LETTERATURE MONDO
DIARIO DA HONG KONG (1)
Viaggio nell’ultra-mondo
di una Cina fuori dalla Cina

      
Un dottorando italiano presso l’Università di Leeds è andato in visita di studio presso l’ateneo della grande città orientale. E riferisce qui le sue impressioni su una megalopoli ‘mostruosa’ da Kowloon all’isola principale, dove la vita scorre frenetica, in strade che rigurgitano gente, epperò in realtà i suoi abitanti conducono esistenze sincopate, balbettanti, incerte. Il loro precario passo appare scandito da soste e attese quasi eterne, immerse in bollenti temperature coniugate con un’umidità insostenibile, così che più che camminare sembra, in effetti, di nuotare.
      




   

 

 

di Stefano Calzati

 

Prima Parte

 

Preambolo – 8 Marzo

 

Cinque anni fa, su un blog che aggiornavo regolarmente per testimoniare la mia esperienza in Australia come insegnante di Italiano, a un certo punto (mi) posi questa domanda: “Posso proporre un dottorato itinerante? Un dottorato che parla di me e del mondo?” E poi chiosavo: “Non credo.” Ebbene, la verità è che, per quanto assurda quella speranza potesse sembrare e per quanto possa ora apparirmi perduta in un tempo remoto (cinque anni son passati), eccomi qui: sulla rotta per Hong Kong e già nel processo di scriverne. Attualmente sono dottorando all’Università di Leeds, ma per due mesi sarò ufficialmente visiting scholar alla Chinese University of Hong Kong per completare l’ultimo capitolo del mio dottorato, il cui tema è – bien évidemment – la letteratura di viaggio sulla Cina e, in particolare, gli scritti contemporanei di autori cinesi. Fortunatamente, ho ottenuto due borse di studio per partire. Sfortunatamente parlo solo poche parole di cinese. Potreste sostenere, invero, che si tratta di un nonsenso e sarei anche d’accordo con voi, ma solo se si pensasse che la conoscenza passi esclusivamente attraverso il linguaggio. E non credo sia così.

 

24 Marzo

 

La lucida consapevolezza di essere sulla rotta per Hong Kong mi è precipitata addosso mentre stavo sprofondando, a mia volta, in un sonno ottuso sull’aereo; i due momenti sono stati così sincronizzati, per la verità, che hanno avuto l’effetto di farmi riaffiorare alla coscienza d’un colpo: non solo, per un istante, non ho saputo dire a me stesso dove mi trovassi, ma neanche cosa cavolo stessi andando a fare. Talvolta è liberatorio sapere che non si può tornare indietro…

Poi, una volta sbarcato, il tempismo cosmogonico che mi ha permesso in meno di 20 minuti di 1) superare il controllo passaporti (e io che temevo lungaggini per spiegare la mancanza di un volo di ritorno), 2) recuperare la valigia, 3) comprare una sim card, 4) fare l’abbonamento ai mezzi pubblici (la già leggendaria Octopus card; un passe-partout per qualsivoglia destinazione e transazione), 5) imbarcarmi su un bus di linea per Kowloon; ebbene, la rapidità con la quale ho compiuto tutte queste pratiche mi ha fatto capire che ero giunto, evidentemente, dove non ero mai stato.

Ad attendermi, invece, dall’altro capo della città, là dove fino a una ventina d’anni fa i boeing atterravano tra palazzoni e superstrade, ecco il delirio.

Il primo aggettivo a cui ho pensato per cercare di descrivere Hong Kong (un aggettivo che poi è ritornato, testardo, nell’arco delle prime giornate), mentre il bus, immergendosi in un vischioso mix d’umidità e monossido, assecondava gli ondivaghi tracciati della superstrada; il primo aggettivo, dicevo, è stato: “mostruoso”. In senso buono, “mostruoso” suggerisce il confronto con qualcosa di mai visto e, senza dubbio, straripante, come l’architettura, per esempio, la quale appare, ad un tempo, monolitica e auto-distruttiva (a Hong Kong si fa e si disfa quasi si trattasse di assemblare un Lego); in senso negativo, invece, “mostruoso” rimanda alla sensazione che le dinamiche di sviluppo siano sfuggite, qui, un po’ di mano – ovvero dalle mani dell’uomo – per diventare infine altro, ovvero l’esaltazione meccanica del labor per il labor; nel senso letterale, infine, “mostruoso” – monstrous – indica le dimensioni spropositate con le quali gli abitanti di Hong Kong, vermicelli striscianti in un pagliaio di grattacieli, devono venire a patti. L’uomo sparisce; eppure sopravvive, parassitario. We are like worms crawling at the foot of skyscrapers. Forse qualcosa di simile succede a NY, dove pure ho vissuto, ma là la mostruosità è subordinata all’ordine, qui, invece, domina il caos.

 

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25 Marzo

 

Il campus della Chinese University of Hong Kong conta nove college e otto facoltà per un totale di circa 30.000 studenti. Arroccati su una montagna nei New Territories, i suoi buildings – che, imboscati nella selva, congiurano in un intreccio cromatico-materiale di green and concrete – si stagliano sornioni sulla valle sottostante (dove giunge la metropolitana) e rimandano così al pio studente una certa soggezione verticistica. Le strade del campus si inerpicano tra questi palazzi di recente costruzione (la CUHK ha circa 60 anni) e vengono percorse dalle auto – solitamente dei professori – o dalle navette per studenti, le quali circolano a ritmo continuo e sono, ovviamente, gratis.

I mezzi di trasporto di Hong Kong materializzano l’idea stessa di efficienza: sono ovunque, piuttosto intuitivi e pure economici. Ma soprattutto frequenti. Per giungere in ufficio impiego circa 45 minuti, ma compio un tragitto urbano di circa 18 chilometri che a Roma, poniamo, mi avrebbe richiesto la mattinata. A proposito di Roma, abito a Kowloon East, un quartiere il cui volto, per gli incroci etnici nei quali si scompone e ricompone (ma assenti sono gli occidentali), assomiglia ad Anagnina. Solo dieci volte più grande e caotica. Tuttavia, non un mozzicone per terra può essere rinvenuto, né uno brandello di carta o plastica. In compenso, va detto, lungo le grate di scolo che tappezzano i marciapiedi colano sanguigni rivoli di interiora animali. La mia coinquilina Berky, da parte sua, mi ha consigliato di bollire sempre l’acqua del rubinetto di casa, prima di berla. Bandite sono anche le insalate a crudo.

Impressionante è la compostezza con la quale gli hongkonghesi aspettano in fila l’autobus (e di spazio non ce n’è poi troppo), ognuno rispettando non solo il proprio turno, ma anche una certa doverosa distanza da chi li precede. Impressionante è anche la sistematicità con la quale, una volta sul bus, gli occhi di tutti si congelano, vitrei, contro gli schermi degli smartphone e talvolta neppure la necessità di scendere ridesta da questa narcotizzazione mediatizzata: si scende, certo, ma tutto avviene in modalità automatica.

 

29 Marzo

 

Il territorio della città copre una superficie di circa 1.104 km2 ed è composto dall’isola di Hong Kong, dalla penisola di Kowloon, dai Nuovi Territori recuperati allo scadere del contratto di affitto con il quale erano stati ceduti alla Gran Bretagna,  e da più di 200 isole in mare aperto, di cui la più grande è l’isola di Lantau.

Oggi, dopo pranzo, mi sono diretto verso ovest, attraverso il quartiere di Sham Shui Po  e poi ho puntato a sud, verso il porto; verso le isole, seguendo Nathan road. Ho attraversato  Temple street, dove le rivendite di cibo e sono aperte tutta la notte; poi ho camminato senza meta per gli angusti e sovraffollati vicoli di Yau Ma Tei, dove odori e atmosfera mi hanno ricordato il Vietnam (non è un caso se una delle strade principali si chiama qui Saigon street). Alla fine, l’isola, la grande isola di Hong Kong.

Sbarcandoci da sottoterra, ovvero servendosi della metropolitana, si riemerge dalle viscere umide della città per ritrovarsi letteralmente sovrastati da una scomposto accavallamento di forme e materiali: parallelepipedi, cemento, piramidi, vetro, cubi, acciaio; impalcature di bamboo! E poi chilometri e chilometri di asfalto occupati stanzialmente da sciami di taxi: tutti Toyota. Tutti rossi. Se Kowloon mi era parsa ribollente di vita, di virtù e di disgrazie, ciò che accade sull’isola tracima ogni comparazione: qui l’esistenza si rivolta indefessamente, rigurgita lungo i vicoli, esplode nei dehors dei bar e infine precipita su se stessa, inscenando una carambola che non pare avere destinazione alcuna, ma piuttosto ostentare la veemenza tipica della schizofrenia. Come per magia, qui riappaiono gli occidentali, ma a ben vedere (o ad ascoltare il magma linguistico che parlano) essi non sono davvero tali, così come non è Occidente né Oriente lo sfarzo capitalistico che ammanta strade e palazzi: finte brand italiane, mendaci ristoranti francesi, prodotti contraffatti nowhere… And who am I? I don’t know, as usual…

Queste persone non si possono definire occidentali – non sono inglesi, americani, italiani, francesi – e non sono neppure (solo) turisti, residenti, o emigranti. Essi incarnano, più semplicemente, il “soggetto” dell’isola.  Allo stesso tempo, queste strade non sono cinesi e, se è per questo, neppure vi riecheggia l’eco occidentale. Piuttosto, è l’odore omologato del cemento a sovrastare il concreto sentore della vita. L’isola rappresenta un ultra-mondo a se stante, il quale contraffà culture, valori, identità; digerisce tutto il digeribile e riplasma la vita ad ogni respiro, ad ogni sole calante; qui il cosmopolitismo globale si sublima in un puro segno senza alcun referente. Cramped skyscrapers crumble over unaware pedestrians. Their life is already projected elsewhere.

Infine, puntando nuovamente verso nord, si riemerge verso le banchine di attracco dei traghetti, là dove il mare ridà allo sguardo una prospettiva più antropologica e sostenibile. Le due rive di Hong Kong si affacciano e si riconoscono. Peace and green. And I breath again.

Luigi Malerba scrisse questa riflessione durante il suo viaggio in Cina: “Ogni civiltà in fondo è la rappresentazione di un’utopia, ma le utopie sono indecifrabili per chi non ha partecipato alla loro messa in scena.” Credo ci sia, in questa sentenza, una lucida visione dell’Impero di Mezzo e delle sue appendici isolane.

 

 

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5 Aprile

 

Qui sono ormai tre giorni che la temperatura arriva a 29 gradi. A questa si aggiunge un’umidità insostenibile: più che camminare pare, in effetti, di nuotare; si vaga boccheggianti e ciondolanti tra le varie arterie gassificate di smog della city, finché, esasperati, non si scende in metro, o si entra in qualche locale dove l’aria condizionata fa precipitare il termometro a 22 gradi, per legge (altrimenti sarebbero ancora meno…). E il differenziale spedisce, istantaneamente e per alcuni muniti, in uno stato di ibernazione involontaria che congela azioni, pensieri, passioni, intestini.

Devo ammettere che dopo due anni e mezzo di Regno Unito – di pastume cromatico e mediocritas climatica – mi sembra di essere giunto in un’oasi tropicale; un’oasi gocciolante ozio e umori flemmatici. Capisco solo ora, infatti, il perché, nonostante a uno sguardo trascendente Hong Kong appaia come una frenetica megalopoli, in realtà i suoi abitanti conducano esistenze assai sincopate, balbettanti, incerte: precario, invero, è il loro passo; un passo scandito da soste e attese quasi eterne; l’unico ritmo possibile, in fondo, che si possa imporre a giornate flagellate da ore pregne di afosi stenti. E questo clima, mi hanno detto, è nulla rispetto a quello che sarà in giugno e luglio. Ah! Quanto a me, sarò già verso altri lidi estivi, per allora… Ma chissà se si tratta di un bene o un male…

Ad ogni modo, con queste condizioni climatiche, ieri ho deciso, per sviluppare le mie connessioni in terra asiatica e spremere un certo sudore di circostanza dalla mia vita di dottorando in oriente, di partecipare a una partita di calcio. Dalle 12.45 alla 14.45. Una cosa che neanche a 16 anni… Il calcio, per la verità, ritorna sempre nelle mie avventure esotiche; si veda la mia esperienza paradossale come allenatore di calcio a Melbourne… La dura trafila del dottorando, insomma…

Mi sono iscritto alla community di Casual Football: da qualche anno i ragazzi che la gestiscono organizzano due/tre partite a settimane in varie zone di Hong Kong, invitando residenti, neo-expats, parvenus d’occasione e chiunque voglia dare quattro calci e partecipare. Il globo – con tutte le sue sfrangiature linguistiche e culturali – gravita per qualche ora intorno a una sfera e infine collassa, esanime, nei pochi metri quadri del sintetico. La quota da pagare è 30 HKD a partita, ovvero meno di tre euro. Ai match si incontra un caleidoscopio irreconciliabile di anime: dal ventenne spedito a Hong Kong per completare presunti studi di economia, al ristoratore con un passato da rugbista, al cinquantenne senza alcun glorioso trascorso calcistico, il quale, però, non solo non pensa al proprio doveroso buen retiro – ci mancherebbe! – ma continua per tutta la partita a dare indicazioni tattiche ai compagni, mentre lui, nel ruolo di libero, non muove un solo muscolo. “I’m motivating you!”, dice pure con tono convinto quando gli viene fatto notare che non ha ancora toccato palla… Outstanding.

Questa volta il match era nei campi della Happy Valley, una location che dal nome suggerisce già una certa esperienza mistica o allucinogena. In effetti, dovrei specificare che le partite non si riducono esattamente a qualche scambio, ma sono piuttosto intense e, come da migliore tradizione della periferia, viene speso ogni afflato di ossigeno. Ho corso molto e giocato male; in questi casi si direbbe: “una partita di quantità”; mentre per la qualità credo sia troppo tardi…

 

6 Aprile

 

Quando si viaggia – quando ci si muove continuamente da un posto all’altro – è quasi inevitabile incontrare decine di persone; incocciare il sentiero di svariati destini dalle imperscrutabili destinazioni. Il punto è che con queste persone – best scenario – si costruiscono relazioni d’occasione, ingessate nella superficialità. Questo non significa, per carità, che si tratta di relazioni ipocrite; mi riferisco piuttosto all’impossibilità di conoscersi oltre una smaccata necessità di contingenza. All’inizio, lo confesso, soffrivo di questa condizione, fino ad esserne divorato, giacché essa mi rivelava, a ben pensarci, la mia stessa inconsistenza peripatetica; cercavo dunque di contrastare la rassegnazione che il tempo porta in dote, sforzandomi di nutrire ognuna delle relazioni che avevo allacciato con viscerale dedizione – fossero a Londra, New York o Parigi – attraverso i mezzi più svariati. Poi la stratificazione della vita fa il suo corso e ti ritrovi ad avere la rubrica del cellulare piena di contatti di cui, spesso, non ricordi nemmeno il volto. E allora, come scrissi sul mio blog australiano, ti rendi conto che “partecipi, per un’istante, alle vite straordinarie e diamantine di alcune persone incontrate on the road, entri nella parte, prendi confidenza, ti adagi, assapori i dettagli delle loro esistenze. Togli pure la maschera. E poi… “STOP!” On continue… Sicché quando ti guardi indietro vedi nothing but rubble. Relazioni come macerie, in altre parole…

Ebbene, il barbecue di oggi è la testimonianza del contrario. Sette anni fa, quando mi trovavo a New York grazie a una borsa di studio della Sapienza per completare la tesi di laurea magistrale, incontrai un gruppo variegato di persone – amici, amici di amici, giornalisti, dottorandi, artisti, musicisti – tutte persone che, credevo, non avrei più rivisto al di là di quei tre mesi trascorsi nella Grande Mela. Ma la storia non sempre si ripete: eccomi qui, infatti, a Hong Kong – dall’altra parte del mondo, si tratti di Europa o America – a festeggiare un torrido lunedì di Pasquetta con alcune di quelle persone conosciute a New York quasi una decade fa. Attorno a un barbecue organizzato nella corte interna di un complesso di maestosi grattacieli a Kowloon West – laddove l’upper-borghesia della city dimora, al fine di evitare il caos dell’isola – il proscenio accoglie una casistica di sovrapposizioni culturali sulle quali sarebbe finanche banale, se non presuntuoso, soffermarsi… Hong Kong è, dopotutto, un mondo fatto di culture polverizzate, ridotte a semplici atomi. Basti questo, almeno per ora.

Not always life is good – and, for that matter, even more rarely is it fair – but, no doubt, it can be surprising. Never – please! – give if for granted.





8 Aprile

 

Questa città freme, indolente, energica come sa essere, eppure, devo ammettere, lo fa in maniera quasi mai sboccata: c’è, senza dubbio, un certo gusto per l’eccesso, ma pare che esso sia piombato sull’isola dall’alto, come una sciagura, piuttosto che articolato dall’interno. Nelle sue asfittiche movenze, nella involontaria trasandatezza di alcuni suoi personaggi all’angolo, nella disponibilità quasi incondizionata della sua gente, nella facilità con la quale questa stessa gente si arrabbia e si arrangia (l’inquilina al piano di sotto cucina sul pianerottolo per mancanza di spazio), una facilità, invero, mai sofisticata, ma assai pragmatica; in tutto questo, almeno così mi sembra, continua a serpeggiare a Hong Kong una vaga tensione alla marginalità, alla provincialità nel senso più genuino del termine, come se a questa gente, dopotutto, strapazzata da un secolo e mezzo di colonizzazione, non importasse nulla del delirio che la circonda. Il campus di “periferia” e l’iper-città sono, allora, solo due tasselli di un’unica, irregolare rappresentazione, e chissà quante altre sfaccettature non riuscirò nemmeno a immaginare. Queste sono le contraddizioni – tali solo all’apparenza, però – che incontro ogni dì. Hong Kong is and has always been Chinese.

 

13 Aprile

 

Rifletto su questa città, sulle abitudini sue e della sua gente, abitudini di cui sono stato, in effetti, partecipe fin da subito, inglobato in una routine rigorosa e cadenzata a causa del poco tempo a disposizione… Rifletto e mi domando, dunque: quanti sono, in fondo, due mesi di vita a Hong Kong? Direi: un tempo sufficientemente lungo per riempire un’intera agenda di cose da fare e inevitabilmente troppo breve per compierne anche solo la metà. E allora la verità è che mi sento un po’ predato non tanto dal ritmo di Hong Kong, ma dal mio stesso incedere, ovvero dalla frenesia che mi sono portato dietro in valigia. Sarà per questo che passo le giornate a camminare, consumando suole e percorrendo miglia; eppure, non di rado, mentre passeggio mi scopro a sorridere senza una precisa ragione, semplicemente per il piacere di trovarmi circondato dall’ignoto.

Riflettere ed essere richiedono uno sforzo convulso, uno sdoppiamento non facile da produrre e certamente dispendioso da mantenere, giacché mentre si riflette non si può smettere di auscultare la vita e, allo stesso tempo, il vivere ciò che è nuovo e diverso induce una inesausta proiezione di sé altrove; un’iperattenzione che a sera fa percepire la giornata appena trascorsa come fosse stato un mese. Sniffi l’isola, i suoi lezzi, le sue contraddizioni, le sue delizie, ma senza accorgertene vieni, a tua volta, sniffato. When does the astonishment end? Never, I hope…

Mentre ero sul 101 verso le lezioni di Cinese mi sono chiesto: dov’è l’anima di Hong Kong? Where is Hong Kong’s soul? È forse qui, sul bus, o nelle metro che la percorrono senza sosta? Oppure al porto, tra i suoi mercati, nelle sue bettole, a colare lungo le vetrate dei suoi grattacieli? Certo, Hong Kong è una città che nasconde; tra le voragini aperte, per sottrazione, alle pendici dei grattacieli, proliferano mondi insospettabili: campi di calcio, di tennis, di basket, e ancora: chiese, scuole, parchi, giardini, templi, pagode. La risposta, dunque, è giunta piuttosto naturale: inutile, anche in questi anfratti, cercare l’anima della città, non perché Hong Kong non possieda un’anima, ma perché, al contrario, credo ne abbia molteplici. Mi accontenterei, dunque, di percepirne, in nuce, l’alone, almeno di quei quartieri che iniziano appena appena a essermi familiari.

Tuttavia, di “conoscere” Hong Kong non se ne parla. E, si badi, il problema non è tanto la carenza di tempo, né una presunta peculiare impossibilità della città a farsi interpretare. Piuttosto, sono io che mi rifiuto di conoscere, nella misura in cui farlo significherebbe sottomettere tutto ciò che mi circonda a concetti che puntano a de-finire la vita secondo parametri già-detti e fors’anche già-scritti. Qui, attenzione, si può procedere solo dall’esperienza; in maniera euristica. Nothing more. Si vivano e s’accettino, dunque, per quello che sono, i rigurgiti del quotidiano: spasmi irriducibili di azioni e sensazioni – e ribellioni, perché no – i quali non possono, in alcun modo, essere circoscritti. Crediamo di circoscrivere la vita descrivendola, quando invece è lei a sfuggirci di mano, da sotto gli occhi, a ogni respiro. Per dire, insomma, che applicare la ragione (o anche solo il buon senso) a certe immagini sarebbe del tutto inutile: il macellaio che tutte le mattine, puntualmente, sbatte sul marciapiede, a un tiro dai passanti, la metà di un maiale appena sgozzato e sventrato, per ripulirne le interiora, è Hong Kong. Le domande, dunque, non possono che rimanere appese…








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