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di Tiziano Rossi
I Compianti, ultimo libro di Maria Pia
Quintavalla racconta di una maturazione.
1) Il venire
alla luce, la trepidazione del nascere, “non mi ero forse mai mossa da lì, la
buca / del pulcino il seno il lago / dove incipitava l’infanzia” (p.7), anche
l’evocazione di un’età lontana, di un’amica che sosteneva la crescita
adolescenziale, “Il mondo era moderno al quarto piano, / come un’era adulta, ma
più sotto / era l’antro dei sogni era l’infanzia” ( p. 31); seguita dall’esperienza
dell’amore: “… il mio diletto, / sparge il suo dire a coprifuoco” ( p. 59), fino
all’età adulta, “rivolgevo / a Milano, l’era adulta…” (p. 50), oppure, “… io
adulta genitrice / della vita che si fa futura” (p. 54).
Libro non
semplice, che consente vari approcci e sollecita diverse angolazioni di lettura.
Un rendiconto
dell’affetto della figlia al padre, la storia di maturazione e di crescita, e infine
la questione del rapporto dei vivi con i morti.
Quando si è
vivi, non si è del tutto vivi. Quando si è morti, non si è del tutto morti.
Il tutto giocato
in una forte componente dialogica, come nei primi compianti in terracotta si
legge, “in campiture incalcinate da sepolcro / nelle stanze, lo trovai / che
stava andando, aperto il patto sepolcrale / … lo cercai, / e non lo cercai” ( p.
16).
2) La componente
spaziale (di Parma).
Un paesaggio
sobrio (Morandi), “… una casa / un rigo trasversale un cespuglio” (p. 11), “Una
tela crescente, / come alcuni, Toschi o Fattori, / facevano pensare: / e la
città sorgeva sullo sfondo, / la città ricca in problemi e case” ( p. 12), dove
“respirare ancora un’ora, / a sorseggiare aria sotto la volta / di una Parma
antica” (p. 70).
La casa di
Fabiana, le stanze, quel secondo piano, “la tua casa e la mia sono nate / qui
stesso
S p a z i o, sogno
lo stesso” (p. 27), “le sue stanze combaciano là sopra / alle altre native /...
quadri, rombi della luce che veleggiano n e l l’ a l t o” (p. 28), e “… là
sotto, a quel secondo piano, / un bel varco attendeva” (p. 30). Un’atmosfera
domestica, quieta e protettiva.
Poi c’è Milano,
“rivolgeva / a Milano l’era adulta (p. 50), “il liscio valicato del Po’ mi
rispondeva: / andata e andata” (p. 50); il paesaggio, “restano nubi aperte
fulminate (p. 56), “Le colline suonano soavi all’orizzonte” (p. 69).
Figure umane
emergono da un paesaggio, solare o nebbioso.
3) La componente
del tempo.
Oggi, si vive in
un costante presente, Quintavalla ripropone il nesso necessario tra passato e
presente, e il nesso tra generazioni. La morte del padre è uno spartiacque del
tempo, ma la morte del padre è anche continuità, “l’eterno tutto qui insepolto,
fresco di mondi // indelebili f u t u r i” (p. 24), “che io risorgo alle radici
/ credici tu” e “Dai, Va’ in pace” (p.18).
La vita del
padre non è più vita; la morte del padre non è più morte.
Una compresenza
di essere e non essere, in alternanza.
E il distacco,
il dolore.
“… da
generazioni, i frutti suoi / ritrosi, disertati” (p. 43), “Al terzo giorno non
resuscitasti” (p. 47), “… dove spegnere / le tracce dell’amore vivo” si legge
la sua assenza. “Noi / tutti aperti sanguinanti” (p. 45). “Si è scomposto e
ricomposto / ecco perché non l’ho trovato più” (p. 15).
E ci sono i
conforti, le continuità.
“Si appassì,
ritenne, poi sparì e / rimase.” (p. 80), “è
là, in un’aura dolce / che ti seguirà rinato” (p. 72), “Padre che non sei mai
partito affatto” (p. 68), “Ecce vivo tu re” (p. 83), “Ascanio io, e tu il corpo
di Anchise” (p. 77), non Enea.
Nell’appendice,
ci sono le pagine del padre: “Natale
1944, un presepe di speranza”, “Primavera 1945, Addio allo stalag XVII A”, “Rigoletto
in scena tra i reticolati”. Memorie pubblicate su “La Gazzetta di Parma”,
dove ogni pathos e patriottismo è serbato con molto pudore.
4 ) Ne I Compianti appaiono varie turbative nella
lingua del discorso lineare.
Quintavalla
disarticola e corruga la scrittura a fini espressivi, con la mimesi del
singhiozzo o dell’esitazione, e del cumularsi degli affetti, con un alto numero
degli enjambement, (anche con congiunzioni come “e”, preposizioni come “da”); ci
sono parole in corsivo o in corpo più grande (p. 50, 88, 55, 57, 84), quali
segnali di lettura; ci sono iterazioni dove si ripetono i “che” (p. 66 e 67), e
c’è la soppressione di virgole.
Parentetiche e
gerundi parentetici, “correndogli la testolina” (p. 7), “vagando nella musica i
bicchieri”, (p. 30). Iperbati: “ricoperte di edere, / fessure” (p. 50), “baciavo
io dell’altra il volto” (p. 38) “... rifà mi pianta”, “il rinfresco dei morti
disertato” (p. 48) e ambiguità “le gite scolastiche, le smaniate / dell’adolescenza”
(p. 88), dove “smaniate” è aggettivo o sostantivo? A p. 79, “intorno a
un’ostrica mi incolla / alla matrice unita al male“ (p. 54), dove “matrice” va
connessa con “mi incolla alla” o con “unità”?
Compaiono verbi oscillanti: “aspetta”, “aspettava stava” (p. 31), verbi
transitivi usati intransitivamente: “trafugavo” (= fuggivo?) (p. 51).
Oppure il discorso
è separato tra strofe e strofe, (p. 43, 44, 48, 49), le clausole sono staccate (p.
54, 55); gli infiniti sono al posto di verbi coniugati, “Io, / col naso
fiatando riconoscere” (p. 20).
C’è un uso del
linguaggio colto nei vocaboli: beltà sta per bellezza, espurgato sta per
emesso, dolore sta per dolcezza, sconoscemmo sta per rinnegammo, solida per
stolta, impetravi per chiedevi, insonoro, garruli, incipitava, positura, puer e
senex, captive, plaghe, biondezze, giulive, esulavamo, nolenti, etc. Ci sono
forme colte e rare, di nobilitazione del quotidiano: familia nova (p. 54); infine
dialettali: il sigo (lamento) (p. 8), inzigate (cospirate) (p. 80), “un sacco
di saluti” (p. 86).
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