LETTURE
ANNA MARIA GIANCARLI
      

E cambia passo il tempo. Poesie su L’Aquila

 

Roma, Robin Edizioni, 2014, pp. 81, 10,00

    

      


di Marco Palladini

 

 

“e… cambia passo il tempo / in una dimensione sospesa // e… cambia senso il tempo / mentre ingoia futuro”. Così recita l’incipit del testo eponimo che dà il titolo all’ultima raccolta in versi di Anna Maria Giancarli interamente e ‘drammapoieticamente’ dedicata alla sua città, L’Aquila, devastata dal terremoto del 6 aprile 2009. C’è un tempo prima e un tempo dopo quella lunga scossa di trenta secondi che ha praticamente annientato un centro cittadino onusto di bellezze artistiche, architettoniche, urbanistiche, secoli di storia demoliti in mezzo minuto, a cominciare dal capolavoro della basilica di Santa Maria di Collemaggio: “ore tre e trentadue della vita… / ma come dormivi mentre tutto / proprio tutto / ballava ruotava si dimenava / stringeva urlava sussultava / (…) alle tre e trentadue della vita / la notte ansimava / per un’alba sanguinante / così insensata per tutti / (…) alle tre e trentadue della vita / troppo da capire troppo da sapere…”. Epperò intanto “… qualcuno rideva si compiaceva / s’organizzava considerava / che un evento così / non si ripete di frequente / ignari che / qualcuno aspettava in ombra / e sapeva come girare la ruota / della ferocia e del controllo / su di noi / smontati / pezzo a pezzo…”.

Nella appassionata poesia della Giancarli, dunque, non c’è soltanto l’elegia post-shock, ma anche la precisa coscienza e denuncia della macchina sciacalla della politica corrotta e degli imprenditori mafiosi che già la notte del sisma si telefonavano e si rallegravano pensando a quanto avrebbero lucrato sulla tragedia aquilana. A oltre cinque anni e mezzo dal boato distruttore il centro storico dell’Aquila è ancora perimetrato come ‘zona rossa’ ovvero territorio non abitabile, non-luogo, non-città ove è in corso una problematica ricostruzione che durerà verosimilmente decenni, in mezzo ai puntuali scandali italioti. È in questa situazione di desertificazione urbana e psico-collettiva, che la Giancarli, pure lei terremotata, ha a lungo atteso prima di ritrovare il senso e l’energia della sua scrittura: “da tempo cerco una voce / giusta robusta/vox mea / che dia fiato alla parola / nemica anemica sola / senza ossa né nervi / un voce orchestrata / in do maggiore / per musicare la mia città / (…) Cerco da tempo la mia voce / che batte dentro allarmata / da cupo silenzio oscurata”.

Il lungo impegno per ritrovare la propria voce poetica è stata la prima fondamentale azione per reagire allo stato di mutismo e di impotenza creati dall’evento cataclismatico, a quel silenzio di morte che grava tuttora sull’Aquila che, nelle belle fotografie di Luca Bucci che corredano il volumetto, appare imprigionata da una ragnatela di tubi innocenti, puntellata da strutture che fanno la guardia alle rovine, sormontata da una selva di gru che svettano su palazzi gravemente lesionati e su cumuli di macerie. Rivendica, però, con orgoglio la Giancarli: “questa è una nuda poesia / con saldi punti di riferimento / col suo fermo orientamento / questa poesia non è un lamento”.

Nessuna sterile geremiade, pertanto, ma semmai il grande, infinito affetto per L’Aquila e la sua cospicua “ricchezza identitaria”. Ciò che le fa scrivere: “Tra le mani la mia città / me la sono giocata, così, / trastullata, in vertigine / semipoetica inabissata / (…) Tra gli amori la mia città / l’ho declinata in tutti i casi / e coniugata in tutti i modi / l’ho trasfigurata, ornata / ridisegnata e immaginata”. È bello, mi sembra, questo passaggio dove la forza della visione poetica riesce per l’appunto a trasfigurare ciò che è stato sfigurato dal ciclonico sisma. C’è in questo canto di amore e dolore per L’Aquila (“ora uccello città senz’ali”) la voglia di non rassegnarsi, di ripartire, di rialzarsi dopo il k.o., di ricominciare a vivere e a sperare. Così, nel poemetto terminale costruito a mo’ di duetto tragico, col dialogo di un Coro e di una voce/città, traspaiono toni e accenti di slancio positivo, di fede comunque in un futuro riscatto: “Ma ancora voi / nella fine / scorgete il principio / di nuove fasi / di scenari pervasi / di nuovi modi / e luoghi. / Imago di memoria / nel mutar vita / veloce solcherò i cieli / della stasi / con ribellione / inventerò ogni soluzione. / Mi vestirò d’oro e seta / per questa doverosa meta”.

È una poesia civile che non si arrende questa di Anna Maria Giancarli, poesia di resistenza morale e culturale che alza vibrante la sua voce versus la leopardiana matrigna natura, tanto quanto le ignominie della politica politicante e delle mafie predatrici. Poesia che testimonia di un tempo lungo che ha dovuto cambiare passo e mutare di senso, ma che non deflette dalla sua rotta, nella convinzione che la civiltà dell’Italia migliore alla fine, in qualche modo prevarrà sull’inciviltà presente. Nella convinzione che L’Aquila, a tutti i costi, risorgerà dall’abisso di buio, di tremore, di sperdimento in cui è precipitata oggi.

                    

 

 




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