|
di Marco Palladini
“e… cambia passo il tempo / in una dimensione sospesa // e…
cambia senso il tempo / mentre ingoia futuro”. Così recita l’incipit del testo
eponimo che dà il titolo all’ultima raccolta in versi di Anna Maria Giancarli
interamente e ‘drammapoieticamente’ dedicata alla sua città, L’Aquila,
devastata dal terremoto del 6 aprile 2009. C’è un tempo prima e un tempo dopo
quella lunga scossa di trenta secondi che ha praticamente annientato un centro
cittadino onusto di bellezze artistiche, architettoniche, urbanistiche, secoli
di storia demoliti in mezzo minuto, a cominciare dal capolavoro della basilica
di Santa Maria di Collemaggio: “ore tre e trentadue della vita… / ma come
dormivi mentre tutto / proprio tutto / ballava ruotava si dimenava / stringeva
urlava sussultava / (…) alle tre e trentadue della vita / la notte ansimava /
per un’alba sanguinante / così insensata per tutti / (…) alle tre e trentadue
della vita / troppo da capire troppo da sapere…”. Epperò intanto “… qualcuno
rideva si compiaceva / s’organizzava considerava / che un evento così / non si
ripete di frequente / ignari che / qualcuno aspettava in ombra / e sapeva come
girare la ruota / della ferocia e del controllo / su di noi / smontati / pezzo
a pezzo…”.
Nella appassionata poesia della Giancarli, dunque, non c’è
soltanto l’elegia post-shock, ma anche la precisa coscienza e denuncia della
macchina sciacalla della politica corrotta e degli imprenditori mafiosi che già
la notte del sisma si telefonavano e si rallegravano pensando a quanto
avrebbero lucrato sulla tragedia aquilana. A oltre cinque anni e mezzo dal
boato distruttore il centro storico dell’Aquila è ancora perimetrato come ‘zona
rossa’ ovvero territorio non abitabile, non-luogo, non-città ove è in corso una
problematica ricostruzione che durerà verosimilmente decenni, in mezzo ai
puntuali scandali italioti. È in questa situazione di desertificazione urbana e
psico-collettiva, che la Giancarli, pure lei terremotata, ha a lungo atteso
prima di ritrovare il senso e l’energia della sua scrittura: “da tempo cerco
una voce / giusta robusta/vox mea / che dia fiato alla parola / nemica anemica
sola / senza ossa né nervi / un voce orchestrata / in do maggiore / per
musicare la mia città / (…) Cerco da tempo la mia voce / che batte dentro
allarmata / da cupo silenzio oscurata”.
Il lungo impegno per ritrovare la propria voce poetica è
stata la prima fondamentale azione per reagire allo stato di mutismo e di
impotenza creati dall’evento cataclismatico, a quel silenzio di morte che grava
tuttora sull’Aquila che, nelle belle fotografie di Luca Bucci che corredano il
volumetto, appare imprigionata da una ragnatela di tubi innocenti, puntellata
da strutture che fanno la guardia alle rovine, sormontata da una selva di gru
che svettano su palazzi gravemente lesionati e su cumuli di macerie. Rivendica,
però, con orgoglio la Giancarli: “questa è una nuda poesia / con saldi punti di
riferimento / col suo fermo orientamento / questa poesia non è un lamento”.
Nessuna sterile geremiade, pertanto, ma semmai il grande,
infinito affetto per L’Aquila e la sua cospicua “ricchezza identitaria”. Ciò
che le fa scrivere: “Tra le mani la mia città / me la sono giocata, così, / trastullata,
in vertigine / semipoetica inabissata / (…) Tra gli amori la mia città / l’ho
declinata in tutti i casi / e coniugata in tutti i modi / l’ho trasfigurata,
ornata / ridisegnata e immaginata”. È bello, mi sembra, questo passaggio dove
la forza della visione poetica riesce per l’appunto a trasfigurare ciò che è
stato sfigurato dal ciclonico sisma. C’è in questo canto di amore e dolore per
L’Aquila (“ora uccello città senz’ali”) la voglia di non rassegnarsi, di ripartire,
di rialzarsi dopo il k.o., di ricominciare a vivere e a sperare. Così, nel
poemetto terminale costruito a mo’ di duetto tragico, col dialogo di un Coro e
di una voce/città, traspaiono toni e accenti di slancio positivo, di fede
comunque in un futuro riscatto: “Ma
ancora voi / nella fine / scorgete il principio / di nuove fasi / di scenari
pervasi / di nuovi modi / e luoghi. / Imago di memoria / nel mutar vita /
veloce solcherò i cieli / della stasi / con ribellione / inventerò ogni
soluzione. / Mi vestirò d’oro e seta / per questa doverosa meta”.
È una poesia civile che non si arrende questa di Anna Maria
Giancarli, poesia di resistenza morale e culturale che alza vibrante la sua
voce versus la leopardiana matrigna natura, tanto quanto le ignominie della
politica politicante e delle mafie predatrici. Poesia che testimonia di un
tempo lungo che ha dovuto cambiare passo e mutare di senso, ma che non deflette
dalla sua rotta, nella convinzione che la civiltà dell’Italia migliore alla
fine, in qualche modo prevarrà sull’inciviltà presente. Nella convinzione che
L’Aquila, a tutti i costi, risorgerà dall’abisso di buio, di tremore, di sperdimento
in cui è precipitata oggi.
Scarica in formato pdf
|
|