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di Sergio D’Amaro
Ipermodernità,
una parola per dire realtà
Per chi non ha
fatto in tempo ad assimilare obiettivi e percorsi della cultura e, in
particolare, della letteratura postmoderna, si presenta la necessità di
aggiornarsi su un concetto che si sintetizza nella parola “ipermodernità”. Si
tratta di un altro volto della modernità, condotta dai primi anni del Duemila a
sintonizzarsi più strettamente con una società che si specchia nei media e
sembra o è costretta ad accettare la sfida di un continuo, snervante reality show.
Recenti opere
narrative di autori emersi alla luce della notorietà hanno stimolato
l’italianista dell’Università di Pisa Raffaele Donnarumma ad intitolare il suo
ultimo libro proprio in quel senso, Ipermodernità.
Dove va la narrativa contemporanea. È un libro coraggioso, perché
dichiaratamente militante e coinvolto appieno nel presente di un divenire
progressivo della realtà. Donnarumma si affida a sintomi (come lui stesso
dichiara), sceglie delle opere per lui rappresentative, indaga con vibrante
partecipazione sulle spie del ‘Nuovo che avanza’ e che in effetti incombe con
tutta la sua capacità seduttiva.
L’epoca che
precede quella presa in visione da Donnarumma sta tra anni ’60 e anni ’90, più
o meno tagliata alle loro rispettive metà. È l’età del Postmoderno, compresa
tra la Neoavanguardia
e la dissipazione tondelliana, con punte acuminate che si chiamano Arbasino,
Manganelli, Calvino, Eco, Celati. Corrisponde in arte alla teorizzata
‘transavanguardia’ di Bonito Oliva imperniata su di una destrutturazione
nichilistica e manieristica del moderno, lontana mille miglia dal romanzo
tradizionale umanistico-borghese. Il postmoderno italiano è più un esorcismo
della storia, una sostanziale sfiducia nel reale diventato ‘finto’, svuotato,
ironizzato, estetizzante, una ‘modernità andata a male’ come dice con sarcasmo
Berardinelli.
Da una ventina
di anni a questa parte il quadro cambia. Se la realtà sembrava svaporata,
eclissata nell’impossibilità di riacquistare un proprio spessore e una
necessaria profondità, ora il rischio di una frattura irreversibile con un sé
televisizzato e appiattito sulla fragile consistenza di un desktop chiama a
nuove forme, a nuovi esperimenti di racconto. L’oggetto di questi racconti
abita ormai nella dimensione dell’ipermodernità, cioè di un’ulteriore
incarnazione della modernità diventata iperbolica, eccessiva, ipertrofica,
gonfia di specchi deformanti e di schermi vanificanti: troppa capacità di
visione che finisce per seppellire la visione di ciò che è essenziale all’uomo
come ‘animale etico’.
Per Donnarumma
si sta attuando un ritorno alla realtà, e l’ipermoderno è un ritorno al Moderno
ma senza più alcuna speranza di rivoluzione. È lo stesso messaggio consegnato
dai libri di Walter Siti (Premio Strega 2013), Antonio Moresco e Gabriele
Frasca, che insieme a pochi altri (Trevi, Albinati, Arminio ecc.) proseguono
sulla strada dell’autofiction, dell’epica, del saggismo finzionale, del personal essay. È in queste opere che si
nota una rinnovata tensione verso la responsabilità etica, l’attivismo
ecologico, la solidarietà, le migrazioni, con puntate su altri temi latamente
sociali ed evidenti trasformazioni antropologiche. La letteratura ipermoderna
in Italia si avvale, insomma, di una mescolanza fiction/non fiction (di origine
e mentalità intermediale), ripercorrendo in realtà strade già solcate alla
lontana da Svevo o dai due Levi e Pasolini, e culminate all’altro capo in Gomorra di Roberto Saviano. In quest’ultimo Donnarumma rintraccia
un realismo “che presuppone consapevolmente un patto di lettura basato su una
volontà etica di comprensione e di intervento”. Siamo, a dirla breve, ad una
letteratura che si riappropria (con posture di tipo mediale e con accorgimenti
teatrali) della realtà finora lasciata alle colonne dei giornali. È un
tentativo di cambiare la realtà, di ricercare la verità, di lanciare un
messaggio morale nella precarietà e nella caoticità di comunicazioni incrociate
e apparentemente equivalenti.
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