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“Horcynus Orca”
ricreato in lingua tedesca


      
Il capolavoro di Stefano D’Arrigo a causa della sua pretesa intraducibilità non ha mai fino ad oggi conosciuto versioni in lingue straniere. Ora a quarant’anni dalla sua uscita, l’edizione in lingua germanica di questo romanzo sarà presentata a Berlino il 25 febbraio 2015. Ospitiamo qui la postfazione del traduttore, anzi del suo 'traghettatore' germanofono che racconta la filogenesi della propria conoscenza del libro e del suo autore e della lunga, tribolata avventura che ha portato infine alla odierna pubblicazione, sperando che essa possa incoraggiare la diffusione in Europa di una delle maggiori opere letterarie del XX secolo.
      



      


di Moshe Kahn *

 

 

Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, S. Fischer Verlag, Frankfurt, 2015. Traduzione in lingua tedesca di Moshe Kahn.

 

              

Il mio primo incontro con Horcynus Orca, il monumentale romanzo di Stefano D’Arrigo, avvenne nel 1975, anno della sua prima edizione. A quel tempo vivevo già da molti anni a Roma. Quando il romanzo fu pubblicato, mi capitava casualmente di notare che sui giornali apparivano, con una certa regolarità, degli articoli su quest’opera da parte di numerosi intellettuali abbastanza noti. Apprendevo insomma dell’esistenza di un romanzo che ancora non conoscevo, ma che stava suscitando molto scalpore.

Durante i miei anni in Italia, trascorrevo regolarmente alcuni giorni presso un podere sopra il lago di Bracciano di proprietà d’una famiglia di amici o, per dir meglio, della mia “famiglia italiana”. Fu così anche nella prima parte dell’estate del 1975. Il mio amico Donato Sanminiatelli, che mi ospitava, era storico dell’arte e, come tale, un eruditissimo conoscitore dell’artista senese Domenico Beccafumi. La sua seconda, grande passione era il paesaggismo. Ricordo la sua tenuta posta in posizione collinare, che si estendeva per molti ettari ed era chiusa dal gigantesco abbraccio anfiteatrale d’una foresta di castagni la cui larga apertura dava spazio libero a una vista scendente sul lago. Essa offriva la possibilità di far sorgere un giardino del tutto particolare, che, partendo all’incirca dal 1965, fu progettato, costruito e curato dal grande architetto paesaggista inglese Russell Page. In questo modo, cresceva con gli anni uno dei più belli e più apprezzati giardini italiani, che Donato, la sua consorte Maria Sanminiatelli-Odescalchi e il loro figlio Andrea hanno potuto sviluppare.

Era una consuetudine che, in quei giorni, Donato ed io ci incontrassimo nella serra tutte le mattine per curare o trapiantare nel giardino delle talee d’ogni genere di piante.  Mentre ci dedicavamo a questo lavoro, discorrevamo lungamente delle nostre scoperte o delle nostre esplorazioni nel campo della musica, dell’arte, della letteratura, ma anche a proposito del paesaggio e della botanica. Ciò che apprezzavo in lui particolarmente era la sua cultura pulsante, la brillantezza del suo modo di pensare analiticamente, il suo ésprit e il suo giudizio risolutivo una volta che aveva portato a termine le sue riflessioni su un determinato argomento.

Fu così che una mattina, nella primavera avanzata del 1975, mentre lavoravamo nella serra, iniziò a parlarmi d’una sua nuova scoperta, ossia del romanzo Horcynus Orca che stava leggendo assiduamente da alcune settimane. Faceva solo degli accenni relativamente ai temi di fondo del libro, un’odissea moderna intorno al tema del ritorno, della vita e della morte: era quanto mettevano in evidenza i singoli episodi narrativi che lui mi raccontava. Soprattutto lo impressionava il linguaggio del romanzo, da nessuno mai usato prima come aveva fatto Stefano D’Arrigo, linguaggio di un carattere e di una bellezza del tutto nuovi e particolari, capace di esprimere appieno tutta la forza e ricchezza della lingua italiana. Questa idea lo ammutoliva, di tanto in tanto, e lo meravigliava. Infine insisteva a dirmi che dovevo, assolutamente, cominciare a dare uno sguardo a questo libro.

Iniziando a leggerlo, mi rendevo subito conto del modo espressivo diverso e mai sentito delle frasi oltre che del suono delle parole. Già mi colpiva la parola Horcynus: una trasformazione del nome zoologico Orcinus fatta per chiarire, fin dall’inizio, che non si è in un contesto realistico, ma in una meta-dimensione mitico-epica. Tale aspetto mi affascinava alquanto, mentre, dopo quindici pagine di lettura, già mi rendevo conto che la mia conoscenza dell’italiano, che pure non era poca (dopotutto, negli anni precedenti, avevo tradotto assieme a Marcella Bagnasco la prima, vasta raccolta di poesie di Paul Celan per espresso desiderio del poeta; e il volume, ora sparito dalle librerie, era stato pubblicato l’anno successivo nella collana de Lo Specchio della Mondadori), era insufficiente per poter captare e apprezzare a fondo l’insolito, eccezionale modo di raccontare dell’autore. Mi era tuttavia chiaro quanto accadeva nella lingua italiana – una specie di metamorfosi –, anche se non ero ancora in grado di esprimere ciò che precisamente si svolgeva in tale processo e in che modo, e in quale misura. Intanto, poiché il fascino di questa strana prosa cominciava ad esercitare su di me un profondo effetto, mi decisi a comprare il libro per leggerlo in un prossimo futuro con l’attenzione e la cura che il romanzo richiedeva, ma anche con la vaga idea di trasporlo, forse, chi sa quando, in lingua tedesca.





Negli anni successivi il destino mi aveva colpito diverse volte e pesantemente, tanto che mi decisi di andare a vivere in campagna all’est di Roma, là dove gli Abruzzi stendono le loro dita, nell’esistenza più tranquilla di Anticoli Corrado, piccolo paese con una tradizione di artisti, scrittori e poeti. Vivevo, fuori dell’abitato, in una casa grande ma semplice, dotata d’uno spazioso studio di pittore e dal soffitto molto alto.

Tra i colpi del destino capitatimi c’era anche la scomparsa di Donato Sanminiatelli, avvenuta all’inizio del 1979. Anche nel suo ricordo, nell’isolamento della mia casa, iniziai finalmente a leggere Horcynus Orca. Lo facevo sotto l’impressione di accettare, con questo libro – il cui tono di fondo è sempre la morte, sopra cui però ferve la vita nelle sue molteplici e inesauribili sfaccettature –, il legato dell’indimenticabile amico.  

Ho continuato a leggere Horcynus Orca per più di due anni, molto lentamente o rileggendo in continuazione quanto avevo già letto. Giunto alla fine della mia incessante lettura, ero ormai pienamente cosciente di tenere tra le mie mani uno dei cinque o sei grandissimi romanzi del XX secolo europeo, quelli ‘eterni’. Né, fino ad oggi, ho mai dovuto cambiare il mio parere. Questa affermazione potrebbe apparire audace se si considera che, fino a oggi, cioè a quarant’anni dalla sua prima pubblicazione in Italia, il romanzo darrighiano non è mai stato tradotto e stampato in una lingua straniera – eccetto il mio adattamento in tedesco che verrà pubblicato a febbraio del 2015. Certo è mancato poco che questa mia versione non potesse essere possibile, poiché le grandi case editrici con un programma italiano rifiutavano il romanzo da me proposto. I loro motivi erano i più vari: la qualità letteraria non era decisiva (del resto, non potevano conoscerla visto che gli editor nelle case editrici non disponevano d’una copia del romanzo). Decisivo era invece il fatto che l’autore, sconosciuto in Germania, determinava, con un libro di tale monumentalità, un non calcolabile rischio editoriale. C’era anche qualche editore che prendeva a pretesto certe critiche sfavorevoli che pure – non sia qui taciuto – erano apparse su alcuni giornali dopo la pubblicazione di Horcynus Orca. Soprattutto, non sembrava fosse stata presa in considerazione la felice, entusiastica accoglienza riservata al libro dai migliori critici dell’epoca.

Simile destino può ricordare, in un certo senso, quello del Moby Dick di Herman Melville – un romanzo che D’Arrigo stimava altamente e leggeva di continuo, oltre all’Ariosto e a Dante –, che conquistò fama mondiale solo cinquant’anni dopo la pubblicazione. È un destino che ricorda anche quello de La recherche du temps perdu di Proust, la cui prima traduzione intera in tedesco da parte di Eva Rechel-Mertens fu presentata in Germania solo quarant’anni dopo la sua pubblicazione in Francia; oppure quello de L’uomo senza qualità di Robert Musil, che ebbe bisogno di molto tempo e del lavoro di tanti scopritori per uscire dalla quasi onnipotente ombra di Thomas Mann e irradiare con l’aria della migliore lingua tedesca la narrativa del ’900.

A conclusione della mia lettura di Horcynus Orca, sentivo il forte desiderio di fare la conoscenza dell’autore. Ciò per essere sicuro che lui mi stesse accanto quando, un giorno, mi sarei impegnato nella traduzione del suo romanzo. Fu la Casa Editrice Mondadori a favorire il mio primo incontro con Stefano D’Arrigo che abitava in una zona periferica di Roma, a Monte Sacro.

Con l’autobus mi mettevo in viaggio un pomeriggio d’estate sulla via per incontrare lo scrittore. Giunto alla fermata, andai a piedi verso l’alberata e ombrosa Via dell’Assietta al numero 4, dove D’Arrigo abitava. Premevo il bottone del campanello, andavo con l’ascensore al terzo piano e, aperta la porta dell’ascensore, me lo trovai di fronte, D’Arrigo, un uomo più piccolo di me, che mi accoglieva a braccia aperte. Aveva un viso segnato da profonde rughe, ma il suo sorriso gentile mi tolse subito da ogni imbarazzo. “Benvenuto a casa tua” mi disse abbracciandomi. D’allora, tra lui, sua moglie Jutta e me crebbe il più cordiale affetto.





Jutta e Stefano D'Arrigo


Dopo il primo e purtroppo vano tentativo di suscitare l’interesse di alcune Case Editrici sul grande romanzo di D’Arrigo, ci vollero ben ventidue anni – intanto, nel 1992, lo scrittore moriva all’improvviso – prima che avvenisse l’incontro con l’editore svizzero Egon Ammann. Ricordo che Amman ascoltò con calma e molto concentrato quanto gli raccontavo a proposito di Horcynus Orca e del suo autore; e infine, a distanza di qualche settimana, di alcuni chiarimenti e riflessioni, si dimostrò talmente convinto dell’idea da prendere la decisione coraggiosa di fare di questo romanzo un progetto importante della sua Casa Editrice, incoraggiandomi nell’impresa della mia traduzione.

Ma ora, com’è che questo grande romanzo italiano fatica tanto a trovare dei traduttori ed editori all’estero? Uno sguardo alla sua vicenda spiega la sintomatologia degli alti e bassi che, verso la metà degli anni Sessanta, hanno accompagnato l’andamento del libro presso la sua Casa Editrice, la Mondadori, e la Casa Piper a Monaco di Baviera. Ecco la vicenda: a partire dal 1956, Stefano D’Arrigo scrisse in poco più di un anno un romanzo intitolato La testa del delfino, versione iniziale del futuro Horcynus Orca, cui seguirono tre diverse versioni. Nel 1958, l’autore estraeva dall’intero testo due episodi di complessive 100 pagine pubblicandoli, poco tempo dopo, sul Menabò (n. 3, 1960), la rivista letteraria diretta da Elio Vittorini e Italo Calvino. Tale pubblicazione attirò subito l’attenzione del mondo letterario italiano, generando molte aspettative. Vittorini volle raccomandare il romanzo ad Arnoldo Mondadori, il quale s’impegnò molto per assistere D’Arrigo nella sua impresa, calcolando di pubblicare quanto prima l’opera completa che, nel frattempo, aveva assunto quale titolo I fatti della fera. Nel 1961, le bozze di stampa erano pronte e si pensò che l’opera potesse essere posta in commercio entro poco tempo. Era l’anno 1961, che – si pensò – sarebbe stato quello dell’affermazione di Stefano D’Arrigo. Fu perciò naturale che, a questo punto, Mondadori offrisse i diritti del libro all’estero. Per l’area di lingua tedesca, era la prestigiosa Piper Verlag con il suo editore Klaus Piper ad acquistare l’opzione, in ciò confermato dal giudizio del traduttore Heinz Riedt.

Senonché, diversamente da come si pensava, si rivelò evidente che D’Arrigo non avrebbe potuto rimandare presto le bozze corrette, per cui Arnoldo Mondadori pensò di ricorrere a un’esca lusinghiera concedendo allo scrittore uno stipendio mensile affinché potesse portare a termine la sua opera epocale senza altre preoccupazioni. Ma l’editore non poteva immaginare che ci sarebbero voluti altri quattordici anni prima che il libro potesse essere pubblicato. Quando, alla fine, l’autore presentò la stesura definitiva dell’opera, fu evidente che essa era ben altro da ciò che editori, lettori e critici avevano da anni aspettato con ansia. Ora il nuovo titolo del romanzo era Horcynus Orca, e le aggiunte apportate erano moltissime. Il testo presentava interi passi inalterati, ma nuovi episodi erano stati inseriti, mentre la tessitura della sua prosa era divenuta più fitta e sottile, al pari della ricchezza inventiva del lessico. L’‘italianizzazione’ del siciliano della costa nord-orientale della Sicilia, ottenuta tramite un raffinatissimo cesellamento, risultava d’una poesia e d’una sonorità mai conosciute prima. La sintassi del romanzo era più ampia, solenne, sinfonica: quasi, direi, di un’opulenza bizantina, soprattutto nella seconda parte. Mentre – come scrive Walter Pedullà, grande conoscitore dell’Horcynus Orca e suo instancabile propugnatore – nella prima versione del romanzo “ci volevano cinque pagine per arrivare da un punto all’altro, ora ce ne volevano cinquanta, e in un episodio (poco prima della fine: un vortice anziché un rush finale) perfino più di duecento”.

Quasi l’intera seconda parte del romanzo era stata sviluppata solo durante gli anni della correzione delle bozze. A proposito di tale impegno, durante le mie prime visite da loro, D’Arrigo e sua moglie Jutta mi avevano raccontato del lavoro svolto per l’ampliamento del libro (non tanto diverso da quello di Célèste Albaret, la governante di Proust, insieme allo scrittore francese). S’era trattato di stendere da un parte all’altra del salone dei fili chilometrici su cui erano attaccate con mollette le bozze insieme alle aggiunte scritte a mano in calce sulla pagina – a volte sei o sette fogli, chiamati “rotoli” – o con delle inserzioni incollate sui lati dei fogli come una sorta di ‘leporello’. In questo modo, lo scrittore poteva tenere sotto controllo lo svolgimento della storia nei vari punti.





L'orca darrighiana


Quando, nel 1975, l’ultima versione del romanzo con i suoi ampi sviluppi veniva pubblicata in un volume di 1257 pagine fittamente stampate, il mondo letterario rimase dapprima perplesso: nessuno s’aspettava un romanzo così inusitato e sorprendente. Frattanto, dopo un primo meravigliato silenzio, si erano formati due campi critici. Il primo, quello più ampio e convincente, cui appartenevano Elio Vittorini, Pier Paolo Pasolini, Luigi Malerba, Vincenzo Consolo, Primo Levi, Andrea Camilleri, Gianfranco Contini, Claudio Magris, Italo Calvino e più tardi anche George Steiner con tanti altri. Tutti loro celebrarono il romanzo, che Pasolini ebbe a definire come “1257 pagine di pura poesia”. L’altro campo, da Cesare Cases a Enzo Siciliano, ne parlava poco favorevolmente, qualche volta con malcelato disprezzo. Va detto che, anni dopo, Siciliano ebbe a scusarsi formalmente con D’Arrigo per il proprio frettoloso intervento, che evitò d’inserire in una raccolta di scritti critici.

Purtroppo, le case editrici estere che avevano delle opzioni per tradurre il romanzo ne prendevano le distanze dopo averne costatato la presunta ‘illeggibilità’ e l’‘intraducibilità’, fino a restituire i loro diritti. Il traduttore tedesco Heinz Riedt, consigliere della Piper Verlag, riteneva che il romanzo – il cui lessico gli appariva così poco italiano – fosse incomprensibile. Secondo lui, non c’erano dubbi che Horcynus Orca si sottraesse a ogni possibile traducibilità. Certo Riedt non comprese quanto era accaduto alla lingua darrighiana che lui aveva conosciuto già negli anni Sessanta; e ora, nel 1975, non s’era accorto che quello di D’Arrigo non era dialetto né lingua, e neanche un miscuglio di entrambi. Un simile linguaggio gli risultava solo ‘strano’, difficilmente o per niente comprensibile, dunque intraducibile.

In realtà, negli anni, D’Arrigo s’era creato un suo personale linguaggio, quello più adatto per poter raccontare la storia piena di realtà e di verità del suo protagonista ‘Ndrja Cambria. Questo linguaggio si sviluppava anche da lontane tradizioni e influenze linguistiche, da una catena lessicale nella quale l’italiano come era apparso per la prima volta alla splendida corte di Federico II a Palermo in forma di poesia era la maglia più recente. Le maglie precedenti, se seguiamo le fila a ritroso, sono il francese e il normanno, l’arabo, il greco bizantino, il latino, il greco antico, il siculo. Questo materiale linguistico si trasformò per quasi duemila anni, giungendo finalmente ai lessici del mezzogiorno italiano che conosciamo. Anche se lo sviluppo di tali forme nelle varie regioni (Campania, Calabria, Puglia, Basilicata e Sicilia) si svolgeva in maniera diversa, ognuna di esse era innanzitutto caratterizzata da una tradizione linguistica greco-latina millenaria.

Sono dati, questi, che, appunto, si ritrovano nella lingua siciliana. Da un lato sembra che questa sia strettamente imparentata con l’italiano: molte parole sono uguali o simili e hanno un significato uguale o simile; altre invece suonano uguali o simili, ma hanno un significato completamente diverso dall’italiano. Per chiarire quest’ultimo gruppo, siano elencati qui di seguito soltanto pochi esempi: stilare significa in italiano “stendere, scrivere un documento” e deriva da stilo, un oggetto per scrivere; in siciliano stilare ha invece una coloratura greca, deriva da stylos e assume il significato di “avere l’abitudine”, come nell’espressione “stilava alzarsi presto”. Spiare significa in italiano “guardare, osservare attentamente e di nascosto” e deriva da una radice gotica e latina; in siciliano spiare assume invece il significato di “domandare, chiedere”. L’aggettivo meschino si trasforma nel siciliano mischino – ambedue le forme hanno la radice araba misqin –, che in italiano prende il significato di “gretto”, ovvero “piccino nel modo di pensare, di giudicare o di vedere le cose”, mentre in siciliano ha, come nell’arabo, una più decisa tendenza verso il significato di “poveretto, sventurato, infelice”.

Più evidenti sono le strutture sintattiche. Mentre in italiano il soggetto d’una frase si cerca molto presto il suo predicato, in siciliano il predicato sta in fondo alla frase. In mezzo a loro possono accadere vere e proprie avventure sintattiche, come, appunto, le si trovano non poche volte nell’Horcynus Orca. Per tale aspetto, il siciliano è più vicino al greco-latino che non all’italiano, riportando a Pindaro oppure alle liriche corali attribuite a Stesicoro, e a volte anche a Orazio e Lucrezio, ambedue di formazione greca. Da osservare che la costruzione altamente artistica dei loro versi si presta assai bene a una coraggiosa, creativa traduzione anche in tedesco.

A causa di tali e altre particolarità, il codice linguistico siciliano ha per un orecchio non siciliano qualcosa di operistico sia per i tempi dei verbi, sia per la posizione delle parole ai libretti lirici dell’opera italiana dell’800. Comunque non dobbiamo dimenticare che i siciliani non avvertono tutto questo alla stessa maniera, perché, per loro, quel codice è lingua quotidiana. Di questa fa parte anche l’antiquato modo di rivolgersi a una persona, ancora in uso fino agli anni Ottanta. Ci si riferisce al “Voi”, il “Vossia” siciliano, che per un orecchio moderno suona perdutamente pomposo, ma che, sparito dal linguaggio urbano, in Sicilia lo si incontra, soprattutto tra le popolazioni rurali, quale forma di reverenza e rispetto. Dietro a tali espressioni stanno, ovviamente, delle mentalità indicanti tradizioni profondamente radicate. A ciò si aggiunge che, durante il periodo fascista, il “Lei”, che prima di quell’epoca era già in uso e considerato più moderno, venne proibito, in quanto troppo lezioso, per essere sostituito dal “Voi” considerato più cameratesco.





Stefano D'Arrigo (1919-1992)


Mi sembrava importante menzionare questi pochi elementi per far comprendere da quali complesse rimembranze può nutrirsi e svilupparsi il modo di raccontare di D’Arrigo, e in che modo la traduzione tedesca debba tenerne conto. Eppure, tali rimembranze sono soltanto una parte. Un’altra parte di esse riguarda, ovviamente, i riferimenti all’Odissea di Omero, all’Ulisse di Joyce o anche al Moby Dick di Melville, alla Divina commedia dantesca e agli opulenti, addirittura arabescanti racconti che incontriamo nelle Mille e una notte con le rigogliose rime interne di cui la loro prosa è adorna. Senza dimenticare la tradizione, largamente diffusa in Sicilia, oltre che dell’Orlando ariostesco, di Andrea da Barberino coi suoi Reali di Francia, delle Chansons de geste e delle loro successive ricreazioni, come nell’Opera dei Pupi siciliana intorno all’imperatore Carlomagno. Tutto questo mantenendo uno stretto legame con le condizioni attuali di vita e con i modi d’esprimersi dei pescatori, cioè i pellisquadra: così li chiama D’Arrigo immaginando che la loro pelle bruciata dal sole sia simile a quella ruvida dello “squadro”, una specie di squalo dello Stretto. Attivi sullo Stretto di Messina verso la fine della Seconda guerra mondiale, i pellisquadra navigano e pescano sullo scill’e cariddi, ossia tra Scilla sulla costa calabra e Cariddi sulla costa siciliana.

Per ricreare nella lingua tedesca questa immensa e multiforme opera non avevo davanti a me nessun altro modello. Non conoscevo né conosco nessun libro che, per la sua ricchezza linguistico-lessicale e l’abbondanza di suoni e immagini, sia così particolareggiato. Per questa ragione non mi restava che sviluppare un approccio personale che doveva rendere possibile riscattare il mio impegno con l’autore e la sua opera.

Quando agli inizi degli anni Ottanta, poco dopo il nostro primo incontro, avevo esposto a D’Arrigo le mie idee su un possibile contatto per una traslazione dell’opera in tedesco, fummo presto del parere che non si trattava di scrivere una traduzione nel senso abituale. Piuttosto, io vedevo il mio lavoro come una ‘trasformazione’, una sorta di ‘trasposizione’ o un’attività da ‘barcaiolo’ (traghettatore?)  tra due sponde lontane l’una dall’altra. Il suono, i ritmi sintattici, gli antichi, medi e recenti strati linguistici del tedesco richiedevano che mi allontanassi a volte dall’originale per ottenere degli effetti somiglianti a quelli del testo italiano. D’Arrigo concordava completamente. Mi diceva che l’effetto sonoro e il ritmo del suo romanzo avevano per lui un’assoluta priorità. Aggiungeva, poi, che dovevo essere sempre sicuro di non tradire il suo pensiero.

Il suo pensiero – posso oggi affermare – che non ho mai tradito in nessun punto. Le esigenze del mio lavoro richiedevano una riscrittura basata su creatività e responsabilità, non certo su una contabilità pignola che sarebbe risultata vana e dannosa. Mi viene allora in mente la constatazione, sia pure ripresa da altro contesto, del principe Salina nel Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi”. Questo era il mio dovere e il mio impegno.

Per completare il mio lavoro mi erano utili certi ricordi di linguistica, le mie coniazioni lessicali di periodi diversi che, al tempo stesso, sono passati e presenti, finendo per rappresentare una vasta e assai varia strumentazione. Forse il lettore tedesco, impegnato come me nella costruzione artistica della sintassi tedesca di Horcynus Orca, avrà potuto avvertire risonanze di Jean Paul oppure di Heinrich von Kleist; oppure ha osservato un uso piuttosto meridionale della sintassi, del lessico, della grammatica, insieme, forse, a qualche ombra di yiddish. Non è un caso se nella mia traduzione s’avverte l’ondeggiare di forme diverse dell’ode o, talvolta, nella sintassi, il flusso dattilico o quello giambico, nonché l’assiduo cambiamento di vocali per far ‘scintillare’ le molte cose nominate. È presente Hölderlin, sul quale D’Arrigo si è laureato nel 1942, e sono presenti la sua lirica, la sua prosa o, anche, la sua traduzione di Sofocle, e sicuramente si sente anche Pindaro, fino a Paul Celan, Robert Walser e Arno Schmidt. Oggi, ripensando all’intero periodo del mio lavoro di traduttore (dal 2006 al 2014), non dimentico d’avere avuto intorno a me, nelle orecchie, nella mente, la musica di Gustav Mahler che durante la trasformazione del testo mi ha sempre indotto a riascoltare il romanzo in una maniera sempre rinnovata.





Da tutto ciò doveva sorgere un mondo che, arcaico e lontano, diviene vicino, muovendosi attraverso i secoli e restando direttamente tangibile, capace di produrre suoni antichi ma anche di risvegliare una sensibilità moderna. La ricreazione tedesca doveva necessariamente assumere un ‘suono’ diverso dall’italiano, cosa spiegabile con la diversa impronta delle due lingue, fermo restando che il suono tedesco punta quanto l’originale italiano sulla pienezza e l’inconfondibilità.

Il mio obiettivo era di accompagnare il romanzo darrighiano sulla strada verso l’Europa, là dove, a pieno diritto, è la sua casa. La sua pubblicazione nell’aria di lingua tedesca è, per così dire, una prima tappa. Il mio compito era di essere un utile compagno dello scrittore verso tale strada.

Ringrazio di tutto cuore il mio vecchio insegnante e maestro Arnold Wiebel per il suo consiglio e le sue domande agli albori della mia impresa, allorché ha esaminato le prime pagine nate più di trent’anni fa. Ricordo altresì, molto volentieri e con gratitudine, anche suo fratello Martin che allora era corrispondente del giornale Frankfurter Allgemeine Zeitung a Roma e mi aiutava sia con le sue proposte di correzione, sia con osservazioni che mi hanno indotto a trovare molto presto un orientamento nella lingua lussureggiante di D’Arrigo. Quasi inesprimibile è la mia gratitudine verso Egon Ammann che, fin dall’inizio della nostra conoscenza, ha avuto la massima fiducia nelle mie capacità di ‘traghettatore’, accompagnando e co-plasmando sino alla fine il progetto editoriale. Ma non mi sarebbe stato possibile esercitare la mia azione di traghettamento se non avessi avuto il sostegno del mio vecchio amico Gianni Galifi di Catania e del conterraneo di D’Arrigo, il paziente e instancabile Stefano Lanuzza, di Firenze, che non solo è un grande conoscitore dell’opera di D’Arrigo, ma era anche altamente stimato dall’autore e poi anche da me: entrambi hanno messo la loro conoscenza e il loro consiglio a mia disposizione e mi hanno spesso aiutato a sgomberare la strada quando certi massi minacciavano di poterla bloccare. A loro va la mia gratitudine particolare… Mando infine l’ultima, silenziosa e sempiterna gratitudine di là, a Stefano e Jutta D’Arrigo, oltre che a Donato Sanminiatelli –  alla cui memoria dedico la mia traduzione – per la profonda, intensa, appassionata conoscenza di uno dei grandi romanzi dell’Europa.

 

 

 (Berlino, 2014)

    

 

 

*  Moshe Kahn è traduttore in lingua tedesca di molti autori italiani, tra cui Federigo Tozzi, Romano Bilenchi, Beppe Fenoglio, Primo Levi, Pier Paolo Pasolini, Luigi Malerba, Roberto Calasso, Andrea Camilleri e, ultimamente, Stefano D’Arrigo, l’autore di Horcynus Orca. 

 




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