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di Marco Codebò
Già autore di romanzi insidiosi (Lampi orizzontali, Tempesta), in Figura di schiena Luigi Grazioli trasporta la sua scrittura nella saggistica.
Figura di schiena è una meditazione
sulla presenza di personaggi raffigurati di spalle nella pittura fra il tardo
Medio Evo e la prima Età Moderna, con particolare interesse al periodo compreso
fra il Quattrocento ed il Seicento nelle aree fiamminga e olandese. Carattere
essenziale delle figure analizzate da Grazioli è che nascondano i tratti del
volto, in una parola la loro indecifrabilità. La presenza di tale tratto è la
ragione per cui la discussione si ferma sulle soglie del Romanticismo
escludendo, ad esempio, Friedrich: qui i personaggi, anche se di schiena,
vengono però decifrati dal paesaggio che è oggetto della loro contemplazione.
Dal punto di vista della storia del pensiero estetico, la
presenza di figure di schiena durante il Rinascimento inserisce una visibile
contraddizione nell’allora prevalente teoria albertiana della pittura, che in
nome di un approccio scenico allo spazio prescriveva la visibilità di tutti gli
oggetti della rappresentazione. Si spiega così la maggior diffusione di figure
di schiena nelle opere realizzate da pittori dell’Europa settentrionale, dove
il pensiero di Leon Battista Alberti esercitava un influsso minore che
nell’area latina.
Grazioli fonda il suo saggio su una notevole erudizione: lo
studio prende in esame una vasta gamma di fonti secondarie, fra le quali spiccano
per importanza Agamben, Arasse, Stoichita e Todorov, e si sofferma su 92 opere pittoriche, dal Compianto sul Cristo morto di Giotto (1304-06) a L’enseigne
de Gersaint (1720) di Watteau; punti forti della riflessione sono l’analisi
della Madonna del cancelliere Rolin
(1435) di Van Eyck e soprattutto dell’Atelier
(1666 circa) di Vermeer, quadro verso cui confluiscono tutti i fili del
discorso di Grazioli.
In estrema sintesi, ciò che attira Grazioli nella figura di
schiena e che la rende meritevole di analisi è la sua capacità di perturbare,
scombinare, manomettere. Il problema della figura di schiena è che non ti
lascia vedere quello che lei guarda. Nel momento in cui ti segnala qualcosa, (ciò
che lei sta probabilmente osservando) che potrebbe diventare oggetto del tuo
sguardo, gli fa anche da schermo, così da mettere in moto un’esperienza alla
Tantalo, con tu spettatore attanagliato da una fame di vedere inestinguibile
per definizione. Non contenta, la figura di schiena è anche portatrice di
cattivo esempio, in quanto simbolo di ciò che non si deve fare, del
comportamento asociale. A lei non importa nulla degli altri: mentre gli sguardi
di tutti confluiscono sulla scena comune, la figura di schiena se ne
disinteressa completamente e gira le spalle per farsi gli affari propri. In
più, sfugge alle categorie con cui tutti classifichiamo e apprendiamo il mondo:
non mostra i tratti del volto e così facendo non permette la propria identificazione
come individuo. Ma proprio perché è un non-individuo, paradossalmente, finisce
per essere più unica di qualsiasi individuo, visto che è la sola a non
possedere il tratto comune dell’individualità. In coerenza con tale
singolarità, la figura di schiena diventa l’elemento anarchico del dipinto: inserita
nell’ordine armonioso della rappresentazione, lo rifiuta e se ne va, con un gesto
secessionista che non prevede future riconciliazioni.
I tratti appena delineati fanno sì che la figura di schiena
si configuri come promessa di apertura. Irrealizzabile promessa, è chiaro,
perché nella sua sfuggevolezza la figura di schiena non ci consentirà mai di
raggiungerla e di verificare il passaggio dal promettere al realizzare.
L’apertura, insomma, dà inizio a un gioco di rinvii illimitati in cui lo spazio
di discorso che si intravvede al di là della schiena si slarga all’infinito
senza possibilità di chiusura. Ma se le
cose stanno così, allora, come si fa a parlarne della figura di schiena?
Qualsiasi analisi se ne faccia si finirà sempre per intoppare davanti ad un
margine oscuro, su cui si potrà tornare quanto si vuole senza mai però venirne
a capo. Il che appare perfettamente logico, perché se della figura di schiena
si potesse dire tutto, allora sarebbe una figura di fronte.
Da un simile giro vizioso non si può uscire. Ci si può però
entrare dentro e sperare di cavarsela se si adotta una scrittura come quella di
Grazioli: mobile, sdrucciolevole, avvinghiante. Figura di schiena procede attraverso una serie di spirali
discorsive comunicanti che rilanciano la speculazione senza mai arrestarla in
un punto. Si tratta, appunto, di una scrittura di schiena, nel senso che a
leggerla uno le corre dietro a perdifiato, ma lei gli sta sempre davanti ironica
e irraggiungibile.
Non è una presa in giro però. Alcuni punti solidi alla fine
emergono. La gigantesca figura di Vermeer, per cominciare: Grazioli lo colloca
alla fine di un intero ciclo dell’evoluzione della pittura come attività
sociale (da prestazione subordinata di mano d’opera ad arte che innalza i suoi
adepti, Rubens, Van Dick, Velázquez, all’altezza dei potenti della terra). Nel
contesto della sua epoca Vermeer è l’artista che fa secessione, passa la vita
in un angolo della provincia olandese e quando decide di mostrarsi lo fa dando la
schiena al mondo. Il doppio ruolo, poi, che la figura di schiena gioca nei
confronti della visione dello spettatore e di quella del pittore. Per il primo
la figura di schiena rappresenta l’inciampo che segnala il limite
dell’interpretazione e gli suggerisce di abbandonarsi all’avventura della
speculazione. Per il pittore, infine, la figura di schiena è un antidoto
all’orgoglio. È l’indizio di cecità che ogni visione, anche la più acuta e profonda,
di necessità contiene: insegnamento che vale anche per l’autore di Figura di schiena nonché, ancor di più,
per il suo recensore.
http://www.doppiozero.com/libro/figura-di-schiena
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