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di Franca Alaimo
“I
luoghi di Ignazio Apolloni”
“Come”
essere, cioè con quale stile di vita, di parola, nel “Dove” degli spazi fisici,
mentali, culturali, immaginativi è la meta di Ignazio Apolloni.
Ma, di certo, il suo più importante “dove” è la casa di via Trinacria in cui
abita.
L’atto
di entrarvi diventa per ogni ospite non soltanto il modo di appropriarsi di uno
spazio architettonico aperto all’illusorietà delle molteplici prospettive
sollecitate dai colori, dalle immagini, dalle parole che trasformano le pareti in tele e fogli, ma di
praticare una sorta di full-immersion
nella dimensione interiore di Apolloni. Si dirà
banalmente che potrebbe essere sufficiente incontrarlo in carne ed ossa,
sebbene dal guardare al vedere resti quel salto – non così semplice come sembra
– che conduca ad una corretta interpretazione dell’insieme di segnali parlanti
che è il corpo stesso. Ma non tutti sanno fare questo salto; ed Ignazio
facilita il compito ad ogni suo ospite “mostrandogli la sua domus” con la
consapevolezza di fare di quel suo mostrare un dono di veri e propri “monstra”,
cioè, come vuole la derivazione dalla lingua latina, di cose prodigiose e
stupefacenti, che stanno lì a raccontare anche la domus dell’interiorità. Lui,
come scrive Carmen De Stasio, l’autrice del libro,
“anziché contenere i suoi spazi, li cede con un obiettivo: donare alla vista
mentale altrui le connessioni che nel tempo e in spazi diversi abbiano
connotato la sua esperienza di uomo, osservatore, cultore di vite minime e
civiltà” (pag. 28)
Comunque,
è lo stupor la prima sensazione che
si prova varcando la soglia di questa casa: lui, intanto, ne va aprendo le
porte che così si riappropriano per una minuscola frazione temporale della loro
funzione, visto che un momento prima apparivano solo
delle incantevoli finzioni, e che, una volta spalancate, rivelano altre
superfici affrescate, finendo con lo spingere “oltre” la curiosità del
visitatore che potrebbe anche chiedersi se il proprietario che le va aprendo
e chiudendo non sia un personaggio che
stia operando una sorta di magia.
Infatti,
poco a poco, vedendo, leggendo, toccando, ci si accorge di stare vedendo,
leggendo, toccando la dimora interiore di Ignazio. “La dimora, afferma
Alessandro Gaudio, diventa metafora
architettonica della relazione tra coscienza e inconscio (e di ciò che io
stesso non ricordo più)”.
Se
ci si lascia assorbire da questa operazione, la sensazione più forte è quella
di avere superato la realtà per incontrare l’essenza della vita così come la
percepisce Ignazio, che è quella di un’inesauribile
dinamicità. La casa, infatti, moltiplica i punti di vista. E i molti punti
di vista equivalgono a forme del conoscere. Quest’ultime non sono numerabili, né scontate, né
certe. La realtà si frantuma. Ma in questa frantumazione non c’è angoscia. C’è,
invece, l’allegria del chiedere, dell’esplorare, del moltiplicare. C’è un
movimento incessante verso le cose che non vuole risposte definitive (per il
semplice fatto che non esistono), ma oltrepassamenti
dei limiti entro cui, invece, l’uomo comune cerca di contenere la realtà per
assuefarsi ad abitudini mentali, a idee stereotipate che lo aiutino a mettere
ordine nel flusso caotico dell’esistente.
Ma
Ignazio cerca soltanto di amare il caos,
di accoglierlo nelle sue infinite possibilità, includendo in esso l’idea
d’eternità. Non per questo egli abbraccia la disarmonia, anzi; solo che
l’armonia sta per lui nell’accoglienza di una dimensione che si fa stile di
pensiero e di scrittura. Il pensiero elabora contenitori sempre nuovi: la
poesia raccoglie, per esempio, il fumetto, l’aforisma, il ludus
metaforico, la satira, il graffito; la poesia diventa, prima, verbo-visiva, poi
singlossia.
Il
libro stesso si trasforma in un oggetto scultoreo, la cui funzione dinamica consiste nel suo
vuoto riempibile dei materiali più diversi, così come questo libro, che stiamo
presentando oggi, e che si colloca fra saggio, album fotografico, percorso
memoriale-biografico, catalogo artistico.
Il
caos – dicevo –
si fa stile di scrittura, permea i personaggi di Ignazio Apolloni
che crescono per stratificazioni quasi casuali e per molteplici itinerari nella spazialità
geografica e interiore. Ignazio stesso è stato un instancabile globe-trotter e ancora
continua a farlo, anche se da qualche tempo i suoi viaggi più frequenti sono
affidati all’immaginazione, allo studio
di testi dal contenuto più disparato: storia, filosofia, scienza, arte,
linguistica.
Anche
i libri e i disegni, che se ne stanno impilati sulle sedie o sulla scrivania
della casa suggeriscono misteriosi e prossimi scenari di mutamento; si fanno
“perni di coltivazione generativa” ( pag. 40),
concretizzando quel senso dell’attesa
che è pure un altro sentimento che la domus di Ignazio suggerisce; poiché essa
rappresenta un mondo onirico dove quello che è già accaduto non determina il
prosieguo, viaggiando il sogno su percorsi diversi da quelli reali. E questo
sentimento dell'attesa si accende, oltre che nel visitatore, anche nel lettore
dell’autore Ignazio Apolloni, quando insegue trame
che non sono trame, ma disegni zigzaganti, itinerari extra-ordinari e
soprattutto imprevedibili. Il sogno è misterioso e Ignazio è una persona che
avverte la bellezza del mistero.
Le
pitture, i disegni, le elaborazioni grafiche che coprono porte e pareti della
domus di Ignazio (fanno eccezione qualche testo suo e di Vira) sono opere di
molti artisti, tra i quali Sucato, Zito, D’Alessandro,
Salamone, Lambo.
E
allora perché li percepiamo come cose di Ignazio? Probabilmente perché i suoi
amici hanno solo dato corpo visibile ai segni invisibili che il pensiero di
Ignazio scrive continuamente nelle pagine della sua mente. Quei segni adesso
visibili raccontano ciò che era invisibile, mettendo a fuoco una precipua
funzione dell’arte: rendere concreta l’immaterialità. Il pensiero è
immateriale, l’immaginazione lo è, così anche il sogno; e la ricerca
scientifica, si sa, si occupa di ciò che ancora non si conosce, non si può
ancora tradurre in linguaggio, o in una formula (è il tema, in fondo, che
ispira il recente testo di Apolloni intitolato DNA).
Se
questo è, dunque, anche il compito della scrittura, se ne deduce pure che la
casa di Ignazio è una biblioteca molto speciale, nel senso che ogni stanza è un
libro illustrato che a sua volta immette in un’altra stanza-libro secondo un
rimando infinito che fa venire in mente quella biblioteca di cui parlava
Borges, che è un altro dei sogni di Ignazio. E, siccome all’interno di ogni
stanza-libro dimorano dei libri cartacei, si realizza meravigliosa-mente quell’
“Estetica generativa” (che è il
titolo di questo libro d’arte), nel quale viene genialmente condensata una
particolare operazione editoriale.
E,
a questo punto, non si può tacere il lavoro sinergetico di Ignazio Apolloni e di Carmen
De Stasio, autrice del testo, la quale accompagna
il lettore-visitatore della Domus di via Trinacria, come di quella, assai più
piccina, di Isnello attraverso foto, citazioni, riproduzioni di documenti,
lettere, brani di romanzi e saggi,
elaborando nel frattempo una singolare visione di queste “scatole di sogni” che generano altri sogni, con l’intento non solo
di rivelare-svelare l’innamoramento intellettuale di un’operazione estetica
voluta da Ignazio e dalla compagna Vira Fabra, ma
anche di inseguire quel filo che si snoda felicemente tra tutte le espressioni
artistiche, abolendo ogni muro divisorio.
La
prosa della De Stasio costituisce un’aggiuntiva opera
d’arte da appendere, secondo un aforisma di Apolloni, ad un chiodo della domus apolloniana. Essa, così mobile, fantasiosa, colta e vivida,
traccia sulle pagine coloratissime di questo volume le molteplici emozioni e
riflessioni e provocazioni suscitate dalla “visiva cultura” delle domus come anche dei tanti Dove e Vorrei di Ignazio. Ma
raggiunge il tono più leggero ed arioso, forse il più godibile, nel testo
dedicato alla piccola casa di Isnello, favolisticamente raccontata, a partire
dal suo colore crem-caramel, dove i pesciolini (quelli di Sucato) di giorno “volano nel cielo” e
di notte “nel silenzio che domina il riposo ordinato delle pareti (…) si
staccano dal soffitto e ondeggiano per gli spazi ristretti, flessibili, perché
sono fatti di fantasia” e i battelli
(quelli di Salamone)
“solcano mari inventati “ (…) scivolando leggeri e misteriosi sul nero più nero
dell’inchiostro. Così, introdotti da
Carmen, nella casa crem-caramel assistiamo insieme a
lei ad una “trasmutazione di realtà” in cui parole e lettere scrivono un grande
libro fantastico. Il libro di Isnello.
Carmen
indulge spesso, come Ignazio, all’effetto ludico dei colori e delle
elaborazioni grafiche che dissemina nel volume donandogli una sorta di ritmicità visiva, scandita da soste
riassuntive o da evidenziazioni di nuclei tematici o di fantasiose proiezioni
verso successive chiavi interpretative, confermando come la pluridimensionalità
sia la cifra più autentica di una mente creativa, quella che più si approssima
alla qualità della realtà concreta, di cui troppo spesso si sottolinea amaramente
la transitorietà, non cogliendone la duttile vitalità e lo specchio di una più
vasta, inesauribile spazialità e temporalità, in cui sono immersi gli infiniti Mondi che vibrano
nell’Universo senza confini.
A
Ignazio piace molto l’astronomia, perché è la scienza del “viaggio” nell’infinito, quella che mostra un
vuoto non meno abitato del pieno. È il gioco che gioca il mago Apolloni
nella sua dimora coloratissima, dove l’architettura è un sogno, una porta un tappeto
volante, il tetto un
mare virtuale, dove il chiuso si fa l’aperto, il pesante il
leggero. Il passato si astrae in un segno, la memoria si affida a ciò che non
ha peso.
“Verso
su volevo andare. Era un sogno da bambino. Poi però mi dissero che c’era la
forza di gravità e l’atmosfera pesante (…) Ma nessuno mi convinse che questa
forza non si poteva vincere, e che l’uomo non potesse volare libero
nell’infinito”: scriveva decenni addietro Apolloni.
Case che conducono all’infinito sono quella di via Trinacria e quella piccina
di Isnello, così come la casa della scrittura di Ignazio, alla quale pure
Carmen volge densissimamente la sua analisi, ma sulla quale però non intervengo
perché quelle cose che ancora non ne ho detto non potrebbero essere dette meglio
di come fa lei. Concludo tornando sui libri-oggetto prodotti da Ignazio
partendo da quanto egli ne scrisse nel 1988: Liber è un nòmos,
e perciò stesso già designa una parte del mondo. A differenza però di altri
nomi, il libro quel mondo lo contiene e lo preserva dalla disgregazione (…) per
perpetuarne l’immagine, tuttavia bisognerà sempre dare alla parole una forma”.
Un libro totem, allora, da guardare, toccare, venerare; un libro giocattolo da
colorare o da fare esistere come un elemento fiabesco. Ma soprattutto il libro
vivente in cui si è trasformato Ignazio, come lui stesso afferma, e però, si
badi bene, “non aperto”, ma
aristocraticamente “chiuso”, un “volume solido, una scultura che
faccia da monumento al sapere in tutte le sue forme”. Apolloni
definisce, dunque se stesso, come un contenitore di tutto ciò che è possibile
sapere, dire, inventare, sognare, immaginare; una sorta di nuova enciclopedia illuministica, sorretta
come quella da un sogno di felicità, da una volontà di proiezione nel futuro
delle sorti umane; un libro da sfogliare per apprendere le cose minime e la
massime, le cose visibili fuori e quelle celate
dentro e oltre; e però questa
enciclopedia così vivacizzata dall’aggressività sprezzante e demolitrice
dell’ora e del qui, dell’usuale, del tramandato, dei generi, dell’opaco – che
fu propria del Futurismo – fa di Apolloni un futurista
del sempre e del dopo, della
vita-freccia scagliata verso nuovi bersagli e perfino verso gli spazi che non
ne hanno, l’attore della volontà di essere per sapere che dovrebbe appartenere
ad ogni uomo.
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