LUOGO COMUNE
ECONOMIA E CULTURA
“La Società della Conoscenza
e la Proprietà Intellettuale”


      
Si è tenuto lo scorso 28 ottobre presso la Residenza di Ripetta di Roma un convegno sul tema “Una linfa nelle imprese: la proprietà intellettuale”. Pubblichiamo qui la relazione introduttiva, di ampio respiro, che esamina, anche in chiave di analisi storico-sociale e teorica, il fitto intreccio di relazioni e di connessioni giuridiche, amministrative, istituzionali e finanziarie che intercorre tra il mondo delle aziende e quello della ricerca scientifica e culturale. Con un peculiare focus sui concetti di Brevetto, Design, Marchio e Diritto d’Autore correlati alla tutela della loro esclusività e distintività sul piano sia legale che patrimoniale.
      



      

di Alberto Improda

 

 

Premessa

 

La crisi economica e finanziaria di questi anni ha stimolato, a livello planetario, un interessante dibattito riguardo ai limiti ed alle prospettive della Società contemporanea, nonché in ordine ai suoi attuali e futuri modelli di sviluppo.

Tale dibattito si caratterizza per avere una portata particolarmente ampia, abbracciando tanto temi economici quanto questioni di natura istituzionale, tanto profili di carattere sociale quanto prospettive sul versante politico.

Colpisce come in un simile dibattito, nelle sue diverse declinazioni, rivestano costantemente un ruolo di estrema centralità i concetti di Cultura e di Conoscenza.

La Conoscenza e la Cultura, infatti, non solo ricoprono funzioni di primaria importanza nella economia caratteristica della nostra epoca contemporanea, ma – come vedremo – vengono comunemente ritenute dei concetti chiave anche nella costruzione del mondo di domani.

Conseguentemente, la Proprietà Intellettuale – dati i suoi evidenti vincoli con le tematiche della Conoscenza e della Cultura – rappresenta a sua volta un elemento di fondamentale rilievo per comprendere la società attuale e per immaginare quella del futuro.

Con il presente scritto si vuole sottolineare come, nella Economia della Conoscenza che caratterizza questi nostri anni, il ruolo della Proprietà Intellettuale debba essere considerato con mente aperta ed occhi nuovi.

La Proprietà Intellettuale, infatti, vede oggi un interessante e significativo sviluppo delle proprie funzioni, soprattutto nell’ambito della vita dell’impresa, con valenze di carattere particolarmente innovativo che si affiancano a quelle di natura più tradizionale.

 

Economia della Conoscenza

 

Sempre più diffusamente, come noto, si parla dell’economia attuale come della Economia della Conoscenza.

Una definizione di Economia della Conoscenza, invero piuttosto scarna e schematica, proviene direttamente dalla Commissione CE: “L’espressione “economia della conoscenza” indica in genere un’attività economica che non si basa soltanto su risorse “naturali” (come l’agricoltura e le miniere) ma anche su risorse “intellettuali”, come il know-how e le competenze specialistiche. Alla base del concetto di economia della conoscenza è il riconoscimento che il sapere e l’istruzione (chiamati anche “capitale umano”) possono essere considerati beni commerciali o prodotti e servizi intellettuali che possono essere esportati con alto profitto” [Commissione CE, 16 luglio 2008, COM (2008) 466, Libro Verde, Il diritto d’autore nell’economia della conoscenza].

Il concetto di Economia della Conoscenza, peraltro, non rappresenta una novità dei nostri tempi; esso nasce storicamente nella seconda metà del Settecento, in coincidenza con l’epoca della Meccanizzazione, quando per l’impresa diventa conveniente – in virtù della natura riproducibile della conoscenza – investire in processi di apprendimento; si sviluppa poi nel fenomeno industriale e sociale del Fordismo, sotto forma di Organizzazione Scientifica del lavoro; si riversa successivamente nella cosiddetta Economia dei Distretti, quale esempio di economia della propagazione territoriale delle conoscenze relative alle tecnologie ed ai mercati distrettuali; si rinnova da ultimo nella New Economy, prendendo le sembianze di economia della replicazione e diffusione automatica delle informazioni.

Il capitalismo moderno, dunque, dalla Rivoluzione Industriale in poi, è sempre stato una economia della conoscenza, nel senso che il valore è stato costantemente prodotto in gran parte dalla propagazione degli usi delle conoscenze disponibili e dalla continua ricerca di nuove e più avanzate conoscenze.

Certamente rappresenta un fenomeno tipico e peculiare della nostra epoca, prodotto da quella che è stata definita – innanzitutto da PAUL ROMER – una “soft revolution”, l’assunzione di un ruolo decisivo nell’economia e nelle imprese dei cosiddetti beni “immateriali” o “intangibili”.

Il concetto di bene intangibile merita qualche approfondimento.

È stato autorevolmente scritto che per un’impresa i beni intangibili sono: il marchio di fabbrica; i brevetti; la cultura organizzativa; il livello di formazione del personale; le competenze relative a prodotti e processi; le conoscenze esplicite e tacite, di ordine sia tecnico sia relazionale, maturate in azienda (GALLINO, Prefazione, RONCA Competere con gli intangibili, Guerini e Associati, Milano, 2007).

A livello internazionale, si fa comunemente riferimento agli intangible assets come a beni aziendali identificabili, non monetari, senza consistenza fisica, che: i) sono controllati da un’impresa per essere usati nella produzione o nell’offerta di beni o servizi, per essere affittati a terzi o per scopi amministrativi; ii) risultanti da decisioni o fatti passati; iii) dai quali ci si attende benefici economici futuri (International Accounting Standards Committee, 1998, IAS 38, Intangibile Assets, 984).

Di tale definizione si è anche data un’interpretazione estensiva, comprendendovi tutti i fattori non materiali che contribuiscono alla prestazione dell’impresa nella produzione di beni o nell’offerta di servizi, o che si ritiene possano generare benefici economici futuri alle entità o agli individui che controllano tale spiegamento (CRAVERA-MAGLIONE-RUGGERI, La valutazione del capitale intellettuale, Il Sole 24 Ore, Milano, 2001).

Gli intangibili, per diventare parte del capitale intellettuale di un’organizzazione, devono essere durevolmente ed efficacemente interiorizzati e/o fatti propri dall’organizzazione stessa [Elaboration from Meritum 2002, Guidelines for managing and reporting on intangibles (IC Report), Airtel-Vodafone Foundation, Madrid e ZAMBON, 2000, The strategic connotations of knowledge and intellectual, capital: the new drivers of the internal and external company value, Business International Conference “The value of intangibile assets”, Milano, 2005].

Più sinteticamente, il capitale intellettuale di un’azienda è stato definito come l’insieme di tutte le conoscenze che le risorse di un’impresa possiedono e che sono in grado di conferire all’azienda un vantaggio competitivo sul mercato (STEWART, Your company’s most valuable asset: intellectual capital, Fortune, Ottobre 1994); ovvero come la conoscenza che può essere trasformata in valore (SULLIVAN, Value-driven intellectual capital, How to convert intangibile corporate assets into market value, John Wiley & Sons, Londra, 2000); ovvero ancora come l’insieme delle conoscenze e delle relazioni che possono essere trasformate in valore (EDVINSSON- MALONE, Intellectual capital: the proven way to establish your company’s real value by measuring its hidden brain power, Piatkus, Londra, 1997); ed infine come il patrimonio di conoscenze, competenze, relazioni, know-how e processi che determinano il reale valore di un’azienda e ne rappresentano la specificità organizzativa, culturale e strategica (CRAVERA- MAGLIONE-RUGGERI, cit.).

In buona sostanza, i beni intangibili di un’azienda sono costituiti – operando una sintetica schematizzazione – da: capitale umano (vale a dire l’insieme di conoscenze tacite o implicite, competenze professionali, attitudini mentali, abilità personali e lavorative, capacità di innovazione e creatività, leadership, flessibilità e disponibilità, entusiasmo e motivazione, resilienza e capacità di apprendimento del personale); capitale strutturale (vale a dire la conoscenza sviluppata in azienda e codificata in sistemi organizzativi, prassi e modelli lavorativi, flessibilità strutturale e organizzativa, procedure e protocolli esclusivi, banche dati interne, diritti di proprietà intellettuale, information technology); capitale relazionale (vale a dire la conoscenza accumulata per effetto delle relazioni con soggetti esterni, i rapporti con la clientela e con altri stakeholder, l’immagine e la reputazione).





Arturo Martini, Minerva guerriera, 1935, Università La Sapienza di Roma


I beni intangibili, o per meglio dire il loro complesso, hanno negli ultimi lustri assunto il ruolo di primarie e fondamentali leve di creazione e diffusione di ricchezza nelle imprese, in qualche modo relegando in secondo piano gli asset aziendali più tradizionali.

Che l’attuale modello economico possa correttamente essere definito come Economia della Conoscenza risulta confermato dalla circostanza che, prendendo in considerazione gli ultimi decenni, le industrie ad alta intensità di conoscenza – in tutto il mondo occidentale – hanno costantemente guadagnato importanza rispetto ai settori industriali definiti “misurabili”, quali l’agricoltura, il manifatturiero, l’estrattivo, i trasporti, le utilities.

Oggi si parla in maniera particolarmente costante e diffusa di Economia della Conoscenza anche sotto un altro profilo ed alla luce del particolare momento storico che stiamo attraversando.

Negli ultimi lustri, infatti, è giunto a maturazione quel fenomeno politico ed economico comunemente definito come Globalizzazione, che ha visto un significativo abbattimento delle barriere doganali e culturali tra le diverse aree del Pianeta, rendendo di fatto l’intero Globo un unico grande mercato.

In tale mercato hanno fatto irruzione in maniera impetuosa e dirompente le economie di Paesi caratterizzati da enormi disponibilità di manodopera a basso costo e da condizioni di produzione altamente competitive (Cina e India in primis, ma non solo).

Questo ha determinato per le economie dei Paesi Occidentali delle conseguenze di enorme portata: messe sostanzialmente fuori mercato per quanto concerne le produzioni a basso valore aggiunto, esse hanno dovuto concentrare i propri sforzi sull’alto di gamma, vale a dire sui prodotti e sui servizi ad elevato valore aggiunto, caratterizzati da un significativo contenuto tecnologico e/o da un considerevole gradiente di creatività ed innovazione.

In altri termini, le dinamiche economiche conseguenti al fenomeno della Globalizzazione hanno costretto e stanno costringendo le economie dell’Occidente a caratterizzarsi per un forte impegno nel campo della ricerca, dell’innovazione, della creatività, ovverosia – in una parola sola – della

Conoscenza.

Quindi la Conoscenza è ritenuta oggi in Occidente la cifra di fondo di una economia moderna, che possa competere con successo a livello planetario e che sappia allargare il proprio sguardo sul futuro, con fiducia ed ambizione.

 

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Nel momento in cui si parla di Conoscenza non può non venire in rilievo anche il concetto di Cultura, che della prima costituisce il nocciolo duro, il nucleo pulsante, il centro propulsivo e lo spirito informativo.

Dunque di grande importanza sono oggi anche i rapporti tra il mondo dell’Economia e quello della Cultura, i quali possono essere declinati secondo diversi versanti.

Una particolare attenzione, innanzitutto, viene attualmente rivolta al settore delle Industrie Creative e Culturali (“IIC”), i cui confini sono in continua espansione.

Con il termine Industrie Creative e Culturali ci si vuole riferire a quel complesso di attività d’impresa che – partendo dalle basi di un capitale culturale riguardante non solo il patrimonio storico, artistico e architettonico, ma anche l’insieme di valori e significati che caratterizzano il nostro sistema socioeconomico – arrivano a generare valore economico ed occupazionale, concorrendo al processo di creazione e valorizzazione culturale.

Nel concetto di IIC, dunque, rientrano senz’altro quelle imprese artigianali e manifatturiere che producono i beni della cultura materiale, vale a dire tutti i beni ed i servizi del Made in Italy, i quali trovano nella tradizione culturale dell’industria locale un riferimento prioritario; si considerano poi certamente Industrie Creative e Culturali anche quelle che producono contenuti protetti dal copyright, quali il cinema, la televisione, l’editoria, il software e la pubblicità; sono IIC, infine, le imprese che utilizzano il patrimonio culturale storico e artistico del Paese: i musei, i monumenti, l’architettura, l’arte contemporanea, la musica, il teatro, la lirica.

Un altro aspetto di particolare interesse, nel parlare di Economia della Conoscenza, risulta il nesso intercorrente tra il concetto di Cultura ed il gradiente di Competitività di un determinato Territorio.

Risulta un principio ormai assodato, infatti, che esiste una esplicita ed effettiva connessione tra lo sviluppo culturale di un territorio ed il tasso di competitività delle sue imprese.

D’altronde, in una epoca segnata dalla strutturale demanifatturizzazione delle economie dei Paesi Occidentali, la produzione a più alto valore aggiunto non si può non spostare sull’economia della conoscenza e su un terziario avanzato in grado di sfruttare adeguatamente una serie delle produzione sottili, nel senso di sfuggenti e poco visibili, come l’intelligenza, la creatività e il senso della bellezza.

Il rapporto tra Impresa e Cultura, quindi, si traduce in qualcosa di immateriale, ma anche di organizzato in maniera ora personalistico-artigianale ora seriale-industriale; qualcosa che può definirsi “atmosfera creativa”, un’espressione valida a indicare quella complessa miscela di economia e psicologia, individui e comunità, interessi e valori che caratterizzano l’identità e la specializzazione produttiva di un determinato luogo, che può essere sia fisico sia simbolico.

La suddetta connessione tra Cultura e Competitività trova una esplicita conferma in una recente Ricerca sui musei italiani, a cura di IULM e UNESCO, in collaborazione con il MIBAC, per ASPEN Institute Italia, dalla quale risulta che i Paesi che presentano i più alti livelli di partecipazione alle attività culturali sono anche quelli che dimostrano la maggiore capacità innovativa.

D’altronde, pare evidente che quelle comunità che, attraverso la partecipazione culturale, si abituano ad aggiornare costantemente il proprio bagaglio cognitivo si sottopongono a una “ginnastica” che costituisce la premessa ideale per essere pronti a rimettersi in discussione di fronte a situazioni che richiedono soluzioni nuove.

Nel Rapporto 2012 di Symbola e Unioncamere, “L’Italia che verrà”, viene messo in rilievo che a “livello regionale europeo, ad esempio, esiste una netta relazione tra il livello locale di concentrazione delle industrie creative (in termini di occupazione settoriale) e la prosperità in termini di PIL pro capite” (pagina 14); la medesima correlazione viene sottolineata nel Rapporto PIQ 2011 di Symbola e Unioncamere (pagina 63).

Viene insomma ormai ritenuto un punto fermo il fatto che “la partecipazione culturale può agire come motore di crescita economica endogena e sociale in modalità che sono complementari a quelle già ampiamente studiate e documentate per l’istruzione” (SACCO-FERILLI, Cultura 3.0 e partecipazione attiva, Rapporto Annuale federculture 2014, 75, con ulteriori riferimenti bibliografici).

Anche negli USA, peraltro, il Bureau of Economics Analysis – vale a dire l’istituto che elabora le principali statistiche economiche a livello federale – dal 31 luglio 2013 include l’innovazione e la creatività tra i beni dei quali gode e che caratterizzano una comunità.

Deve essere considerato un imprescindibile dato di fatto, insomma, che sono in genere più vocati alle produzioni di qualità i territori che risultano più forti nell’industria culturale e, quindi, nella creazione di Economia connessa alla Cultura.

Ancora una volta, dunque, emerge un collegamento importante tra il mondo dell’Economia e quello della Cultura.

Tale collegamento assume un rilievo straordinariamente significativo nel nostro Paese, in ragione di almeno due elementi.

In primo luogo, il noto fenomeno del Made in Italy (che l’autore delle presenti note, in altri scritti, ha preferito denominare Italian Soul), tanto fondamentale per il tasso di competitività delle imprese italiane e ampiamente condizionato da questioni attinenti alla cultura del territorio.

In secondo luogo, proprio il carattere eccezionalmente rilevante – sia dal punto di vista quantitativo sia dal punto di vista qualitativo – del patrimonio artistico e culturale che insiste sulle nostre terre.

Basti pensare che nel nostro Paese “sono 4.588 i musei, pubblici e privati, aperti al pubblico, 240 le aree archeologiche e 501 i monumenti censiti dalla ricerca, e hanno accolto quasi 104 milioni di visitatori” (BOCCI, Dall’Europa risorse e opportunità per tornare a produrre cultura, Rapporto Annuale Federculture 2014, 91).

D’altronde si dice sempre che l’Italia è un museo diffuso. Abbiamo 46.025 edifici storici, cioè uno ogni 1.200 cittadini, 3.872 musei (più di tutti quelli dell’Africa e del Sud America), 48 teatri d’opera (più dei 34 di Francia, Russia, Stati Uniti, Spagna e Regno Unito). Ma anche una leadership europea nelle produzioni tipiche: produciamo 331 vini DOC, 59 DOCG, 119 IGT; abbiamo 229 denominazioni di origine riconosciute a livello comunitario e 4.606 specialità tradizionali censite nelle Regioni. Centinaia di manifestazioni storiche e rievocazioni religiose tramandate per secoli e che sono tutt’oggi straordinarie attrazioni turistiche” (GROSSI, Il coraggio delle scelte, Rapporto Annuale Federculture 2014, 33).

In Italia più che altrove, dunque, appare di vitale importanza creare forme di contaminazione e di interazione tra la realtà dell’Impresa e la dimensione della Cultura, perché dalle sinergie e dagli impulsi tra queste due galassie possono derivare progresso e sviluppo per l’intero paese.

 

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Carlo Bernardini, Orbita eclittica, Neons - Tesla coil, 2009


Nell’ambito della Economia della Conoscenza ricopre ovviamente un ruolo fondamentale l’elemento della Creatività, la quale – intesa in senso lato – può essere a sua volta vista sotto diverse sfaccettature, rappresentando un fenomeno poliedrico ed oggetto di esame secondo varie chiavi di lettura.

La Creatività, innanzitutto, viene oggi considerata una componente del patrimonio storico e artistico di un Paese; tale patrimonio, a sua volta, è costituito sia dal capitale culturale frutto della creatività delle generazioni passate, sia dalla produzione artistica delle generazioni presenti.

Ma la Creatività rappresenta anche un input per la produzione e per la comunicazione di contenuti delle industrie culturali, che per loro stessa natura forniscono beni e servizi fortemente simbolici.

Sotto un altro aspetto, la Creatività costituisce anche l’indice delle capacità di una comunità di rinnovarsi e di innovare, andando oltre lo stato dell’arte quesito e creando sempre nuova conoscenza.

La Creatività, poi, risulta spesso il frutto di un processo collettivo, locale e cumulativo, dove l’elemento culturale è inserito inestricabilmente nei beni artigianali di uso quotidiano; in questa ottica, il processo creativo appare fortemente radicato nella sfera della cultura materiale, come tale espressione del territorio e della collettività.

La Creatività, dunque, rappresenta una componente polivalente e fondamentale in una determinata società ed in una moderna economia, ontologicamente legata a doppio filo con il mondo della Cultura e con la sfera della Conoscenza della realtà di riferimento.

 

Scenari per il Futuro

 

I concetti di Cultura e di Conoscenza sono oggi all’attenzione degli studiosi anche in ottiche di ben più ampio respiro. Infatti, come accennavamo in sede di apertura, la crisi economica e politica di questo inizio secolo ha spinto molti a mettere in discussione la validità degli stessi modelli di sviluppo economico ed istituzionale alla base della società contemporanea, alimentando il dibattito sui nuovi e diversi principi che caratterizzeranno la società del domani.

Ebbene, in molti ed autorevoli casi, gli assetti economici ed istituzionali del futuro sono spesso concepiti come aventi il proprio fulcro proprio sulle dinamiche della Cultura e della Conoscenza.

Il punto di partenza che accomuna molti autori consiste nella constatazione del fatto che le strutture di base sulle quali poggia la società attuale mostrano ormai l’usura del tempo e non possono essere assunte quali elementi cardine per costruire il mondo del futuro.

Ragion per cui, sostengono autorevoli voci, si rende necessario – in tempi ormai brevi – immaginare modelli di sviluppo completamente fuori sagoma rispetto agli schemi oggi vigenti.

In altri termini, secondo molti studiosi, rappresenta un esercizio inutile tentare di individuare le risposte ai problemi della società contemporanea e progettare le strutture di quella del futuro facendo ricorso ai principi ed alle costruzioni che hanno caratterizzato gli ultimi decenni.

Operare un simile tentativo, è stato detto con una felice esemplificazione, significherebbe fare come “quel tizio che cercava le chiavi sotto un lampione non perché le avesse perse lì, ma perché quello era l’unico punto illuminato della strada” (JEAN-PAUL FITOUSSI, Il teorema del lampione, 2013).

Alcuni autori, insomma, ritengono che per immaginare i modelli di sviluppo della società di domani si debbano innanzitutto individuare dei nuovi parametri di riferimento per determinare la correttezza della direzione assunta dalla società medesima, perché quelli che sono stati utilizzati fino ad ora non sono più utili.

In primo luogo, dunque, occorrerebbe andare al superamento della visione dello sviluppo identificato come crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) pro capite, ovvero di visioni analoghe, finalizzate all’identificazione dello sviluppo – di volta in volta – con l’aumento dei redditi individuali, con l’industrializzazione, con il progresso tecnologico o con la modernizzazione di una società.

L’inadeguatezza del parametro del PIL pro capite per determinare l’effettivo grado di sviluppo di una società viene oggi sostenuta sotto più aspetti: in primo luogo, si dice, anche ove volessimo – con decisione già di per sé discutibile – misurare la qualità della vita in termini strettamente monetari, e se volessimo utilizzare una singola media anziché guardare alla distribuzione delle risorse, non è affatto scontato che il PIL pro capite risulterebbe l’elemento più utile da considerare (la Commissione Sarkozy, ad esempio, ha piuttosto messo l’accento sul reddito medio familiare); in secondo luogo, l’approccio del PIL, e di tutti i sistemi similmente basati su una media nazionale, non considerano l’aspetto della distribuzione delle risorse e possono conseguentemente assegnare ottimi punteggi a nazioni che conoscono enormi diseguaglianze, sostenendo che tali paesi stanno andando nella giusta direzione.

Insomma, “non riuscendo a dare risalto al problema della distribuzione, all’importanza della libertà politica, all’eventuale subordinazione di minoranze e agli altri aspetti dell’esistenza umana meritevoli di considerazione, l’approccio del PIL distrae l’attenzione da tutte queste problematiche urgenti, sostenendo che se una nazione migliora il suo PIL medio, allora si sta “sviluppando” bene (MARTHA C. NUSSBAUM, Creare Capacità, 2012, 55).

Questi autori, probabilmente, apprezzerebbero i versi dedicati da TRILUSSA alla Statistica:

 

 Me spiego: da li conti che se fanno

seconno le statistiche d’adesso

risurta che te tocca un pollo all’anno:

e, se nun entra nelle spese tue,

t’entra ne la statistica lo stesso

perché c’è un antro che ne magna due”.

 

Di recente sono state anche autorevolmente e intelligentemente rievocate le parole pronunciate da Robert Kennedy il 18 maggio 1969 in un campus universitario del Kansas: “Non possiamo misurare il successo di un Paese sulla base del prodotto interno lordo. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità dell’educazione o della gioia nei momenti di svago. Non comprende la bellezza né la poesia” (GROSSI, Il coraggio delle scelte, Rapporto Annuale Federculture 2014, 27).

In questa ricerca di nuovi modelli di sviluppo per la società del domani, con la contestuale individuazione di diversi parametri di riferimento per misurare e definire la stessa idea di sviluppo, una interessante scuola di pensiero ha fatto riferimento al concetto di espansione delle libertà dell’individuo: “In tale ottica l’espansione della libertà è vista sia come fine primario che come mezzo principale dello sviluppo. Lo sviluppo consiste nell’eliminare vari tipi di illibertà che lasciano agli uomini poche scelte e poche occasioni di agire secondo ragione” (AMARTYA SEN, Lo sviluppo è libertà, 1999, 6).

Lo sviluppo, dunque, viene qui visto come un processo di espansione delle libertà reali godute dai cittadini, definite anche “capacitazioni”.

In questa impostazione, occorre sottolineare, viene adottata una idea di libertà particolarmente piena, che comprende “sia quei processi che permettono azioni e decisioni libere sia le possibilità effettive che gli esseri umani hanno in condizioni personali e sociali date” (ibidem, 23); perchè “il successo di una società va giudicato, innanzitutto, sulla base delle libertà sostanziali di cui godono i suoi membri” (ibidem, 24).





Giampiero Poggiali Berlinghieri, Installazione, Villa La Vedetta, 2011


Una evoluzione di questa interessante impostazione si definisce come “approccio delle capacità” (MARTHA C. NUSSBAUM, Creare capacità, 2012, 25).

Tale approccio, che comprende una valutazione comparata della qualità della vita ed una teorizzazione di una giustizia sociale di base, considera “ogni persona come un fine, chiedendosi non tanto quale sia il benessere totale o medio, bensì quali siano le opportunità disponibili per ciascuno. È incentrato sulla scelta o libertà, ritenendo che il bene fondamentale della società consista nella promozione per le rispettive popolazioni di un insieme di opportunità, o libertà sostanziali, che le persone possono poi mettere in pratica o meno” (ibidem).

Secondo questa linea di pensiero, dunque, riveste un ruolo di centrale importanza il concetto di “capacità”, con tale termine intendendosi “un tipo di libertà: la libertà sostanziale di conseguire combinazioni alternative di funzionamenti. In altre parole, esse non sono semplicemente delle abilità insite nella persona, ma anche le libertà o opportunità create dalla combinazione di abilità personali e ambiente politico, sociale ed economico” (ibidem, 28).

Nel soprapporsi e nell’interagire di “capacità interne” e “capacità combinate”, in base all’approccio in oggetto l’ordinamento politico deve garantire a tutti i cittadini almeno determinate soglie di “dieci capacità centrali” (ibidem, 39): vita, salute fisica, integrità fisica, sensi immaginazione e pensiero, sentimenti, ragion pratica, appartenenza, altre specie, gioco, controllo del proprio ambiente, politico e materiale; capacità centrali in qualche misura coincidenti con le otto “determinanti oggettive del benessere” individuate dalla Commissione Sarkozy: la salute, l’istruzione, il lavoro, partecipazione alla vita politica, i legami sociali, la sicurezza personale, la sicurezza economica, l’ambiente (JEAN-PAUL FITOUSSI, Il teorema del lampione, 195)

In estrema sintesi, secondo questa impostazione, lo sviluppo di una società consiste nel permettere ad ogni singolo individuo sia di sviluppare al meglio ogni sua potenzialità fisica ed intellettuale sia di poterla poi effettivamente esprimere nella vita politica e sociale.

La centralità di questo concetto di pieno sviluppo di tutte le potenzialità di ogni singolo individuo, poi, determina un interessante punto di contatto tra il filone di pensiero in esame e l’opera di RICHARD SENNETT, teorico del nuovo “uomo artigiano” ed ispiratore del movimento dei makers, nato recentemente negli USA ed oggi conosciuto in buona parte del mondo occidentale, grazie anche all’attività divulgativa di Mark Frauenfelder e della rivista “Make”.

SENNETT individua nell’uomo artigiano un modello al tempo stesso molto antico ed estremamente moderno, al quale i cittadini possono guardare per resistere e riscattarsi da “un nuovo ordine di potere acquisito per mezzo di una cultura sempre più superficiale” (RICHARD SENNETT, La cultura del nuovo capitalismo, 2006, 144).

L’uomo artigiano, volendo esemplificare, presenta due fondamentali caratteristiche: una basilare abilità artigianale ed un incondizionato impegno nel proprio lavoro: “nel suo significato più ampio, la nozione di abilità artigianale designa il desiderio di fare bene una cosa per sé stessa” (ibidem, 143); l’impegno nasce dal fatto che “fare bene qualcosa, anche se non si riceve nulla in cambio, è il vero spirito artigianale” (ibidem, 144).

E questo, probabilmente, perché il “modello della nostra dignità professionale rimane pur sempre Efesto, lo Zoppo, orgoglioso del proprio lavoro se non della propria persona” (RICHARD SENNETT, L’uomo artigiano, 2008, 281).

JEREMY RIFKIN, con approccio affatto peculiare, nella sua costruzione ideologica parte invece dalla constatazione che il petrolio e gli altri combustibili fossili, vale a dire le fonti energetiche sulle quali si basa oggi non solo l’economia ma l’intero stile di vita dei Paesi Occidentali, sono ormai in via di esaurimento e le tecnologie ad essi connesse e da essi alimentate si accingono a diventare obsolete.

Nel contempo, e in parte conseguentemente, appaiono progressivamente estendersi ed aggravarsi i grandi mali che affliggono il Mondo Globalizzato: crisi economica, disuguaglianza, disoccupazione, fame e guerre.

A rendere il quadro ancora più allarmante interviene il pericolo di un catastrofico cambiamento climatico in tempi non più così estesi, provocato dalle attività industriali e commerciali che caratterizzano le nostre economie.

La soluzione individuata da questo pensatore consiste in un cambiamento di natura davvero epocale, con il passaggio da una società della Globalizzazione ad una società della Terza Rivoluzione Industriale.

Tale rivoluzione prenderebbe le mosse da un nuovo regime energetico, non più centralizzato e gerarchico ma distribuito e collaborativo, sulla cui matrice si conformerebbero poi le strutture economiche e politiche dell’intera società.

E, “così come le rivoluzioni industriali dell’Ottocento e del Novecento hanno liberato l’uomo dalla servitù, dalla schiavitù e dal lavoro coatto, la Terza rivoluzione industriale e l’era collaborativa che ne trae origine lo libereranno dal lavoro meccanizzato, per coinvolgerlo nel gioco profondo, che è l’essenza della socialità” (RIFKIN, La terza rivoluzione industriale, 2011, 304).

Nella economia della nuova Era Collaborativa assumerà un ruolo via via sempre più centrale quel comparto che oggi definiamo “terzo settore”, ovvero “società civile”, vale a dire “il luogo ove l’uomo crea capitale sociale ed è costruita intorno ad una vasta gamma di interessi: istituti culturali e religiosi, istruzione, ricerca, salute, servizi sociali, sport, attività ricreative, gruppi ambientalisti e una quantità di altre organizzazione il cui fine è creare legami sociali” (ibidem, 301).

La società della nuova Era Collaborativa, scaturente dalla Terza Rivoluzione Industriale ed avente al centro della propria economia il Terzo Settore, vede tra i propri elementi fondativi il concetto di Cultura.

Questo “perché la Cultura è il contesto in cui si crea la narrazione sociale che ci lega gli uni agli altri, permettendoci di empatizzare reciprocamente come una famiglia estesa” (ibidem, 302).

E, dice RIFKIN, “nella storia non ci sono esempi, almeno a mia conoscenza, di gruppi di persone che abbiamo prima istituito mercati e governi e poi abbiano creato una cultura; al contrario, mercati e governi non sono che estensioni della cultura” (ibidem, 302).

Tale grande trasformazione sarebbe già in corso sulla scena planetaria, con la progressiva affermazione di un nuovo sistema economico, denominato “Commons collaborativo”: “Il Commons collaborativo sta trasformando il nostro modo di organizzare la vita economica, rendendo possibile una drastica riduzione delle disparità di reddito, democratizzando l’economia globale e dando vita a una società ecologicamente più sostenibile” (RIFKIN, La società a costo marginale zero, 2014, 3).

MAURO MAGATTI e CHIARA GIACCARDI, in una loro recente opera, rivisitano in maniera originale alcuni dei concetti sopra accennati ed elaborano un proprio nuovo modello di sviluppo per la società del domani.

Gli autori in esame prendono le mosse da una disamina dell’attuale frangente storico e considerano come la crisi politico-economica che il mondo sta attraversando possa mettere in discussione lo stesso concetto di libertà.





Arthur Duff, Syntax Parallax, 2011


Bisogna allora ripensare, rinnovare e rinvigorire l’idea di libertà, immaginando per la società di domani un nuovo modello di sviluppo.

La società del futuro, secondo il loro pensiero, dovrà trovare la propria cifra di fondo nella Generatività, la quale si profila “come un modo di essere che cerca di promuovere, attraverso la cura, la vita propria preoccupandosi della vita degli altri e valorizzandone le capacità di contribuzione. In sostanza, la generatività è un principio accrescitivo (e non di mero bilanciamento) capace di spingere la libertà un passo avanti: dopo essersi liberata, il suo destino non può non passare attraverso il riconoscimento dell’altro da sé” (MAURO MAGATTI-CHIARA GIACCARDI, Generativi di tutto il mondo unitevi!, 2014, 38).

In questa ottica, “generativo è dunque chi decide di mettere al mondo un valore e, in questo modo, introduce nel mondo una differenza” (ibidem, 48).

Occorre per la via della Generatività approdare ad un nuovo modello di sviluppo della società del domani, incentrato non in “una rinuncia alla potenza, ma in una rinnovata capacità di indirizzarla, declinarla, trattarla. Ponendola al servizio della vita nelle sue diverse manifestazioni” (ibidem, 115).

In questo modo, si cambia il baricentro della società, dell’economia e della politica: il nuovo baricentro viene individuato nella capacità umana di generare valore.

E “per compiere il salto occorre passare dalla cultura dell’eccesso – avere sempre di più, andare sempre più forte – alla cultura dell’eccedenza – aspirare a un di più di vita, a un di più di pienezza” (ibidem, 119).

Da un punto di vista economico, questa impostazione adotta la teoria della “creazione di valore condiviso”, in base alla quale: “Il concetto di valore condiviso riconosce che sono i bisogni della società e non solo i bisogni economici convenzionali a definire il mercato” (MICHAEL PORTER e MARK KRAMER, Creating Shared Value, Harvard Business Review, n. 89, 2011, 62);

sicché “il valore condiviso consiste nell’espandere la dotazione complessiva di  valore economico e sociale” (ibidem, 77).

Una simile teoria si pone il nobile obiettivo di conciliare la crescita economica con la coesione sociale: “è venuto il momento di assumere una visione più ampia della creazione di valore. Tutta una serie di fattori, come la sempre maggiore consapevolezza sociale dei dipendenti e dei cittadini e la sempre maggiore scarsità di risorse naturali daranno luogo a opportunità senza

precedenti per la creazione di valore condiviso. Abbiamo bisogno di una forma più sofisticata di capitalismo, impregnata di finalità più sociali. Quelle finalità dovrebbero derivare da una più profonda comprensione della competizione e della creazione di valore economico” (ibidem, 85).

La Generatività, dunque, deve condurre ad una nuova idea di prosperità, più ricca di contenuti intellettuali, più aperta alle esigenze dell’altro e più attenta alla dimensione spirituale della vita.

Per avviare un simile percorso, gli autori in esame indicano cinque “commesse”, quali principali linee di indirizzo: la Capacitazione personale, l’Impresa plurale, la Rete collaborativa, la Libertà religiosa, i Beni di comunità.

È interessante sottolineare, ai fini del presente scritto, come nella prima commessa si richiamino in maniera esplicita le posizioni di AMARTYA SEN e MARTHA NUSSABAUM, così efficacemente riassumendone il pensiero e il concetto di “capacitazione”: “Con il termine “capacitazione” questi due autori intendono la “competenza ad agire”, che deriva dall’insieme delle risorse cognitive e relazionali di cui una persona dispone, unitamente alle sue capacità di fruirne e quindi di impiegarle operativamente. Le capabilities sono dunque il saper fare, la saggezza pratica, la rete di relazioni che consentono un’azione efficace e in grado di valorizzare le risorse disponibili. Affinché ci sia libertà (generativa), è indispensabile che ogni persona sia messa in condizione di esplicitare il proprio ventaglio di competenze, per quanto residuali, perché solo così si può affermare il principio delle capacità personali inteso come fine” (MAURO MAGATTI-CHIARA GIACCARDI, Generativi di tutto il mondo unitevi!, 2014, 131).

Un accenno, in questa sintetica panoramica, meritano anche le posizioni di SERGE LATOUCHE, portatore di idee decisamente peculiari e teorico della “decrescita serena”.

Le proposte di questo studioso risultano particolarmente radicali, forse utopistiche, giungendo a prefigurare non solo un rigetto della economia di mercato, ma addirittura – per qualche verso – un abbandono del concetto stesso di economia.

LATOUCHE, nella ricerca di un’alternativa alla dinamica crescita-illimitatezza, trova un suo concetto strategico nel principio del “limite”.

Nella sua costruzione ideologica, il Limite diventa un vero e proprio punto di forza per la società del futuro, tale da arginare la pervasività autodistruttiva dell’universalismo libero-scambista e trattenere l’umanità dal baratro, perché “debellare l’illimitatezza e ritrovare il senso dei limiti è un imperativo per la sopravvivenza dell’umanità” (SERGE LATOUCHE, Limite, 2012, 103).

Dunque con il principio della Decrescita non si indica una crescita in senso negativo, ma piuttosto si vuole significare una “acrescita”, nel senso che si indica un vero e proprio abbandono delle dinamiche e dei meccanismi dell’economia, del progresso e dello sviluppo.

Il pensiero di LATOUCHE, probabilmente, si distingue da quello di altri studiosi per il suo porsi al di fuori delle correnti umanistiche, ovvero – direbbe egli stesso – per la proposta di un “umanesimo correttamente inteso” (SERGE LATOUCHE, Breve trattato sulla decrescita serena, 2013, 123), definibile come “etnoantropocentrismo” (ibidem, 122).

L’aspetto che si vuole qui sottolineare, nell’economia del presente scritto, è che per questo pensatore “la realizzazione di una società della decrescita passa necessariamente per un “reincanto” del mondo” (ibidem, 123).

E, in questo contesto, si assiste ad una esplicita valorizzazione del ruolo dell’arte, in quanto l’artista ha un ruolo “insostituibile per la costruzione di una società serena della decrescita” (ibidem, 124); “L’artista rammenta all’individuo moderno che, per quanto faccia, è condannato a una forma qualsivoglia di animismo, se vuole che le cose abbiano un senso. […]. L’artista è

probabilmente il testimone del fatto che l’animismo è la sola filosofia che rispetta le cose e l’ambiente, una filosofia adeguata allo spirito del dono che pervade le cose, e da cui la modernità ci ha separato”. Comunque sia, animismo o meno, per una società della decrescita, come per Oscar Wilde, ‘l’arte è inutile e dunque essenziale’! (ibidem, 124).

Anche nella costruzione di questa peculiare linea di pensiero, pertanto, il concetto di Cultura ricopre un ruolo fondamentale per delineare la società del futuro.

Naturalmente la disamina di cui sopra non ha alcuna pretesa di completezza, esistendo numerose altre rilevanti posizioni e scuole di pensiero, sia quanto alla critica della società del presente sia quanto alla progettazione della società del futuro.

Gli autori presi in considerazione, tuttavia, rappresentano uno spaccato sufficientemente significativo del dibattito oggi in essere, tale da consentire qui in appresso lo svolgimento di una qualche riflessione conclusiva.

Abbiamo già più volte sottolineato come la società e l’economia dei giorni nostri trovino nella Conoscenza e nella Cultura degli elementi di centrale importanza.

Le attuali e più moderne dinamiche economiche, tra l’altro, individuano nella Conoscenza e nella Cultura le cifre di fondo della società occidentale, nonché gli strumenti perché essa possa mantenere un ruolo di spicco ed un adeguato gradiente di competitività nell’era della Globalizzazione.

Si è sopra anche voluto svolgere una sommaria e parziale disamina di alcune significative posizioni di vari pensatori, in merito alle caratteristiche ed ai meccanismi che si vorrebbero alla base della società del futuro.

La maggior parte di queste posizioni, a tratti tra di loro profondamente diverse, presentano alcuni punti in comune: in primo luogo, una qualche forma di Umanesimo, con l’Uomo che si trova sempre al centro della riflessione e del quale si tenta in modi diversi la tutela e il riscatto; in secondo luogo, una forte tendenza alla Spiritualità, con il recupero della dimensione più interiore

dell’Uomo e con una spiccata attenzione al mondo dei Valori, in terzo luogo, una qualche espressione di Fratellanza, risultando sempre alla base dei nuovi modelli di società delle forme più forti di vicinanza e di solidarietà tra gli esseri umani.

Ma, ai fini delle riflessioni che qui si stanno svolgendo, interessa soprattutto sottolineare che – in forme e con accenti diversi – tutte queste costruzioni teoriche, tese a definire in qualche modo una società migliore di quella attuale, prevedono comunque un ruolo di fondamentale rilievo per la Cultura, per la Conoscenza, per l’Intelletto.

E questo è perfettamente comprensibile, atteso che – come è stato brillantemente detto e scritto in un recente e prezioso libricino – “conoscere bene la caverna e trovare i modi per uscirne: questa è per me la cultura”, “la cultura è una cosa diversa dalla somma delle conoscenze, ma nasce comunque dalla possibilità di sapere: si esce dalla caverna anzitutto conoscendo la caverna – e i dintorni” (MARINO SINIBALDI, Un millimetro in là, 2014, 4).





Proprietà Intellettuale

 

Torniamo infine, dopo questo ampio percorso di digressioni e divagazioni, al cuore del presente scritto: i rapporti tra la Proprietà Intellettuale e l’Economia della Conoscenza.

Abbiamo già accennato al fatto che negli ultimi lustri, parallelamente allo svilupparsi ed all’evolvere della Economia della Conoscenza, anche il ruolo della Proprietà Intellettuale si è andato progressivamente facendo più centrale e più complesso.

Appare poi appena il caso di ribadire che anche nella società del futuro, come abbiamo sopra visto, data la funzione cruciale che viene comunque in essa prevista per i concetti di Cultura e di Conoscenza, la Proprietà Intellettuale rimarrà presumibilmente un elemento di vitale importanza, sia pure con gli adattamenti e le evoluzioni del caso.

In questa sede, peraltro, si vuole concentrare l’attenzione sul ruolo attuale della Proprietà Intellettuale, nell’ambito della Economia della Conoscenza per come la stiamo sperimentando in questa nostra epoca.

Ed appare utile, all’uopo, esaminare innanzitutto come viene oggi comunemente definito ed interpretato il concetto di Proprietà Intellettuale.

La Proprietà Intellettuale, si può verificare da una fonte di sicuro prestigio, è usualmente ritenuta l’“Insieme di diritti legali volti ad assicurare la tutela delle creazioni della mente umana in campo scientifico, industriale e artistico” (NICOLLI-RIZZO, Voce: Proprietà Intellettuale, Treccani. It).

È stato poi autorevolmente precisato che:

“Con l’espressione tutela della PROPRIETÀ INTELLETTUALE ci si riferisce all’insieme di diritti, c.d. Intellectual Property Rights (IPR), di carattere:

- personale, ovvero il diritto morale di essere riconosciuto autore dell’opera o ideatore della soluzione tecnica o del marchio, che è un diritto personalissimo ed inalienabile,

- e patrimoniale, connessi allo sfruttamento economico del risultato della propria attività creativa, che è invece un diritto disponibile e trasmissibile.

Le opere dell’ingegno umano, per la loro stessa natura e per le norme che le disciplinano, sono classificabili in tre macro categorie:

- OPERE DELL’INGEGNO CREATIVO, appartenenti al mondo dell’arte e della cultura (opere letterarie, organigrammi, schemi organizzativi, spettacoli teatrali e televisivi, fotografie, quadri, progetti di architettura, ecc.), che trovano tutela in quel complesso di disposizioni che va sotto il nome di diritto d’autore;

- SEGNI DISTINTIVI, quali marchio, ditta, insegna, denominazione d’origine, la cui forma di tutela è la registrazione, in alternativa all’uso di fatto;

- INNOVAZIONI TECNICHE E DI DESIGN, che hanno ad oggetto invenzioni, modelli industriali, varietà vegetali, le cui norme regolatrici vengono indicate come diritto brevettuale”.

(Breve Guida alla Tutela della Proprietà Industriale, a cura di: Commissione Europea, MIUR, ILO-Unisco, 2010).

Ancora: “Con proprietà intellettuale si indica l'apparato di principi giuridici che mirano a tutelare i frutti dell’inventiva e dell’ingegno umani; sulla base di questi principi, la legge attribuisce a creatori e inventori un vero e proprio monopolio nello sfruttamento delle loro creazioni/invenzioni e pone nelle loro mani alcuni strumenti legali per tutelarsi da eventuali abusi da parte di soggetti non autorizzati” (Web site WIKIVERSITA’, Voce: Proprietà Intellettuale).

Particolarmente interessante è quanto si legge nel sito istituzionale dell’UAMI – Ufficio per l’Armonizzazione del Mercato Interno, al fine di definire il concetto di Proprietà Intellettuale:

“Il concetto alla base della proprietà intellettuale (PI) è semplice ed è presente nella nostra vita da molto tempo. Ovunque andiamo, siamo circondati da proprietà intellettuale.

Semplici pensieri e idee non sono ancora proprietà intellettuale: quest’ultima definisce e tutela le innovazioni e le creazioni umane.

I disegni o modelli specificano l'aspetto dei prodotti.

I marchi indicano l'origine dei prodotti ai consumatori.

Il diritto d'autore copre creazioni artistiche quali libri, musica, dipinti, sculture e film.

I brevetti tutelano invenzioni tecniche in tutti i campi della tecnologia.

La proprietà intellettuale ricompensa gli autori delle innovazioni e consente a tutti di trarre vantaggio dai loro successi”.

La Proprietà Intellettuale è stata definita anche come l’insieme delle risorse intellettuali adatte per la protezione legale o commerciale dell’azienda, quali brevetti, marchi di fabbrica, diritti d’autore, progetti e pratiche commerciali riservate (GOWERS, Gowers Review of Intellectual Property, HM Tresury, 2006).

La Proprietà Intellettuale, è stato precisato, comprende i seguenti istituti giuridici: i brevetti (comprese le nuove varietà vegetali e le topografie di prodotti a semiconduttori), i segni distintivi, i modelli, il design, il diritto d’autore, la concorrenza sleale, il know-how e le indicazioni geografiche (Accordi TRIPs; LUPONE, Gli aspetti della proprietà intellettuale attinenti al commercio internazionale, Organizzazione Mondiale del Commercio, 113).

Insomma, alla luce di quanto sopra, appare chiaro che la Proprietà Intellettuale rappresenta – in buona sostanza – un insieme di strumenti ed istituti giuridici finalizzati alla tutela del patrimonio conoscitivo dell’azienda.

In ultima istanza, pertanto, la Proprietà Intellettuale protegge ed incrementa il tasso di competitività di un’impresa, garantendo alla stessa delle specifiche situazioni di monopolio, tagliate e caratterizzate a seconda del particolare strumento di IP in questione.

Da un punto di vista più istituzionale, la proprietà Intellettuale costituisce un sistema che assicura una situazione di equilibrio tra i diritti dei singoli e quelli della collettività: da un lato, tramite i suoi istituti si fornisce stimolo e impulso alla creatività dei singoli, garantendo ad essi un temporaneo diritto di monopolio sullo sfruttamento economico delle loro innovazioni e creazioni; dall’altro lato, si garantisce il diritto della collettività ad usufruire delle innovazioni e delle creazioni opera del singolo, infine destinate a divenire di pubblico dominio ed a ricadere nel patrimonio conoscitivo collettivo, grazie al carattere sempre temporaneo di tali forme di monopolio, istituite in modo da comunque esaurirsi con il decorso del tempo o con il verificarsi di determinate condizioni.





Emanuela Bergonzoni, Artemisia, Jewel design, 2013


I concetti appena sopra enunciati possono essere considerati sostanzialmente pacifici e consolidati, ma essi ormai – ad avviso di chi scrive – colgono soltanto una parte delle funzioni e dei ruoli che la Proprietà Intellettuale può rivestire nelle e per le imprese.

Infatti, nel momento in cui i beni immateriali ed il patrimonio conoscitivo assumono in ambito aziendale una valenza tanto pervasiva e fondamentale, la Proprietà Intellettuale non può che subire una evoluzione delle proprie funzioni, da considerare sempre più ampie e diversificate.

In primo luogo, dato che gli IPRs rappresentano degli intangible asset di primaria importanza tra i cespiti che costituiscono la ricchezza dell’impresa, la Proprietà Intellettuale risulta oggi essa stessa una componente di grande rilievo nell’ambito del patrimonio economico aziendale.

La Proprietà Intellettuale, conseguentemente, assume un peso specifico mai assunto in precedenza nell’ambito di tutte le questioni attinenti alla valutazione ed alla quotazione del valore dell’azienda.

In secondo luogo, come appare di palmare evidenza, la Proprietà Intellettuale continua a svolgere il suo tradizionale – e tuttora centrale – ruolo nella promozione e nella tutela del patrimonio intangibile dell’azienda e del vantaggio competitivo che da esso le deriva.

I suoi istituti, con le diverse caratteristiche che li contraddistinguono, hanno nell’ordinamento proprio la funzione – tra l’altro – di difendere i frutti della creatività e dell’innovazione.

Il Brevetto, infatti, garantisce all’impresa una privativa sulle invenzioni tecniche realizzate nella o grazie all’azienda; il Design tutela le innovazioni estetiche introdotte nel patrimonio conoscitivo collettivo tramite l’impresa; il Marchio difende l’esclusiva e la distintività delle suggestioni emozionali veicolate dall’azienda verso il mercato; il Diritto d’Autore disciplina i rapporti giuridici inerenti alle creazioni artistiche, tanto sotto il profilo morale quanto sotto quello patrimoniale.

La Proprietà Intellettuale, in terzo luogo, può rivestire anche una funzione di primaria importanza nel favorire nuove ed innovative forme di collegamento e di contaminazione tra il mondo della Impresa e quello della Cultura, che – come abbiamo visto sopra – tanto fondamentali potrebbero e dovrebbero essere per lo sviluppo sociale ed economico, in particolare, del nostro Paese.

La Proprietà Intellettuale, infatti, costituisce un prezioso e multiforme medium per mettere in contatto l’universo della Cultura e le dinamiche dell’Economia.

I vari istituti della Proprietà Intellettuale, da questo punto di vista, possono fungere da strumenti di connessione ed interazione tra queste diverse ed a volte apparentemente incompatibili piattaforme.

Il Brevetto, come pare intuitivo, svolge uno strategico ruolo di collegamento tra il mondo dell’azienda e gli ambiti della ricerca e dell’innovazione, con stimoli ed incentivi reciproci; il Design, poi, può essere visto come una sorta di simbolico ponte, che permette un transito in senso bidirezionale di impulsi e sollecitazioni, tra l’anima più innovativa dell’azienda e la parte più creativa della società; il Marchio, a sua volta, costituisce uno strumento vettore di messaggi informativi e di impulsi emozionali dall’impresa verso la società, fungendo così da elemento catalizzatore ed al tempo stesso da stimolo promotore di fenomeni di costume e di tendenza; il Diritto d’Autore, infine, per sua stessa natura rappresenta uno strumento preposto al collegamento tra l’impresa ed i creatori di contenuti, divenendo così un terreno di incontro e di reciproca influenza tra la realtà dell’azienda ed il tessuto culturale contemporaneo.

In quarto luogo, nella nostra Economia della Conoscenza, dove il patrimonio aziendale è costituito in maniera a volte addirittura prevalente da beni immateriali, la Proprietà Intellettuale assume nell’impresa anche un innovativo ruolo come elemento di attrazione verso l’azienda di nuove risorse economiche e finanziarie.

La Proprietà Intellettuale, in altri termini, offre oggi alle aziende – tramite i suoi istituti – anche dei moderni strumenti per fare in modo che nell’impresa vengano attratte nuove risorse finanziarie, ovvero per determinare una migliore valorizzazione del patrimonio aziendale.

Tale innovativa funzione della Proprietà Intellettuale può trovare espressione secondo varie forme ed in diversi contesti.





Carmen Gloria Morales, Dittico, 2000-01


Alcuni istituti bancari, ad esempio, hanno recentemente posto sul mercato dei prodotti per il finanziamento delle imprese che prevedono quale presupposto di base proprio la presenza in azienda di diritti di Proprietà Intellettuale.

Inoltre, il mondo dei business angel e dei venture capitalist, nel valutare i progetti imprenditoriali sui quali impegnare risorse, particolare rilievo spesso attribuisce al tasso di innovatività dell’azienda, soprattutto se si verte in materia di start-up, con conseguente attenzione per i titoli di Proprietà Intellettuale dei quali il progetto può disporre.

Molte delle più innovative forme di finanziamento delle imprese dal basso (tra queste, il crowdfunding, i minibond, etc.), inoltre, hanno la propria ratio di fondo o importanti forme di incentivazione nella esistenza proprio di un titolo di Proprietà Intellettuale nell’ambito del patrimonio aziendale.

Nota, poi, è la cruciale importanza che sovente la Proprietà Intellettuale riveste nelle operazioni di internazionalizzazione delle imprese – soprattutto nel caso di PMI – sia sotto il profilo del loro finanziamento sia in termini di possibilità di penetrazione nei mercati esteri.

Anche nella fase patologica della vita di un’impresa, infine, il ruolo della Proprietà Intellettuale può essere economicamente decisivo: nelle procedure concorsuali, sovente, gli unici cespiti che consentono l’ingresso di liquidità nella massa fallimentare sono proprio gli IPR.

I titoli di Proprietà Intellettuale, inoltre, spesso sono le chiavi di volta per determinare il successo di un processo di risanamento aziendale, in operazioni di turnaraound o di restructuring.

 

***

 

In estrema sintesi, nella odierna Economia della Conoscenza, la Proprietà Intellettuale vede un significativo ampliamento ed un interessante sviluppo del suo ruolo nelle imprese.

È possibile dire, tentando di operare una difficile schematizzazione riepilogativa, che la Proprietà Intellettuale attualmente riveste nella vita delle aziende almeno quattro diversi tipi di valenza, ovviamente spesso tra di loro sovrapponibili ed interagenti:

• innanzitutto, una valenza patrimoniale, perché i diritti di Proprietà Intellettuale costituiscono oggi una importante componente del patrimonio immateriale dell’azienda;

• poi, naturalmente, una valenza protettiva, in quanto gli istituti della Proprietà Intellettuale continuano a svolgere il proprio tradizionale ruolo nella tutela dei diritti dell’impresa e del suo gradiente di competitività;

• inoltre, una valenza connettiva, nel senso che gli istituti della Proprietà Intellettuale fungono spesso da elementi di collegamento tra l’azienda ed il mondo della cultura e dell’arte;

• infine, una valenza finanziaria, poiché i diritti di Proprietà Intellettuale sono anche degli asset che permettono all’impresa di attivare innovative forme di finanziamento e di valorizzazione del proprio patrimonio aziendale.

 

 

Roma, 28 ottobre 2014

 




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