di Alberto Improda
Premessa
La
crisi economica e finanziaria di questi anni ha stimolato, a livello
planetario, un interessante dibattito riguardo ai limiti ed alle prospettive
della Società contemporanea, nonché in ordine ai suoi attuali e futuri modelli
di sviluppo.
Tale
dibattito si caratterizza per avere una portata particolarmente ampia, abbracciando
tanto temi economici quanto questioni di natura istituzionale, tanto profili di
carattere sociale quanto prospettive sul versante politico.
Colpisce
come in un simile dibattito, nelle sue diverse declinazioni, rivestano costantemente
un ruolo di estrema centralità i concetti di Cultura e di Conoscenza.
La
Conoscenza e la Cultura, infatti, non solo ricoprono funzioni di primaria importanza
nella economia caratteristica della nostra epoca contemporanea, ma – come
vedremo – vengono comunemente ritenute dei concetti chiave anche nella costruzione
del mondo di domani.
Conseguentemente,
la Proprietà Intellettuale – dati i suoi evidenti vincoli con le tematiche della
Conoscenza e della Cultura – rappresenta a sua volta un elemento di
fondamentale rilievo per comprendere la società attuale e per immaginare quella
del futuro.
Con
il presente scritto si vuole sottolineare come, nella Economia della Conoscenza
che caratterizza questi nostri anni, il ruolo della Proprietà Intellettuale
debba essere considerato con mente aperta ed occhi nuovi.
La
Proprietà Intellettuale, infatti, vede oggi un interessante e significativo sviluppo
delle proprie funzioni, soprattutto nell’ambito della vita dell’impresa, con
valenze di carattere particolarmente innovativo che si affiancano a quelle di natura
più tradizionale.
Economia
della Conoscenza
Sempre
più diffusamente, come noto, si parla dell’economia attuale come della Economia
della Conoscenza.
Una
definizione di Economia della Conoscenza, invero piuttosto scarna e schematica,
proviene direttamente dalla Commissione CE: “L’espressione “economia
della conoscenza” indica in genere un’attività economica che non si basa
soltanto su risorse “naturali” (come l’agricoltura e le miniere) ma anche su
risorse “intellettuali”, come il know-how e le competenze specialistiche.
Alla base del concetto di economia della conoscenza è il riconoscimento
che il sapere e l’istruzione (chiamati anche “capitale umano”) possono
essere considerati beni commerciali o prodotti e servizi intellettuali
che possono essere esportati con alto profitto” [Commissione CE, 16
luglio 2008, COM (2008) 466, Libro Verde, Il diritto d’autore nell’economia
della conoscenza].
Il
concetto di Economia della Conoscenza, peraltro, non rappresenta una novità dei
nostri tempi; esso nasce storicamente nella seconda metà del Settecento, in coincidenza
con l’epoca della Meccanizzazione, quando per l’impresa diventa conveniente –
in virtù della natura riproducibile della conoscenza – investire in processi di
apprendimento; si sviluppa poi nel fenomeno industriale e sociale del Fordismo,
sotto forma di Organizzazione Scientifica del lavoro; si riversa successivamente
nella cosiddetta Economia dei Distretti, quale esempio di economia della
propagazione territoriale delle conoscenze relative alle tecnologie ed ai mercati
distrettuali; si rinnova da ultimo nella New Economy, prendendo le sembianze di
economia della replicazione e diffusione automatica delle informazioni.
Il
capitalismo moderno, dunque, dalla Rivoluzione Industriale in poi, è sempre stato
una economia della conoscenza, nel senso che il valore è stato costantemente
prodotto in gran parte dalla propagazione degli usi delle conoscenze
disponibili e dalla continua ricerca di nuove e più avanzate conoscenze.
Certamente
rappresenta un fenomeno tipico e peculiare della nostra epoca, prodotto da
quella che è stata definita – innanzitutto da PAUL ROMER – una “soft
revolution”, l’assunzione di un ruolo decisivo nell’economia e nelle imprese dei
cosiddetti beni “immateriali” o “intangibili”.
Il
concetto di bene intangibile merita qualche approfondimento.
È
stato autorevolmente scritto che per un’impresa i beni intangibili sono: il marchio
di fabbrica; i brevetti; la cultura organizzativa; il livello di formazione del
personale; le competenze relative a prodotti e processi; le conoscenze
esplicite e tacite, di ordine sia tecnico sia relazionale, maturate in azienda
(GALLINO, Prefazione, RONCA Competere con gli intangibili, Guerini e Associati,
Milano, 2007).
A
livello internazionale, si fa comunemente riferimento agli intangible assets come
a beni aziendali identificabili, non monetari, senza consistenza fisica, che: i)
sono controllati da un’impresa per essere usati nella produzione o nell’offerta
di beni o servizi, per essere affittati a terzi o per scopi amministrativi; ii)
risultanti da decisioni o fatti passati; iii) dai quali ci si attende benefici
economici futuri (International Accounting Standards Committee, 1998, IAS 38,
Intangibile Assets, 984).
Di
tale definizione si è anche data un’interpretazione estensiva, comprendendovi
tutti i fattori non materiali che contribuiscono alla prestazione dell’impresa
nella produzione di beni o nell’offerta di servizi, o che si ritiene possano
generare benefici economici futuri alle entità o agli individui che controllano
tale spiegamento (CRAVERA-MAGLIONE-RUGGERI, La valutazione del capitale
intellettuale, Il Sole 24 Ore, Milano, 2001).
Gli
intangibili, per diventare parte del capitale intellettuale di
un’organizzazione, devono essere durevolmente ed efficacemente interiorizzati
e/o fatti propri dall’organizzazione stessa [Elaboration from Meritum 2002,
Guidelines for managing and reporting on intangibles (IC Report),
Airtel-Vodafone Foundation, Madrid e ZAMBON, 2000, The strategic connotations
of knowledge and intellectual, capital: the new drivers of the internal and
external company value, Business International Conference “The value of
intangibile assets”, Milano, 2005].
Più
sinteticamente, il capitale intellettuale di un’azienda è stato definito come l’insieme
di tutte le conoscenze che le risorse di un’impresa possiedono e che sono in
grado di conferire all’azienda un vantaggio competitivo sul mercato (STEWART,
Your company’s most valuable asset: intellectual capital, Fortune, Ottobre
1994); ovvero come la conoscenza che può essere trasformata in valore
(SULLIVAN, Value-driven intellectual capital, How to convert intangibile corporate
assets into market value, John Wiley & Sons, Londra, 2000); ovvero ancora
come l’insieme delle conoscenze e delle relazioni che possono essere trasformate
in valore (EDVINSSON- MALONE, Intellectual capital: the proven way to establish
your company’s real value by measuring its hidden brain power, Piatkus, Londra,
1997); ed infine come il patrimonio di conoscenze, competenze, relazioni,
know-how e processi che determinano il reale valore di un’azienda e ne
rappresentano la specificità organizzativa, culturale e strategica (CRAVERA-
MAGLIONE-RUGGERI, cit.).
In
buona sostanza, i beni intangibili di un’azienda sono costituiti – operando una
sintetica schematizzazione – da: capitale umano (vale a dire l’insieme di conoscenze
tacite o implicite, competenze professionali, attitudini mentali, abilità
personali e lavorative, capacità di innovazione e creatività, leadership, flessibilità
e disponibilità, entusiasmo e motivazione, resilienza e capacità di apprendimento
del personale); capitale strutturale (vale a dire la conoscenza sviluppata in
azienda e codificata in sistemi organizzativi, prassi e modelli lavorativi,
flessibilità strutturale e organizzativa, procedure e protocolli esclusivi, banche
dati interne, diritti di proprietà intellettuale, information technology); capitale
relazionale (vale a dire la conoscenza accumulata per effetto delle relazioni
con soggetti esterni, i rapporti con la clientela e con altri stakeholder, l’immagine
e la reputazione).
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Arturo Martini, Minerva guerriera, 1935, Università La Sapienza di Roma
|
I
beni intangibili, o per meglio dire il loro complesso, hanno negli ultimi
lustri assunto il ruolo di primarie e fondamentali leve di creazione e
diffusione di ricchezza nelle imprese, in qualche modo relegando in secondo
piano gli asset aziendali più tradizionali.
Che
l’attuale modello economico possa correttamente essere definito come Economia
della Conoscenza risulta confermato dalla circostanza che, prendendo in
considerazione gli ultimi decenni, le industrie ad alta intensità di conoscenza
– in tutto il mondo occidentale – hanno costantemente guadagnato importanza
rispetto ai settori industriali definiti “misurabili”, quali l’agricoltura, il manifatturiero,
l’estrattivo, i trasporti, le utilities.
Oggi
si parla in maniera particolarmente costante e diffusa di Economia della Conoscenza
anche sotto un altro profilo ed alla luce del particolare momento storico che
stiamo attraversando.
Negli
ultimi lustri, infatti, è giunto a maturazione quel fenomeno politico ed economico
comunemente definito come Globalizzazione, che ha visto un significativo
abbattimento delle barriere doganali e culturali tra le diverse aree del
Pianeta, rendendo di fatto l’intero Globo un unico grande mercato.
In
tale mercato hanno fatto irruzione in maniera impetuosa e dirompente le economie
di Paesi caratterizzati da enormi disponibilità di manodopera a basso costo e
da condizioni di produzione altamente competitive (Cina e India in primis, ma
non solo).
Questo
ha determinato per le economie dei Paesi Occidentali delle conseguenze di
enorme portata: messe sostanzialmente fuori mercato per quanto concerne le
produzioni a basso valore aggiunto, esse hanno dovuto concentrare i propri
sforzi sull’alto di gamma, vale a dire sui prodotti e sui servizi ad elevato
valore aggiunto, caratterizzati da un significativo contenuto tecnologico e/o
da un considerevole gradiente di creatività ed innovazione.
In
altri termini, le dinamiche economiche conseguenti al fenomeno della Globalizzazione
hanno costretto e stanno costringendo le economie dell’Occidente a
caratterizzarsi per un forte impegno nel campo della ricerca, dell’innovazione,
della creatività, ovverosia – in una parola sola – della
Conoscenza.
Quindi
la Conoscenza è ritenuta oggi in Occidente la cifra di fondo di una economia
moderna, che possa competere con successo a livello planetario e che sappia
allargare il proprio sguardo sul futuro, con fiducia ed ambizione.
***
Nel
momento in cui si parla di Conoscenza non può non venire in rilievo anche il
concetto di Cultura, che della prima costituisce il nocciolo duro, il nucleo pulsante,
il centro propulsivo e lo spirito informativo.
Dunque
di grande importanza sono oggi anche i rapporti tra il mondo dell’Economia e
quello della Cultura, i quali possono essere declinati secondo diversi
versanti.
Una
particolare attenzione, innanzitutto, viene attualmente rivolta al settore delle
Industrie Creative e Culturali (“IIC”), i cui confini sono in continua espansione.
Con
il termine Industrie Creative e Culturali ci si vuole riferire a quel complesso
di attività d’impresa che – partendo dalle basi di un capitale culturale riguardante
non solo il patrimonio storico, artistico e architettonico, ma anche l’insieme
di valori e significati che caratterizzano il nostro sistema socioeconomico –
arrivano a generare valore economico ed occupazionale, concorrendo al processo
di creazione e valorizzazione culturale.
Nel
concetto di IIC, dunque, rientrano senz’altro quelle imprese artigianali e manifatturiere
che producono i beni della cultura materiale, vale a dire tutti i beni ed i
servizi del Made in Italy, i quali trovano nella tradizione culturale dell’industria
locale un riferimento prioritario; si considerano poi certamente Industrie
Creative e Culturali anche quelle che producono contenuti protetti dal copyright,
quali il cinema, la televisione, l’editoria, il software e la pubblicità; sono
IIC, infine, le imprese che utilizzano il patrimonio culturale storico e artistico
del Paese: i musei, i monumenti, l’architettura, l’arte contemporanea, la musica,
il teatro, la lirica.
Un
altro aspetto di particolare interesse, nel parlare di Economia della Conoscenza,
risulta il nesso intercorrente tra il concetto di Cultura ed il gradiente di Competitività
di un determinato Territorio.
Risulta
un principio ormai assodato, infatti, che esiste una esplicita ed effettiva connessione
tra lo sviluppo culturale di un territorio ed il tasso di competitività delle
sue imprese.
D’altronde,
in una epoca segnata dalla strutturale demanifatturizzazione delle economie dei
Paesi Occidentali, la produzione a più alto valore aggiunto non si può non
spostare sull’economia della conoscenza e su un terziario avanzato in grado di
sfruttare adeguatamente una serie delle produzione sottili, nel senso di sfuggenti
e poco visibili, come l’intelligenza, la creatività e il senso della bellezza.
Il
rapporto tra Impresa e Cultura, quindi, si traduce in qualcosa di immateriale, ma
anche di organizzato in maniera ora personalistico-artigianale ora seriale-industriale;
qualcosa che può definirsi “atmosfera creativa”, un’espressione valida a
indicare quella complessa miscela di economia e psicologia, individui e comunità,
interessi e valori che caratterizzano l’identità e la specializzazione produttiva
di un determinato luogo, che può essere sia fisico sia simbolico.
La
suddetta connessione tra Cultura e Competitività trova una esplicita conferma
in una recente Ricerca sui musei italiani, a cura di IULM e UNESCO, in
collaborazione con il MIBAC, per ASPEN Institute Italia, dalla quale risulta che
i Paesi che presentano i più alti livelli di partecipazione alle attività
culturali sono anche quelli che dimostrano la maggiore capacità innovativa.
D’altronde,
pare evidente che quelle comunità che, attraverso la partecipazione culturale,
si abituano ad aggiornare costantemente il proprio bagaglio cognitivo si
sottopongono a una “ginnastica” che costituisce la premessa ideale per essere
pronti a rimettersi in discussione di fronte a situazioni che richiedono soluzioni
nuove.
Nel
Rapporto 2012 di Symbola e Unioncamere, “L’Italia che verrà”, viene messo in
rilievo che a “livello regionale europeo, ad esempio, esiste una netta relazione
tra il livello locale di concentrazione delle industrie creative (in termini
di occupazione settoriale) e la prosperità in termini di PIL pro capite”
(pagina 14); la medesima correlazione viene sottolineata nel Rapporto PIQ 2011
di Symbola e Unioncamere (pagina 63).
Viene
insomma ormai ritenuto un punto fermo il fatto che “la partecipazione culturale
può agire come motore di crescita economica endogena e sociale in modalità che
sono complementari a quelle già ampiamente studiate e documentate per
l’istruzione” (SACCO-FERILLI, Cultura 3.0 e partecipazione attiva,
Rapporto Annuale federculture 2014, 75, con ulteriori riferimenti bibliografici).
Anche
negli USA, peraltro, il Bureau of Economics Analysis – vale a dire l’istituto
che elabora le principali statistiche economiche a livello federale – dal 31
luglio 2013 include l’innovazione e la creatività tra i beni dei quali gode e
che caratterizzano una comunità.
Deve
essere considerato un imprescindibile dato di fatto, insomma, che sono in
genere più vocati alle produzioni di qualità i territori che risultano più forti
nell’industria culturale e, quindi, nella creazione di Economia connessa alla Cultura.
Ancora
una volta, dunque, emerge un collegamento importante tra il mondo dell’Economia
e quello della Cultura.
Tale
collegamento assume un rilievo straordinariamente significativo nel nostro Paese,
in ragione di almeno due elementi.
In
primo luogo, il noto fenomeno del Made in Italy (che l’autore delle presenti note,
in altri scritti, ha preferito denominare Italian Soul), tanto fondamentale per
il tasso di competitività delle imprese italiane e ampiamente condizionato da questioni
attinenti alla cultura del territorio.
In
secondo luogo, proprio il carattere eccezionalmente rilevante – sia dal punto di
vista quantitativo sia dal punto di vista qualitativo – del patrimonio
artistico e culturale che insiste sulle nostre terre.
Basti
pensare che nel nostro Paese “sono 4.588 i musei, pubblici e privati, aperti
al pubblico, 240 le aree archeologiche e 501 i monumenti censiti dalla ricerca,
e hanno accolto quasi 104 milioni di visitatori” (BOCCI, Dall’Europa risorse
e opportunità per tornare a produrre cultura, Rapporto Annuale Federculture
2014, 91).
“D’altronde
si dice sempre che l’Italia è un museo diffuso. Abbiamo 46.025 edifici storici,
cioè uno ogni 1.200 cittadini, 3.872 musei (più di tutti quelli dell’Africa e
del Sud America), 48 teatri d’opera (più dei 34 di Francia, Russia, Stati
Uniti, Spagna e Regno Unito). Ma anche una leadership europea nelle produzioni
tipiche: produciamo 331 vini DOC, 59 DOCG, 119 IGT; abbiamo 229 denominazioni
di origine riconosciute a livello comunitario e 4.606 specialità tradizionali
censite nelle Regioni. Centinaia di manifestazioni storiche e rievocazioni
religiose tramandate per secoli e che sono tutt’oggi straordinarie attrazioni
turistiche” (GROSSI, Il coraggio delle scelte, Rapporto Annuale Federculture
2014, 33).
In
Italia più che altrove, dunque, appare di vitale importanza creare forme di contaminazione
e di interazione tra la realtà dell’Impresa e la dimensione della Cultura,
perché dalle sinergie e dagli impulsi tra queste due galassie possono derivare
progresso e sviluppo per l’intero paese.
***
|
Carlo Bernardini, Orbita eclittica, Neons - Tesla coil, 2009
|
Nell’ambito
della Economia della Conoscenza ricopre ovviamente un ruolo fondamentale
l’elemento della Creatività, la quale – intesa in senso lato – può essere a sua
volta vista sotto diverse sfaccettature, rappresentando un fenomeno poliedrico
ed oggetto di esame secondo varie chiavi di lettura.
La
Creatività, innanzitutto, viene oggi considerata una componente del patrimonio
storico e artistico di un Paese; tale patrimonio, a sua volta, è costituito sia
dal capitale culturale frutto della creatività delle generazioni passate, sia
dalla produzione artistica delle generazioni presenti.
Ma
la Creatività rappresenta anche un input per la produzione e per la comunicazione
di contenuti delle industrie culturali, che per loro stessa natura forniscono
beni e servizi fortemente simbolici.
Sotto
un altro aspetto, la Creatività costituisce anche l’indice delle capacità di una
comunità di rinnovarsi e di innovare, andando oltre lo stato dell’arte quesito e
creando sempre nuova conoscenza.
La
Creatività, poi, risulta spesso il frutto di un processo collettivo, locale e cumulativo,
dove l’elemento culturale è inserito inestricabilmente nei beni artigianali di
uso quotidiano; in questa ottica, il processo creativo appare fortemente
radicato nella sfera della cultura materiale, come tale espressione del
territorio e della collettività.
La
Creatività, dunque, rappresenta una componente polivalente e fondamentale in
una determinata società ed in una moderna economia, ontologicamente legata a
doppio filo con il mondo della Cultura e con la sfera della Conoscenza della
realtà di riferimento.
Scenari
per il Futuro
I
concetti di Cultura e di Conoscenza sono oggi all’attenzione degli studiosi anche
in ottiche di ben più ampio respiro. Infatti, come accennavamo in sede di
apertura, la crisi economica e politica di questo inizio secolo ha spinto molti
a mettere in discussione la validità degli stessi modelli di sviluppo economico
ed istituzionale alla base della società contemporanea, alimentando il
dibattito sui nuovi e diversi principi che caratterizzeranno la società del
domani.
Ebbene,
in molti ed autorevoli casi, gli assetti economici ed istituzionali del futuro
sono spesso concepiti come aventi il proprio fulcro proprio sulle dinamiche
della Cultura e della Conoscenza.
Il
punto di partenza che accomuna molti autori consiste nella constatazione del fatto
che le strutture di base sulle quali poggia la società attuale mostrano ormai l’usura
del tempo e non possono essere assunte quali elementi cardine per costruire il
mondo del futuro.
Ragion
per cui, sostengono autorevoli voci, si rende necessario – in tempi ormai brevi
– immaginare modelli di sviluppo completamente fuori sagoma rispetto agli
schemi oggi vigenti.
In
altri termini, secondo molti studiosi, rappresenta un esercizio inutile tentare
di individuare le risposte ai problemi della società contemporanea e progettare
le strutture di quella del futuro facendo ricorso ai principi ed alle
costruzioni che hanno caratterizzato gli ultimi decenni.
Operare
un simile tentativo, è stato detto con una felice esemplificazione, significherebbe
fare come “quel tizio che cercava le chiavi sotto un lampione non
perché le avesse perse lì, ma perché quello era l’unico punto illuminato della
strada” (JEAN-PAUL FITOUSSI, Il teorema del lampione, 2013).
Alcuni
autori, insomma, ritengono che per immaginare i modelli di sviluppo della società
di domani si debbano innanzitutto individuare dei nuovi parametri di riferimento
per determinare la correttezza della direzione assunta dalla società medesima,
perché quelli che sono stati utilizzati fino ad ora non sono più utili.
In
primo luogo, dunque, occorrerebbe andare al superamento della visione dello sviluppo
identificato come crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) pro capite, ovvero
di visioni analoghe, finalizzate all’identificazione dello sviluppo – di volta
in volta – con l’aumento dei redditi individuali, con l’industrializzazione,
con il progresso tecnologico o con la modernizzazione di una società.
L’inadeguatezza
del parametro del PIL pro capite per determinare l’effettivo grado di sviluppo
di una società viene oggi sostenuta sotto più aspetti: in primo luogo, si dice,
anche ove volessimo – con decisione già di per sé discutibile – misurare la
qualità della vita in termini strettamente monetari, e se volessimo utilizzare
una singola media anziché guardare alla distribuzione delle risorse, non è
affatto scontato che il PIL pro capite risulterebbe l’elemento più utile da considerare
(la Commissione Sarkozy, ad esempio, ha piuttosto messo l’accento sul reddito
medio familiare); in secondo luogo, l’approccio del PIL, e di tutti i sistemi
similmente basati su una media nazionale, non considerano l’aspetto della
distribuzione delle risorse e possono conseguentemente assegnare ottimi
punteggi a nazioni che conoscono enormi diseguaglianze, sostenendo che tali
paesi stanno andando nella giusta direzione.
Insomma,
“non riuscendo a dare risalto al problema della distribuzione, all’importanza
della libertà politica, all’eventuale subordinazione di minoranze e agli altri
aspetti dell’esistenza umana meritevoli di considerazione, l’approccio del PIL
distrae l’attenzione da tutte queste problematiche urgenti, sostenendo che se
una nazione migliora il suo PIL medio, allora si sta “sviluppando” bene”
(MARTHA C. NUSSBAUM, Creare Capacità, 2012, 55).
Questi
autori, probabilmente, apprezzerebbero i versi dedicati da TRILUSSA alla
Statistica:
“Me spiego: da li conti che se fanno
seconno le statistiche d’adesso
risurta che te tocca un pollo all’anno:
e, se nun entra nelle spese tue,
t’entra ne la statistica lo stesso
perché c’è un antro che ne magna due”.
Di
recente sono state anche autorevolmente e intelligentemente rievocate le parole
pronunciate da Robert Kennedy il 18 maggio 1969 in un campus universitario del
Kansas: “Non possiamo misurare il successo di un Paese sulla base del
prodotto interno lordo. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie,
della qualità dell’educazione o della gioia nei momenti di svago. Non comprende
la bellezza né la poesia” (GROSSI, Il coraggio delle scelte, Rapporto
Annuale Federculture 2014, 27).
In
questa ricerca di nuovi modelli di sviluppo per la società del domani, con la contestuale
individuazione di diversi parametri di riferimento per misurare e definire la
stessa idea di sviluppo, una interessante scuola di pensiero ha fatto riferimento
al concetto di espansione delle libertà dell’individuo: “In tale ottica l’espansione
della libertà è vista sia come fine primario che come mezzo principale
dello sviluppo. Lo sviluppo consiste nell’eliminare vari tipi di illibertà che
lasciano agli uomini poche scelte e poche occasioni di agire secondo ragione”
(AMARTYA SEN, Lo sviluppo è libertà, 1999, 6).
Lo
sviluppo, dunque, viene qui visto come un processo di espansione delle libertà
reali godute dai cittadini, definite anche “capacitazioni”.
In
questa impostazione, occorre sottolineare, viene adottata una idea di libertà particolarmente
piena, che comprende “sia quei processi che permettono azioni e
decisioni libere sia le possibilità effettive che gli esseri umani hanno in
condizioni personali e sociali date” (ibidem, 23); perchè “il
successo di una società va giudicato, innanzitutto, sulla base delle
libertà sostanziali di cui godono i suoi membri” (ibidem, 24).
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Giampiero Poggiali Berlinghieri, Installazione, Villa La Vedetta, 2011
|
Una
evoluzione di questa interessante impostazione si definisce come “approccio
delle capacità” (MARTHA C. NUSSBAUM, Creare capacità, 2012, 25).
Tale
approccio, che comprende una valutazione comparata della qualità della vita ed
una teorizzazione di una giustizia sociale di base, considera “ogni persona
come un fine, chiedendosi non tanto quale sia il benessere totale o medio,
bensì quali siano le opportunità disponibili per ciascuno. È incentrato sulla
scelta o libertà, ritenendo che il bene fondamentale della società consista
nella promozione per le rispettive popolazioni di un insieme di opportunità,
o libertà sostanziali, che le persone possono poi mettere in pratica o
meno” (ibidem).
Secondo
questa linea di pensiero, dunque, riveste un ruolo di centrale importanza il
concetto di “capacità”, con tale termine intendendosi “un tipo di libertà:
la libertà sostanziale di conseguire combinazioni alternative di funzionamenti.
In altre parole, esse non sono semplicemente delle abilità insite nella
persona, ma anche le libertà o opportunità create dalla combinazione di abilità
personali e ambiente politico, sociale ed economico” (ibidem, 28).
Nel
soprapporsi e nell’interagire di “capacità interne” e “capacità
combinate”, in base all’approccio in oggetto l’ordinamento politico deve
garantire a tutti i cittadini almeno determinate soglie di “dieci capacità
centrali” (ibidem, 39): vita, salute fisica, integrità fisica, sensi
immaginazione e pensiero, sentimenti, ragion pratica, appartenenza, altre
specie, gioco, controllo del proprio ambiente, politico e materiale; capacità
centrali in qualche misura coincidenti con le otto “determinanti oggettive
del benessere” individuate dalla Commissione Sarkozy: la salute,
l’istruzione, il lavoro, partecipazione alla vita politica, i legami sociali, la
sicurezza personale, la sicurezza economica, l’ambiente (JEAN-PAUL FITOUSSI, Il
teorema del lampione, 195)
In
estrema sintesi, secondo questa impostazione, lo sviluppo di una società consiste
nel permettere ad ogni singolo individuo sia di sviluppare al meglio ogni sua
potenzialità fisica ed intellettuale sia di poterla poi effettivamente esprimere
nella vita politica e sociale.
La
centralità di questo concetto di pieno sviluppo di tutte le potenzialità di
ogni singolo individuo, poi, determina un interessante punto di contatto tra il
filone di pensiero in esame e l’opera di RICHARD SENNETT, teorico del nuovo “uomo
artigiano” ed ispiratore del movimento dei makers, nato
recentemente negli USA ed oggi conosciuto in buona parte del mondo occidentale,
grazie anche all’attività divulgativa di Mark Frauenfelder e della rivista
“Make”.
SENNETT
individua nell’uomo artigiano un modello al tempo stesso molto antico ed
estremamente moderno, al quale i cittadini possono guardare per resistere e
riscattarsi da “un nuovo ordine di potere acquisito per mezzo di una cultura
sempre più superficiale” (RICHARD SENNETT, La cultura del nuovo capitalismo,
2006, 144).
L’uomo
artigiano, volendo esemplificare, presenta due fondamentali caratteristiche:
una basilare abilità artigianale ed un incondizionato impegno nel proprio
lavoro: “nel suo significato più ampio, la nozione di abilità artigianale
designa il desiderio di fare bene una cosa per sé stessa” (ibidem, 143);
l’impegno nasce dal fatto che “fare bene qualcosa, anche se non si riceve
nulla in cambio, è il vero spirito artigianale” (ibidem, 144).
E
questo, probabilmente, perché il “modello della nostra dignità professionale
rimane pur sempre Efesto, lo Zoppo, orgoglioso del proprio lavoro se non della propria
persona” (RICHARD SENNETT, L’uomo artigiano, 2008, 281).
JEREMY
RIFKIN, con approccio affatto peculiare, nella sua costruzione ideologica parte
invece dalla constatazione che il petrolio e gli altri combustibili fossili,
vale a dire le fonti energetiche sulle quali si basa oggi non solo l’economia
ma l’intero stile di vita dei Paesi Occidentali, sono ormai in via di esaurimento
e le tecnologie ad essi connesse e da essi alimentate si accingono a diventare
obsolete.
Nel
contempo, e in parte conseguentemente, appaiono progressivamente estendersi ed
aggravarsi i grandi mali che affliggono il Mondo Globalizzato: crisi economica,
disuguaglianza, disoccupazione, fame e guerre.
A
rendere il quadro ancora più allarmante interviene il pericolo di un
catastrofico cambiamento climatico in tempi non più così estesi, provocato
dalle attività industriali e commerciali che caratterizzano le nostre economie.
La
soluzione individuata da questo pensatore consiste in un cambiamento di natura
davvero epocale, con il passaggio da una società della Globalizzazione ad una
società della Terza Rivoluzione Industriale.
Tale
rivoluzione prenderebbe le mosse da un nuovo regime energetico, non più centralizzato
e gerarchico ma distribuito e collaborativo, sulla cui matrice si conformerebbero
poi le strutture economiche e politiche dell’intera società.
E,
“così come le rivoluzioni industriali dell’Ottocento e del Novecento hanno liberato
l’uomo dalla servitù, dalla schiavitù e dal lavoro coatto, la Terza rivoluzione
industriale e l’era collaborativa che ne trae origine lo libereranno dal lavoro
meccanizzato, per coinvolgerlo nel gioco profondo, che è l’essenza della socialità”
(RIFKIN, La terza rivoluzione industriale, 2011, 304).
Nella
economia della nuova Era Collaborativa assumerà un ruolo via via sempre più
centrale quel comparto che oggi definiamo “terzo settore”, ovvero “società
civile”, vale a dire “il luogo ove l’uomo crea capitale sociale ed è costruita
intorno ad una vasta gamma di interessi: istituti culturali e religiosi, istruzione,
ricerca, salute, servizi sociali, sport, attività ricreative, gruppi ambientalisti
e una quantità di altre organizzazione il cui fine è creare legami sociali”
(ibidem, 301).
La
società della nuova Era Collaborativa, scaturente dalla Terza Rivoluzione Industriale
ed avente al centro della propria economia il Terzo Settore, vede tra i propri
elementi fondativi il concetto di Cultura.
Questo
“perché la Cultura è il contesto in cui si crea la narrazione sociale che ci
lega gli uni agli altri, permettendoci di empatizzare reciprocamente come una famiglia
estesa” (ibidem, 302).
E,
dice RIFKIN, “nella storia non ci sono esempi, almeno a mia conoscenza, di gruppi
di persone che abbiamo prima istituito mercati e governi e poi abbiano creato
una cultura; al contrario, mercati e governi non sono che estensioni della cultura”
(ibidem, 302).
Tale
grande trasformazione sarebbe già in corso sulla scena planetaria, con la progressiva
affermazione di un nuovo sistema economico, denominato “Commons collaborativo”:
“Il Commons collaborativo sta trasformando il nostro modo di
organizzare la vita economica, rendendo possibile una drastica riduzione
delle disparità di reddito, democratizzando l’economia globale e dando
vita a una società ecologicamente più sostenibile” (RIFKIN, La società a costo
marginale zero, 2014, 3).
MAURO
MAGATTI e CHIARA GIACCARDI, in una loro recente opera, rivisitano in maniera
originale alcuni dei concetti sopra accennati ed elaborano un proprio nuovo
modello di sviluppo per la società del domani.
Gli
autori in esame prendono le mosse da una disamina dell’attuale frangente storico
e considerano come la crisi politico-economica che il mondo sta attraversando
possa mettere in discussione lo stesso concetto di libertà.
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Arthur Duff, Syntax Parallax, 2011
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Bisogna
allora ripensare, rinnovare e rinvigorire l’idea di libertà, immaginando per la
società di domani un nuovo modello di sviluppo.
La
società del futuro, secondo il loro pensiero, dovrà trovare la propria cifra di
fondo nella Generatività, la quale si profila “come un modo di essere che
cerca di promuovere, attraverso la cura, la vita propria preoccupandosi
della vita degli altri e valorizzandone le capacità di contribuzione. In
sostanza, la generatività è un principio accrescitivo (e non di mero
bilanciamento) capace di spingere la libertà un passo avanti: dopo
essersi liberata, il suo destino non può non passare attraverso il
riconoscimento dell’altro da sé” (MAURO MAGATTI-CHIARA GIACCARDI,
Generativi di tutto il mondo unitevi!, 2014, 38).
In
questa ottica, “generativo è dunque chi decide di mettere al mondo un valore
e, in questo modo, introduce nel mondo una differenza” (ibidem, 48).
Occorre
per la via della Generatività approdare ad un nuovo modello di sviluppo della
società del domani, incentrato non in “una rinuncia alla potenza, ma in una
rinnovata capacità di indirizzarla, declinarla, trattarla. Ponendola al
servizio della vita nelle sue diverse manifestazioni” (ibidem, 115).
In
questo modo, si cambia il baricentro della società, dell’economia e della politica:
il nuovo baricentro viene individuato nella capacità umana di generare valore.
E
“per compiere il salto occorre passare dalla cultura dell’eccesso – avere sempre
di più, andare sempre più forte – alla cultura dell’eccedenza – aspirare a un
di più di vita, a un di più di pienezza” (ibidem, 119).
Da
un punto di vista economico, questa impostazione adotta la teoria della “creazione
di valore condiviso”, in base alla quale: “Il concetto di valore condiviso
riconosce che sono i bisogni della società e non solo i bisogni economici
convenzionali a definire il mercato” (MICHAEL PORTER e MARK KRAMER, Creating
Shared Value, Harvard Business Review, n. 89, 2011, 62);
sicché
“il valore condiviso consiste nell’espandere la dotazione complessiva di valore economico e sociale” (ibidem, 77).
Una
simile teoria si pone il nobile obiettivo di conciliare la crescita economica con
la coesione sociale: “è venuto
il momento di assumere una visione più ampia della creazione di valore.
Tutta una serie di fattori, come la sempre maggiore consapevolezza
sociale dei dipendenti e dei cittadini e la sempre maggiore scarsità di
risorse naturali daranno luogo a opportunità senza
precedenti per la creazione di valore condiviso. Abbiamo
bisogno di una forma più sofisticata di capitalismo, impregnata di finalità più
sociali. Quelle finalità dovrebbero derivare da una più profonda comprensione
della competizione e della creazione di valore economico” (ibidem, 85).
La
Generatività, dunque, deve condurre ad una nuova idea di prosperità, più ricca
di contenuti intellettuali, più aperta alle esigenze dell’altro e più attenta
alla dimensione spirituale della vita.
Per
avviare un simile percorso, gli autori in esame indicano cinque “commesse”,
quali principali linee di indirizzo: la Capacitazione personale, l’Impresa
plurale, la Rete collaborativa, la Libertà religiosa, i Beni di comunità.
È
interessante sottolineare, ai fini del presente scritto, come nella prima commessa
si richiamino in maniera esplicita le posizioni di AMARTYA SEN e MARTHA
NUSSABAUM, così efficacemente riassumendone il pensiero e il concetto di
“capacitazione”: “Con il termine “capacitazione” questi due autori intendono
la “competenza ad agire”, che deriva dall’insieme delle risorse cognitive
e relazionali di cui una persona dispone, unitamente alle sue capacità di
fruirne e quindi di impiegarle operativamente. Le capabilities sono dunque il
saper fare, la saggezza pratica, la rete di relazioni che consentono
un’azione efficace e in grado di valorizzare le risorse disponibili.
Affinché ci sia libertà (generativa), è indispensabile che ogni persona
sia messa in condizione di esplicitare il proprio ventaglio di
competenze, per quanto residuali, perché solo così si può affermare il
principio delle capacità personali inteso come fine” (MAURO MAGATTI-CHIARA
GIACCARDI, Generativi di tutto il mondo unitevi!, 2014, 131).
Un
accenno, in questa sintetica panoramica, meritano anche le posizioni di SERGE
LATOUCHE, portatore di idee decisamente peculiari e teorico della “decrescita
serena”.
Le
proposte di questo studioso risultano particolarmente radicali, forse utopistiche,
giungendo a prefigurare non solo un rigetto della economia di mercato, ma addirittura
– per qualche verso – un abbandono del concetto stesso di economia.
LATOUCHE,
nella ricerca di un’alternativa alla dinamica crescita-illimitatezza, trova un
suo concetto strategico nel principio del “limite”.
Nella
sua costruzione ideologica, il Limite diventa un vero e proprio punto di forza
per la società del futuro, tale da arginare la pervasività autodistruttiva dell’universalismo
libero-scambista e trattenere l’umanità dal baratro, perché “debellare
l’illimitatezza e ritrovare il senso dei limiti è un imperativo per la sopravvivenza
dell’umanità” (SERGE LATOUCHE, Limite, 2012, 103).
Dunque
con il principio della Decrescita non si indica una crescita in senso negativo,
ma piuttosto si vuole significare una “acrescita”, nel senso che si indica un
vero e proprio abbandono delle dinamiche e dei meccanismi dell’economia, del
progresso e dello sviluppo.
Il
pensiero di LATOUCHE, probabilmente, si distingue da quello di altri studiosi per
il suo porsi al di fuori delle correnti umanistiche, ovvero – direbbe egli stesso
– per la proposta di un “umanesimo correttamente inteso” (SERGE LATOUCHE,
Breve trattato sulla decrescita serena, 2013, 123), definibile come “etnoantropocentrismo”
(ibidem, 122).
L’aspetto
che si vuole qui sottolineare, nell’economia del presente scritto, è che per
questo pensatore “la realizzazione di una società della decrescita passa
necessariamente per un “reincanto” del mondo” (ibidem, 123).
E,
in questo contesto, si assiste ad una esplicita valorizzazione del ruolo dell’arte,
in quanto l’artista ha un ruolo “insostituibile per la costruzione di una
società serena della decrescita” (ibidem, 124); “L’artista rammenta
all’individuo moderno che, per quanto faccia, è condannato a una forma
qualsivoglia di animismo, se vuole che le cose abbiano un senso. […].
L’artista è
probabilmente il testimone del fatto che l’animismo è la
sola filosofia che rispetta le cose e l’ambiente, una filosofia adeguata allo
spirito del dono che pervade le cose, e da cui la modernità ci ha separato”.
Comunque sia, animismo o meno, per una società della decrescita, come per Oscar
Wilde, ‘l’arte è inutile e dunque essenziale’!” (ibidem, 124).
Anche
nella costruzione di questa peculiare linea di pensiero, pertanto, il concetto
di Cultura ricopre un ruolo fondamentale per delineare la società del futuro.
Naturalmente
la disamina di cui sopra non ha alcuna pretesa di completezza, esistendo
numerose altre rilevanti posizioni e scuole di pensiero, sia quanto alla critica
della società del presente sia quanto alla progettazione della società del futuro.
Gli
autori presi in considerazione, tuttavia, rappresentano uno spaccato sufficientemente
significativo del dibattito oggi in essere, tale da consentire qui in appresso
lo svolgimento di una qualche riflessione conclusiva.
Abbiamo
già più volte sottolineato come la società e l’economia dei giorni nostri trovino
nella Conoscenza e nella Cultura degli elementi di centrale importanza.
Le
attuali e più moderne dinamiche economiche, tra l’altro, individuano nella Conoscenza
e nella Cultura le cifre di fondo della società occidentale, nonché gli
strumenti perché essa possa mantenere un ruolo di spicco ed un adeguato gradiente
di competitività nell’era della Globalizzazione.
Si
è sopra anche voluto svolgere una sommaria e parziale disamina di alcune significative
posizioni di vari pensatori, in merito alle caratteristiche ed ai meccanismi
che si vorrebbero alla base della società del futuro.
La
maggior parte di queste posizioni, a tratti tra di loro profondamente diverse, presentano
alcuni punti in comune: in primo luogo, una qualche forma di Umanesimo, con
l’Uomo che si trova sempre al centro della riflessione e del quale si tenta in
modi diversi la tutela e il riscatto; in secondo luogo, una forte tendenza alla
Spiritualità, con il recupero della dimensione più interiore
dell’Uomo
e con una spiccata attenzione al mondo dei Valori, in terzo luogo, una qualche
espressione di Fratellanza, risultando sempre alla base dei nuovi modelli di
società delle forme più forti di vicinanza e di solidarietà tra gli esseri umani.
Ma,
ai fini delle riflessioni che qui si stanno svolgendo, interessa soprattutto sottolineare
che – in forme e con accenti diversi – tutte queste costruzioni teoriche, tese
a definire in qualche modo una società migliore di quella attuale, prevedono
comunque un ruolo di fondamentale rilievo per la Cultura, per la Conoscenza,
per l’Intelletto.
E
questo è perfettamente comprensibile, atteso che – come è stato brillantemente
detto e scritto in un recente e prezioso libricino – “conoscere bene
la caverna e trovare i modi per uscirne: questa è per me la cultura”, “la cultura
è una cosa diversa dalla somma delle conoscenze, ma nasce comunque dalla
possibilità di sapere: si esce dalla caverna anzitutto conoscendo la
caverna – e i dintorni” (MARINO SINIBALDI, Un millimetro in là, 2014, 4).
Proprietà
Intellettuale
Torniamo
infine, dopo questo ampio percorso di digressioni e divagazioni, al cuore del presente
scritto: i rapporti tra la Proprietà Intellettuale e l’Economia della
Conoscenza.
Abbiamo
già accennato al fatto che negli ultimi lustri, parallelamente allo svilupparsi
ed all’evolvere della Economia della Conoscenza, anche il ruolo della Proprietà
Intellettuale si è andato progressivamente facendo più centrale e più
complesso.
Appare
poi appena il caso di ribadire che anche nella società del futuro, come abbiamo
sopra visto, data la funzione cruciale che viene comunque in essa prevista per
i concetti di Cultura e di Conoscenza, la Proprietà Intellettuale rimarrà
presumibilmente un elemento di vitale importanza, sia pure con gli adattamenti
e le evoluzioni del caso.
In
questa sede, peraltro, si vuole concentrare l’attenzione sul ruolo attuale
della Proprietà Intellettuale, nell’ambito della Economia della Conoscenza per
come la stiamo sperimentando in questa nostra epoca.
Ed
appare utile, all’uopo, esaminare innanzitutto come viene oggi comunemente
definito ed interpretato il concetto di Proprietà Intellettuale.
La
Proprietà Intellettuale, si può verificare da una fonte di sicuro prestigio, è
usualmente ritenuta l’“Insieme di diritti legali volti ad assicurare la
tutela delle creazioni della mente umana in campo scientifico,
industriale e artistico” (NICOLLI-RIZZO, Voce: Proprietà Intellettuale,
Treccani. It).
È
stato poi autorevolmente precisato che:
“Con l’espressione tutela della PROPRIETÀ INTELLETTUALE ci
si riferisce all’insieme di diritti, c.d. Intellectual Property Rights (IPR),
di carattere:
- personale, ovvero il diritto morale di essere
riconosciuto autore dell’opera o ideatore della soluzione tecnica o del
marchio, che è un diritto personalissimo ed inalienabile,
- e patrimoniale, connessi allo sfruttamento economico del
risultato della propria attività creativa, che è invece un diritto disponibile
e trasmissibile.
Le opere dell’ingegno umano, per la loro stessa natura e
per le norme che le disciplinano, sono classificabili in tre macro categorie:
-
OPERE DELL’INGEGNO CREATIVO, appartenenti al mondo dell’arte e della cultura
(opere letterarie, organigrammi, schemi organizzativi, spettacoli teatrali e
televisivi, fotografie, quadri, progetti di architettura, ecc.), che trovano
tutela in quel complesso di disposizioni che va sotto il nome di diritto d’autore;
-
SEGNI DISTINTIVI, quali marchio, ditta, insegna, denominazione d’origine, la
cui forma di tutela è la registrazione, in alternativa all’uso di fatto;
-
INNOVAZIONI TECNICHE E DI DESIGN, che hanno ad oggetto invenzioni, modelli
industriali, varietà vegetali, le cui norme regolatrici vengono indicate come
diritto brevettuale”.
(Breve
Guida alla Tutela della Proprietà Industriale, a cura di: Commissione Europea,
MIUR, ILO-Unisco, 2010).
Ancora:
“Con proprietà intellettuale si indica l'apparato di principi giuridici che
mirano a tutelare i frutti dell’inventiva e dell’ingegno umani; sulla base di
questi principi, la legge attribuisce a creatori e inventori un vero e proprio
monopolio nello sfruttamento delle loro creazioni/invenzioni e pone nelle loro
mani alcuni strumenti legali per tutelarsi da eventuali abusi da parte di
soggetti non autorizzati” (Web site WIKIVERSITA’, Voce: Proprietà
Intellettuale).
Particolarmente
interessante è quanto si legge nel sito istituzionale dell’UAMI – Ufficio per
l’Armonizzazione del Mercato Interno, al fine di definire il concetto di Proprietà
Intellettuale:
“Il concetto alla base della proprietà intellettuale (PI) è
semplice ed è presente nella nostra vita da molto tempo. Ovunque andiamo, siamo
circondati da proprietà intellettuale.
Semplici pensieri e idee non sono ancora proprietà
intellettuale: quest’ultima definisce e tutela le innovazioni e le creazioni
umane.
I disegni o modelli specificano l'aspetto dei prodotti.
I marchi indicano l'origine dei prodotti ai consumatori.
Il diritto d'autore copre creazioni artistiche quali libri,
musica, dipinti, sculture e film.
I brevetti tutelano invenzioni tecniche in tutti i campi
della tecnologia.
La proprietà intellettuale ricompensa gli autori delle
innovazioni e consente a tutti di trarre vantaggio dai loro successi”.
La
Proprietà Intellettuale è stata definita anche come l’insieme delle risorse intellettuali
adatte per la protezione legale o commerciale dell’azienda, quali brevetti,
marchi di fabbrica, diritti d’autore, progetti e pratiche commerciali riservate
(GOWERS, Gowers Review of Intellectual Property, HM Tresury, 2006).
La
Proprietà Intellettuale, è stato precisato, comprende i seguenti istituti giuridici:
i brevetti (comprese le nuove varietà vegetali e le topografie di prodotti a
semiconduttori), i segni distintivi, i modelli, il design, il diritto d’autore,
la concorrenza sleale, il know-how e le indicazioni geografiche (Accordi TRIPs;
LUPONE, Gli aspetti della proprietà intellettuale attinenti al commercio internazionale,
Organizzazione Mondiale del Commercio, 113).
Insomma,
alla luce di quanto sopra, appare chiaro che la Proprietà Intellettuale
rappresenta – in buona sostanza – un insieme di strumenti ed istituti giuridici
finalizzati alla tutela del patrimonio conoscitivo dell’azienda.
In
ultima istanza, pertanto, la Proprietà Intellettuale protegge ed incrementa il tasso
di competitività di un’impresa, garantendo alla stessa delle specifiche situazioni
di monopolio, tagliate e caratterizzate a seconda del particolare strumento di
IP in questione.
Da
un punto di vista più istituzionale, la proprietà Intellettuale costituisce un sistema
che assicura una situazione di equilibrio tra i diritti dei singoli e quelli della
collettività: da un lato, tramite i suoi istituti si fornisce stimolo e impulso
alla creatività dei singoli, garantendo ad essi un temporaneo diritto di
monopolio sullo sfruttamento economico delle loro innovazioni e creazioni;
dall’altro lato, si garantisce il diritto della collettività ad usufruire delle
innovazioni e delle creazioni opera del singolo, infine destinate a divenire di
pubblico dominio ed a ricadere nel patrimonio conoscitivo collettivo, grazie al
carattere sempre temporaneo di tali forme di monopolio, istituite in modo da
comunque esaurirsi con il decorso del tempo o con il verificarsi di determinate
condizioni.
|
Emanuela Bergonzoni, Artemisia, Jewel design, 2013
|
I
concetti appena sopra enunciati possono essere considerati sostanzialmente pacifici
e consolidati, ma essi ormai – ad avviso di chi scrive – colgono soltanto una parte
delle funzioni e dei ruoli che la Proprietà Intellettuale può rivestire nelle e
per le imprese.
Infatti,
nel momento in cui i beni immateriali ed il patrimonio conoscitivo assumono in
ambito aziendale una valenza tanto pervasiva e fondamentale, la Proprietà
Intellettuale non può che subire una evoluzione delle proprie funzioni, da
considerare sempre più ampie e diversificate.
In
primo luogo, dato che gli IPRs rappresentano degli intangible asset di primaria
importanza tra i cespiti che costituiscono la ricchezza dell’impresa, la Proprietà
Intellettuale risulta oggi essa stessa una componente di grande rilievo nell’ambito
del patrimonio economico aziendale.
La
Proprietà Intellettuale, conseguentemente, assume un peso specifico mai assunto
in precedenza nell’ambito di tutte le questioni attinenti alla valutazione ed
alla quotazione del valore dell’azienda.
In
secondo luogo, come appare di palmare evidenza, la Proprietà Intellettuale continua
a svolgere il suo tradizionale – e tuttora centrale – ruolo nella promozione e
nella tutela del patrimonio intangibile dell’azienda e del vantaggio competitivo
che da esso le deriva.
I
suoi istituti, con le diverse caratteristiche che li contraddistinguono, hanno nell’ordinamento
proprio la funzione – tra l’altro – di difendere i frutti della creatività e
dell’innovazione.
Il
Brevetto, infatti, garantisce all’impresa una privativa sulle invenzioni
tecniche realizzate nella o grazie all’azienda; il Design tutela le innovazioni
estetiche introdotte nel patrimonio conoscitivo collettivo tramite l’impresa;
il Marchio difende l’esclusiva e la distintività delle suggestioni emozionali
veicolate dall’azienda verso il mercato; il Diritto d’Autore disciplina i
rapporti giuridici inerenti alle creazioni artistiche, tanto sotto il profilo
morale quanto sotto quello patrimoniale.
La
Proprietà Intellettuale, in terzo luogo, può rivestire anche una funzione di primaria
importanza nel favorire nuove ed innovative forme di collegamento e di contaminazione
tra il mondo della Impresa e quello della Cultura, che – come abbiamo visto
sopra – tanto fondamentali potrebbero e dovrebbero essere per lo sviluppo
sociale ed economico, in particolare, del nostro Paese.
La
Proprietà Intellettuale, infatti, costituisce un prezioso e multiforme medium per
mettere in contatto l’universo della Cultura e le dinamiche dell’Economia.
I
vari istituti della Proprietà Intellettuale, da questo punto di vista, possono fungere
da strumenti di connessione ed interazione tra queste diverse ed a volte
apparentemente incompatibili piattaforme.
Il
Brevetto, come pare intuitivo, svolge uno strategico ruolo di collegamento tra il
mondo dell’azienda e gli ambiti della ricerca e dell’innovazione, con stimoli
ed incentivi reciproci; il Design, poi, può essere visto come una sorta di
simbolico ponte, che permette un transito in senso bidirezionale di impulsi e
sollecitazioni, tra l’anima più innovativa dell’azienda e la parte più creativa
della società; il Marchio, a sua volta, costituisce uno strumento vettore di
messaggi informativi e di impulsi emozionali dall’impresa verso la società,
fungendo così da elemento catalizzatore ed al tempo stesso da stimolo promotore
di fenomeni di costume e di tendenza; il Diritto d’Autore, infine, per sua
stessa natura rappresenta uno strumento preposto al collegamento tra l’impresa
ed i creatori di contenuti, divenendo così un terreno di incontro e di
reciproca influenza tra la realtà dell’azienda ed il tessuto culturale
contemporaneo.
In
quarto luogo, nella nostra Economia della Conoscenza, dove il patrimonio aziendale
è costituito in maniera a volte addirittura prevalente da beni immateriali, la
Proprietà Intellettuale assume nell’impresa anche un innovativo ruolo come
elemento di attrazione verso l’azienda di nuove risorse economiche e finanziarie.
La
Proprietà Intellettuale, in altri termini, offre oggi alle aziende – tramite i
suoi istituti – anche dei moderni strumenti per fare in modo che nell’impresa
vengano attratte nuove risorse finanziarie, ovvero per determinare una migliore
valorizzazione del patrimonio aziendale.
Tale
innovativa funzione della Proprietà Intellettuale può trovare espressione secondo
varie forme ed in diversi contesti.
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Carmen Gloria Morales, Dittico, 2000-01
|
Alcuni
istituti bancari, ad esempio, hanno recentemente posto sul mercato dei prodotti
per il finanziamento delle imprese che prevedono quale presupposto di base
proprio la presenza in azienda di diritti di Proprietà Intellettuale.
Inoltre,
il mondo dei business angel e dei venture capitalist, nel valutare i progetti
imprenditoriali sui quali impegnare risorse, particolare rilievo spesso attribuisce
al tasso di innovatività dell’azienda, soprattutto se si verte in materia di
start-up, con conseguente attenzione per i titoli di Proprietà Intellettuale
dei quali il progetto può disporre.
Molte
delle più innovative forme di finanziamento delle imprese dal basso (tra queste,
il crowdfunding, i minibond, etc.), inoltre, hanno la propria ratio di fondo o
importanti forme di incentivazione nella esistenza proprio di un titolo di Proprietà
Intellettuale nell’ambito del patrimonio aziendale.
Nota,
poi, è la cruciale importanza che sovente la Proprietà Intellettuale riveste nelle
operazioni di internazionalizzazione delle imprese – soprattutto nel caso di
PMI – sia sotto il profilo del loro finanziamento sia in termini di possibilità
di penetrazione nei mercati esteri.
Anche
nella fase patologica della vita di un’impresa, infine, il ruolo della Proprietà
Intellettuale può essere economicamente decisivo: nelle procedure concorsuali,
sovente, gli unici cespiti che consentono l’ingresso di liquidità nella massa
fallimentare sono proprio gli IPR.
I
titoli di Proprietà Intellettuale, inoltre, spesso sono le chiavi di volta per determinare
il successo di un processo di risanamento aziendale, in operazioni di
turnaraound o di restructuring.
***
In
estrema sintesi, nella odierna Economia della Conoscenza, la Proprietà Intellettuale
vede un significativo ampliamento ed un interessante sviluppo del suo ruolo
nelle imprese.
È
possibile dire, tentando di operare una difficile schematizzazione riepilogativa,
che la Proprietà Intellettuale attualmente riveste nella vita delle aziende
almeno quattro diversi tipi di valenza, ovviamente spesso tra di loro sovrapponibili
ed interagenti:
•
innanzitutto, una valenza patrimoniale, perché i diritti di Proprietà Intellettuale
costituiscono oggi una importante componente del patrimonio immateriale
dell’azienda;
•
poi, naturalmente, una valenza protettiva, in quanto gli istituti della
Proprietà Intellettuale continuano a svolgere il proprio tradizionale ruolo
nella tutela dei diritti dell’impresa e del suo gradiente di competitività;
•
inoltre, una valenza connettiva, nel senso che gli istituti della
Proprietà Intellettuale fungono spesso da elementi di collegamento tra
l’azienda ed il mondo della cultura e dell’arte;
•
infine, una valenza finanziaria, poiché i diritti di Proprietà
Intellettuale sono anche degli asset che permettono all’impresa di attivare
innovative forme di finanziamento e di valorizzazione del proprio patrimonio aziendale.
Roma, 28 ottobre 2014
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