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di Pippo Di Marca
Campo
deʼ Fiori, una volta forse era un giardino... Ora non so più cosʼè. O forse lo so, perché la vedo insidiata giorno dopo giorno da una
lenta trasformazione, secondo la semplice legge del tempo che passa, una
trasformazione che di quel campo, o giardino,
sta inesorabilmente facendo, oltre lo sfavillìo di dehors e luminarie,
un accumulo di detriti del tempo, vale a dire nient'altro che... un cimitero:
la sola certezza della legge del tempo che passa. All'angolo tra via dei Chiavari e via dei Chiodaroli c'è un
negozio di abbigliamento a gestione familiare, del genere via Sannio meglio
fornita ma ugualmente economica, a cui sono affezionato, direi quasi legato. Ci
compro jeans, t-shirt, canotte e giubbotti da una vita, da quarantacinque anni.
Il mese scorso ci sono passato perché mi serviva un paio di jeans scuri, quelli
antracite, ce li ho tutti chiari e blu. Dunque vado. C'è un'aria dimessa.
Stanno svendendo tutto. Entro fine anno chiudono. Il principale e la moglie,
che conosco da 'giovani', non ci sono. C'è solo una commessa, che ho sempre
creduto fosse la figlia, e tutto sembra in disarmo. Vorrei un paio di jeans
neri, dico. Non ne abbiamo, risponde, vendiamo tutto quello che c'è in negozio
e poi chiudiamo. Chiudete? Si, chiudiamo. Mi dispiace. Mi saluti tanto suo
padre. Non è mio padre. Allora mi saluti il principale, gli dica da parte di
quello che ogni anno compra un paio di jeans. Il principale sta morendo, dice
la commessa, per questo chiudiamo. Il giardino si è trasformato in cimitero! I
jeans erano i fiori di un giardino che non c'è più...
Tuttavia
chi resta continua a vestirsi e comprare
fiori (che è la stessa cosa), continua a coltivare il suo giardino, e fino al
giorno in cui sarà ancora il giardiniere del suo giardino per lui varrà
l'epitaffio di Duchamp: d'altronde sono sempre gli altri che muoiono!
E
così a noi, a chi resta, a me, da qualche tempo, tocca sempre più spesso di
ricordare i giardini, gli splendidi
giardini, di amici che non ci sono più, di artisti che ci hanno lasciato e hanno lasciato un segno forte sia nella
cultura e nell'arte italiane e sia nelle nostre singole esistenze. Di solito i
sentieri dei vari giardini sono labirintici, si inventano percorsi, aiuole,
piante, fiori nuovi, incatalogabili, che sfuggono a qualsiasi gabbia, insomma si biforcano secondo capricci o
determinazioni che riescono a mettere in scacco qualsiasi gramigna o erbaccia;
ed è un piacere spesso assistere alle metamorfosi dei nostri giardini. Ma non
sempre è così, comunque non può essere così per sempre, il tempo, in
definitiva, è il vero giudice. E certe volte il tempo vira all'improvviso e fa
sì che giardini che vorremmo vedere fioriti e floridi e cangianti per sempre,
invece di trovare la strada delle biforcazioni prendono quella della
decadimento, o disfacimento, e dei sentieri che si incrociano per condurci nei
vicoli ciechi da cui non si esce più.
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Una immagine giovanile di Renato Mambor
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Ed
ecco che, nell'ultimo mese, l'allegoria del negozio di jeans che 'muore' a
Campo deʼ Fiori, 'deborda', senza mostrare alcun rispetto o deferenza verso
creatori di ben più elevati manufatti, nella realtà di quel nostro grande
"giardino dei giardini" che è il mondo del teatro; e coinvolge, in un
gioco di destini in vari modi incrociati, i giardini e le vite di tre nostri
carissimi compagni di strada. Mario Prosperi, Franca Angelini e Renato
Mambor hanno spiccato il volo finale
quasi insieme, nel volgere di una
quindicina di giorni: Mario il 19 novembre, Renato e Franca nello stesso
giorno, il 6 dicembre (rispettivamente a 74, 78 e 85 anni ). Erano persone tra
di loro molto diverse: Renato e Franca, che sono spirati a distanza di poche
ore l'uno dall'altra, addirittura non si conoscevano (nella vita privata,
intendo, non certo in quanto artisti, critici, studiosi, in quanto personaggi
pubblici); Renato e Mario, invece, erano stati amici, molto amici, avevano lavorato insieme, specie negli anni ʼ70 e ʼ80, quando Renato ebbe, 'visse' un folgorante passaggio, una biforcazione
più che decennale, sulla scia di Mario Ricci e di Carlo Quartucci, dalle arti
visive verso il teatro. Fondamentalmente
un teatro immagine, un teatro di pittura, di scenografia performativa (la
famosa, geniale Trousse, da cui prese il nome il suo gruppo), un teatro del
gesto e del corpo; ma anche un teatro di drammaturgia, di regia, quello che lo
avvicinò per qualche tempo alla visione teatrale più 'canonica' di Prosperi,
dapprima all'Alberico e poi al Politecnico, lo spazio 'creato' da Prosperi, insieme
ad Amedeo Fago e Giancarlo Sammartano, per rappresentare e promuovere drammaturgia e cinema di qualità,
di innovazione. Poi si separarono e ognuno andò per la propria strada: Mario
lottando per difendere la sua idea di drammaturgia e il suo teatro fucina;
Renato facendo spettacoli altrove (alcuni, molto belli, nel mio 'storico'
Meta-Teatro di via Mameli), e successivamente dedicandosi anima e corpo alla
pittura in una superba parabola creativa di maturità che coerentemente ha
riformulato, riproposto e reinventato il suo mondo poetico più che
cinquantennale, risalente alla fine degli anni ʼ50,
quando cominciò con Tacchi e Schifano e la cosiddeta Scuola di Piazza del
Popolo. Mario fu meno fortunato, anche se fu altrettanto coerente e serio.
Talmente serio da farsi attore-autore 'comico' da critico, studioso e autore
'impegnato' che era (una versione più dura, tosta direi, sempre sul pezzo, di
Mario Moretti, per rimanere alla scena 'romana'). Si che si diede a usare le 'armi' del sarcasmo e del grottesco per
denunciare il proprio malessere al cospetto del malessere e delle assurdità del
mondo. E tutto questo lo fece con tanto impegno che quando la sua bottega
dovette chiudere lui cominciò a sentirsi un po' sperduto, tra disincanto e
accettazione, come un senza casa che
vagava alla ricerca di qualcosa, di un riscatto, di un'ennesima biforcazione che non è
riuscito a trovare. La sua parabola, o traiettoria, ha pensato bene, alla fine,
di infrangersi, o di incrociarsi, precedendolo di qualche settimana, con quella
del suo amico Renato.
È
chiaro che tutti questi piccoli segnali, la più ostinata 'ricerca' di
coincidenze non giustificano in alcun modo questa singolare congiunzione di
destini sulla linea del traguardo finale.
Figurarsi poi se in questo 'rush'
si infila, perentorio quanto fuorviante, lo scatto conclusivo, l'allineamento e
la 'virata' di Franca Angelini..
Ripeto,
erano tre persone diversissime tra di
loro. Eppure qualche cosa di molto più forte di una coincidenza o di una
collaborazione li accomunava, altrimenti il caso, per quanto oscuro e
imperscrutabile, non si sarebbe scomodato a farli sfilare più o meno in riga
per l'ultima passerella. Ma che cosa?
Li
accomuna il fatto che tutti e tre avevano compiuto, direi pienamente, vale a
dire 'realizzato', la loro lunga parabola creativa.
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Franca Angelini
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Li
accomuna il fatto che sono stati, a vario titolo e indefessamente,
giardinieri del teatro, e in particolare del grande 'giardino dei giardini'
nostro, di quella neoavanguardia, o nuovo teatro, che ha mosso i primi passi
del suo assalto al giardino (o forse meglio al fortino, al 'fortino dei
fortini') del teatro e dell'arte e del
sapere tradizionali , proprio alla fine degli anni ʼ50:
insieme alle prime prove pittoriche di
Mambor e ai primi originali studi
accademici già in odore antiaccademico di Franca Angelini. Che è stata
un'italianista eccelsa, aperta, con interessi e studi anche da francesista, che
in parte la rendono 'gemella' di francesisti
puri (per così dire) come Giovanni Macchia o Jacqueline Risset, o di
grandi anglisti come Giorgio Melchiori. Che ha esplorato come pochi altri il
primo Novecento, spaziando da Bragaglia
a Petrolini, a Graig, Balla, Depero, Prampolini, a Pirandello, ai
Giganti della Montagna, al rapporto tra Teatro e Stato, tra Riforma e
Rivoluzione e contemporaneamente ha saputo indagare e leggere tra i primi in
Italia la figura e l'opera di Jean Genet, un'autentica pioniera, dotata di uno
sguardo acuto e piuttosto ampio, particolarmente verso il nuovo, il non
conforme, forte della lezione di Pirandello vista come un affaccio verso la
contemporaneità, come il grimaldello che ha fatto saltare il gioco, e il giogo,
della 'rappresentazione' teatrale. E penso non ci sia altro da aggiungere, per
capire la sua caratura e il suo ruolo: e ovviamente a parte il fatto che ci
sarebbe un'infinità di cose da aggiungere. Sia a proposito di lei che, va da
sé, a proposito degli altri due che le circostanze e le congiunzioni hanno
voluto 'congiunti' anche in questo ricordo: dettato non solo dall'amicizia, ma
anche da un'etica di testimonianza, dal dovere civico, oltre che artistico e
culturale, di attestare, cioè di far fede.
Ora,
per tornare al nodo irrisolto, al 'quid' che li accomuna (o li accomunerebbe),
penso che lo si possa già scorgere nelle pieghe di quanto già detto e
specialmente in quell'accenno all'idea di 'assalto al fortino' – o ai vari fortini, o al giardino, o ai vari giardini –
dell'arte, del teatro, della pittura, della critica, dell'accademia.
Il
quid che, nella loro diversità, li accomunava, che li ha messi insieme
(sicuramente nello sguardo di chi può leggere su un marmo l'epitaffio di
Duchamp) nell'ultima fuga, è che erano dei combattenti, e per di più dei
combattenti di lungo corso, della 'guerra' dell'arte, o delle arti, se si preferisce.
Da qui non si scappa: c'è una guerra della letteratura, ce n'è una della
poesia, una del teatro, una della pittura ecc... Basta guardare le opere dei
grandi, o le opere grandi di tanti altri, per capirlo, per saperlo. Ebbene in
questa 'guerra' Renato, Franca e Mario, ciascuno a modo proprio, si sono
distinti.
Renato,
col suo corpo statuario ma delicato, è stato un 'guerriero' buono, tenace e riservato; Mario, con la sua
grinta e la sua rabbia è stato 'guerriero', direi un combattente, da prima linea, reso man mano
più duro e 'cattivo', di battaglia in battaglia; Franca Angelini, era una
specie di 'amazzone', una donna molto bella e molto intelligente e molto
lucida, politicamente molto avanzata, disposta a sporcarsi le mani, se
necessario – senza perdere un grammo della sua femminilità e di una certa
grazia innata, incarnazione quasi 'nonchalante' di ciò che mondanamente si
suole chiamare 'classe'. E fu con questa allure, con questo piglio, con questa determinazione, con questa
volontà di ribellione che Franca Angelini si unì a noi del Meta-Teatro
nell'avventura della messa in scena de I
Negri di Genet, condividendo tutta la violenza trasgressiva di quello
spettacolo sia nella lunga fase di creazione della messa in scena che dopo,
anche negli anni, e contribuendo con una potente, 'genetiana', traduzione del
testo. Ed è stato, più recentemenre, con lo stesso straordinario 'carattere'
che ha presentato, alla Casa dei Teatri, il mio recente libro Sotto la tenda dell'avanguardia, giusto
pochi mesi fa, l'ultima volta che l'ho vista. In seguito l'ho sentita un paio
di volte, sempre in forma, sempre battagliera. Poi non so cosa sia successo. Se
n'è andata quasi di corsa, come se avesse dovuto onorare un appuntamento al
quale per lungo tempo si era sottratta...
Un
piglio identico, una determinazione simile, ma più maschile, più rancorosa, più
cieca, più rabbiosa, l'ha avuto Mario Prosperi. Secondo me da sempre,
sicuramente da quando aveva aperto il Politenico, vale a dire negli ultimi più
di trenta anni della sua storia. Per dire solo la cosa più eclatante, più
impensabile, più dissennata e coraggiosa, Mario Prosperi è stato, credo,
l'unico (almeno nel senso che a un certo punto ne aveva fatto una vera e
propria bandiera) uomo di teatro italiano, novello Davide contro il gigante
Golia, che in nome e in difesa della drammaturgia che lui promuoveva ha
apertamente, pervicacemente e sistematicamente 'sfidato' il potere teatrale,
perlomeno esorbitante, costituito e incarnato da Franco Quadri, pagandone
ovviamente tutte le conseguenze, fino all'ultima stilla di...
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Rossella Or e Mario Prosperi nello spettacolo Tempo di fuga (2012)
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Il
'guerriero' Mambor invece ha vinto con la tenacia, con la bontà, con la
dolcezza, con gli anni ha imparato i tempi lunghi, il lavoro giorno dopo
giorno, il piacere puro del lavoro come 'arma' di trincea, la cui linea ha sempre, indefessamente e appassionatamente difeso, limato, fatto avanzare, spostare in avanti, progredire, curare, con
l'aiuto amorevole e la dedizione totale e impareggiabile di Patrizia Speciale. L'inizio, o il momento
cruciale, anche come crescita e maturità, di questa sua rinnovata forza, di
questa sua tenacia, di questa sua bontà, e fede, risale alla fine degli anni ʼ80. E io ho avuto la fortuna, per caso (ah, il caso!), di condividerlo
con entrambi. Era aprile, o maggio, dell'87, e io, dopo anni, ero ritornato a
Berlino. Ero andato a trovare dei miei amici della 'comune' dove avevo vissuto
negli anni ʼ69-ʼ70 di fuoco e di rivoluzione. Anche Patrizia e Renato erano lì. In una
clinica specializzata per interventi al cuore, dove Renato venne operato e, con
diversi bypass, rimesso a nuovo. Seguii
tutta la sua convalescenza, ogni giorno, fino a quello della partenza, quando
caricammo i bagagli. Renato era tranquillo, sereno, forte, senza paura; stava
cominciando, o ricominciando, con l'animo di fanciullo, di uomo buono, una
nuova biforcazione, probabilmente una delle più creative tra le sue tante
biforcazioni, o vite. La biforcazione che, dopo 27 anni e 6 mesi, lo avrebbe
portato all'incrocio finale.
PS.
Questa "storia" dei giardini,
del nostro grande "giardino dei giardini", di cui oggi
registriamo e, perché no, festeggiamo, le ultime coincidenze, o improvvise
accelerazioni più o meno accanite, è una storia lunga, che viene da lontano,
una storia di caduti, di compagni di strada che in certo senso si sono
consumati, spesso anzitempo, nella 'guerra' di cui si diceva, una guerra che,
cominciata, 'nata' alla fine degli anni ʼ50 ha molto presto dovuto
prendere atto della caducità di ogni giardino.
Questa storia non era ancora entrata nella maggior età, aveva appena
fatto il suo ingresso in società, e già assistette, impotente e attonita,
incredula, al suo primo 'funerale', immolò, per così dire, la prima vittima.
Era il 1978 e la vittima si chiamava Claudio Previtera. Claudio era stato per
diversi anni l'attore feticcio di Mario Ricci, il suo alter ego in scena, il
protagonista assoluto di tanti suoi memorabili spettacoli degli anni ʼ70, oltre che essere uno straordinario, allucinato, visionario pittore.
Claudio Previtera si suicidò gettandosi nel vuoto l'11 novembre del 1978.
Caso
ha voluto che ieri, 16 dicembre 2014, c'è stata la presentazione di un
film/documentario appena finito (del quale è stato coautore e ispiratore Lillo
Monachesi, sodale e amico di Claudio, attore
e tecnico, anima e colonna del gruppo di Mario Ricci e poi di Remondi e
Caporossi) che resitituisce, sia pure con quasi 35 anni di... ritardo (occorre
fare un discorso serio su quello che Leo chiamava 'lo spazio della memoria' e
la cui realizzazione diventa sempre più evidente e necessaria, forse
ineludibile), la traiettoria umana,
poetica, attoriale, pittorica di questo grande artista che fu il primo di una
lunga lista. Dopo di lui, per sentieri e giardini più o meno biforcuti e
incrociati, si contano ormai diverse centinaia di caduti, tra artisti, critici,
registi, attori, tecnici, organizzatori, studiosi, compagni di strada e di
lotta. Nel loro nome, nella loro memoria continuiamo a vergare questi
'necrologi' contro cui vorremmo ribellarci, ma che, in verità, come minimo,
dobbiamo rispettare e esercitare. Anzi, se possibile, dovremmo fare di più,
perché la memoria e il ricordo sono le sole cose che possono restituire senso
anche a ciò che apparentemente si presenta come caso. Ieri sera, vedendo
quel film, abbiamo appreso, nessuno se lo ricordava, o forse lo aveva mai
saputo, che l'ultimo spettacolo a cui Claudio Previtera aveva
partecipato, poco prima di suicidarsi, era uno spettacolo non di Mario Ricci,
ma di Renato Mambor...
Dicembre 2014
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