie marine con il tocco anfibio di
una creatura folklorica. Selkie e insieme fauno, che espelle i falsi sé
mietendo gentile i passi di una prosa senza età, Davide Cortese, poeta e film
maker, cinge i suoi protagonisti, i propri totem e tabù, nel romanzo di
esordio, Tattoo Motel, pubblicato da Lepisma Edizioni, nella Collana
Narrativa - Scarabeo diretta da Andrea Gareffi.
Quale verità di fiamma e di incanto ci suggerisce
la pelle? Ove si agitano e sciolgono pugili e sirene, farfalle e dragoni,
pregni dell'orrore e della bellezza di una purezza che è estasi e mutazione.
Eva, abituata a rubare con la fotografia
il cuore degli estranei scolpiti nel quotidiano limbo, in cui ogni frammento è
respiro di un daimon che le promette una completezza da venire/in divenire.
Dan, giovane padre, artista del tattoo che non vorrebbe schiavizzare i suoi
istinti, ma sente un peso oscuro che lo devia e minaccia, mentre giorno dopo
giorno incide la pelle dei suoi avventori. Eva e Dan si inseguono mentre un
gruppo di uomini e donne infrange e custodisce il confine del loro regno. Baffi
riccioluti su volti femminili, testamenti beffardi su crani sarcastici,
muratori brasiliani ammaliati e abbandonati.
Sul "battello ebbro" di una mongolfiera
leggera, origami di sogno e scacciapensieri rituale, neoarchetipo di gotica
fiaba, senza ormeggi si sposta nel suo viaggio d'amore e di resistenza al suo
dolore, sempre attirato dalla piccola morte del sonno, re dei cuori spezzati e
gemelli, di un paese di meraviglie, tra caverne e olimpi. Davide Cortese
interroga la minuta parvenza dell'uomo dinanzi all'ignota materna malìa del
cosmo. Il suo rapporto con l'eternità delle stelle, e i loro bagliori in Terra,
che siano trasparenze di barche di carta su un laghetto premonitore o macchie
nere incolpevoli nelle iridi di uno scriba della pelle, memento mori per la
magnificenza imprendibile del Tutto e la vacuità pervasiva dell'emozione. E
difficile è dare la misura del dolore, anche quando benefico, del mondo. Il
poeta ne soffre con intima tenerezza, varcando le mura del proibito,
perlustrando il senso del sé attraverso una progressiva impudica missione
sensoriale e sessuale.
La parola, lontana da quel modaiolo "bla bla
bla" di tanta letteratura avventizia e meramente ombelicale, è l'ago del
tatuatore come il suo tratto di colore e sangue. La parola è il liquido di un
rituale di liberazione e consapevole
ininterrotto scandaglio. Palombaro di leggende avite e vellutato punk, a
momenti marqueziano nella deriva carioca di colori altrimenti gioiosamente
cupi, azzurri vampireschi e opalescenti dipinti sulle quinte di una storia
seminale, semplice ed eterea senza essere esile. Cortese disegna su china un
romanzo fatto di ricomposizioni temporali a due voci, dette e non dette in una
seconda persona che è e insieme non è, forse è stato e vorrà essere il nostro
autore. Il suo racconto dei racconti non si fa invadere dal barocco
garroniano né dal torpore di Ammaniti, ma si scuda del suo personalissimo
curioso manto e si proclama elegantemente vergine all'anti social society.
Questo è amore. Un tatuaggio sull'inguine. Un felino alato che danza sulle
curve della schiena di lei. Un nome "sbagliato" scritto tra cielo e
acqua da un gigante analfabeta e involontario (?) indovino. Il segno di tenebra
condivisibile negli occhi tanto verdi di lui. La violazione deliberata e
desiderata della verginità fisica, del temp(i)o epidermico del corpo,
santuario, scrigno, registro, tavola di nuove fallibili leggi, bandiera e
costume.
Ragno straniero che non teme di incontrare altri
stranieri, fermandosi sulla soglia del loro stupito o rassegnato silenzio.
Cortese cappellaio matto dal sorriso morbido, fa breccia nella tana d'Alice e
apre la pista a chi esita recando in mano la penna/ago per trafiggere, scrivere,
animare il proprio Io come culla dell'Altro. Ragno che ama Rimbaud suona la sua
ragnatela "come un'arpa... / su fragili corde di colla, / piano, in un
vicolo buio / perduto in una tasca del tempo".
Dedicato alla "struggente bellezza" del
teatro di Stefano Ricci e Giovanni Forte, due autori poco più che quarantenni,
precari e arditi protagonisti dell'oggi, il motel di Cortese innesta il suo
vessillo di pirata-Cupido navigando nel letto bianco di un Whitman segreto,
palpitante del suo sforzo antidepressivo verso l'affrancamento e la costruzione
di una libertà ideale sentita come imprescindibile, che può trasformarsi in
unione degli ego in matrimonio intellettuale. Novello Mallarmé diteggia
malinconico e giocoso il suo meriggio, facendo dei suoi versi evocazione e insieme occupazione di ere e
stati del mondo. Cortese svicola baudelairiano spleen, il "male di
vivere" tutto intorno, ma dentro solo per fugaci ondate. Egli canta un
amore eterno, in un fuoco dolce del ribellismo anarchico di Rimbaud, di cui conserva
la visionarietà a tratti mistica, il gusto del capovolgimento di ogni verso in
portale spalancato per gli iniziati ad una dimensione fanta-parallela fatta di
piccole schegge, di "illuminazioni" goethiane e affinità elettive.
Tattoo Motel, circo di elfiche presenze, esumate tra Grimm e terra scura del
sole siculo, landa di eroi post romantici (ancora umidi della nebbia dei Lake
poets inglesi, Coleridge su tutti forse), dove Cortese, come il figlio di Dan,
attraversa le stanze accavallate della narrazione, montaggio foto-cinefilo di
una mente lucidamente votata ad un nuovo fantasy urbano.
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