di Jacqueline Spaccini *
Prenderò qui in
considerazione due favole italiane i cui personaggi femminili sono nell’una la
celeberrima Fata dai capelli turchini e nell’altra un’ignota principessina
orfana e regnante: sto parlando di Pinocchio (1881) di Carlo Lorenzini
detto Collodi[1]
e de La Principessa Sabbiadoro (2007) di Barbara Pumhösel[2]. Al centro di
quest’articolo porrò l’immagine femminile che ci consegnano le due opere.
La prima domanda
che si è posta per chi scrive è comprendere se la fata e la principessa
rappresentino due donne (benché immaginate) diverse, antitetiche, o se non si
tratti piuttosto di uno stesso prototipo femminile sotto altre sembianze. Per
esaminare approfonditamente la ricerca sul ruolo svolto da questi due
personaggi, occorre tuttavia tenere a mente che la prima favola è stata scritta
da un uomo sul finire del XIX secolo e la seconda da una donna del XXI secolo.
La Fata
Turchina
In Pinocchio,
la Fata Turchina fa la sua prima apparizione al capitolo quindicesimo, ovvero a
metà di un’opera che di capitoli ne conta trentasei. Non è ancora la donna
affascinante di cui si sovvengono i bimbi (e non solo loro) di tutto il mondo,
bensì una bella bambina «coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine
di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto»[3]. Che cosa è accaduto?
Giunto al limitar del bosco, braccato dal Gatto e la Volpe, Pinocchio vede una
casa bianca e una bimba alla finestra. La supplica di aiutarlo a sfuggire ai
suoi inseguitori, ma la bimba gli risponde che è impossibile, giacché è morta.
Gli «assassini» agguantano allora il burattino, il quale morirà impiccato a un
ramo della Grande Quercia. Fine. Terminava così questo racconto, pubblicato per
la prima volta nel 1881, nelle pagine del Giornale per i bambini. Una
favola triste, senza capo né coda, questa storia di un burattino senza fili,
marionetta senza marionettista, sorto da un pezzo di legno e divenuto un
burattino[4] intelligente e parlante
grazie all’abilità del falegname-padre Geppetto nonché, beninteso, a un
sortilegio benigno.
Sennonché
all’indomani della pubblicazione, i lettori scrissero al giornale per chiederne
il séguito, non volendo accettare l’epilogo brutale e illogico (si può far
morire per impiccagione una creaturina di legno?) di un racconto dalla lettura
così seducente. È dunque assai probabile che all’inizio Collodi non pensasse a
una fata e che fu in certo qual modo obbligato a introdurre un elemento
«fantastico» (l’escamotage dell’origine
magica) in grado di giustificare la rinascita della bella bambina.
La
incontreremo nuovamente nei capitoli successivi, ma cambiata, cosa inusuale per
una fata. In effetti, Collodi ha fatto crescere la sua fata: dal suo statuto di
bimba morta tout court, passa a quello di Buona Fata[5] nel capitolo sedicesimo e
di ragazza nell’illustrazione originale di Carlo Chiostri.
Dopo alcune
vicissitudini, nel capitolo ventitreesimo, apprendiamo che la Fata è morta (di
nuovo); al posto della sua bianca casetta, il nostro burattino trova una lastra
tombale in marmo che recita: «QUI GIACE LA BAMBINA DAI CAPELLI TURCHINI MORTA
DI DOLORE PER ESSERE STATA ABBANDONATA DAL SUO FRATELLINO PINOCCHIO». Fuori da
ogni regola, questa fata italiana muore spesso e si eleva ora al rango di
sorella maggiore per il suo protetto. Ma di già nel capitolo ventiquattresimo,
Pinocchio ritrova la sua Buona Fata con nuove sembianze: ora è una giovane
donna che lo accoglie in casa. Non solo: dopo aver invano negato di essere la
Fata Turchina, confessando la sua identità, cambia ancora di statuto: «Mi
lasciasti bambina, e ora mi ritrovi donna; tanto donna, che potrei quasi farti
da mamma». Mamma, non più sorella. Mamma, molto più che sorella.
E in quel momento
tra i due un patto è sigillato: se Pinocchio si comporterà bene, diventerà un
ragazzino in carne e ossa. Lei pure s’impegna a essere molto più che una madrina:
«io sarò la tua mamma», ma «tu mi ubbidirai e farai sempre quello che ti dirò
io», intima a Pinocchio la futura madre dispotica e dominatrice.
Negli ulteriori
incontri, tornerà nelle sembianze prima di una bella signora, poi di una capra
turchina; finché al burattino sarà detto che la sua Buona Fata giace in fondo a
un letto d’ospedale, disperata e indigente. Pinocchio la rivedrà un’ultima
volta, ma in sogno, bellissima e sorridente, fiera del suo burattino. Poi
sparirà per sempre: a incaricarsi dell’educazione sentimentale del figlio –
burattino ormai uomo – sarà il padre Geppetto.
Collodi deroga
alle norme fiabesche: in principio, una fata è sempre uguale a sé stessa: non
cresce, non muore. Spesso, possiede un paio d’ali per volare; di taglia minuscola,
vive generalmente nei boschi in comunità insieme con le altre consimili. Una
fata non si sposa e non può avere figli. Oltre a quelle che vivono nei boschi e
che sono una versione femminile di elfi e di folletti, esistono due sorte di
fate: la Fata Madrina e la Fata Amante. Nella letteratura e filmografia
moderna, ritroviamo le Fate Madrine che intervengono nella vita del loro
protetto per aiutarlo a compiere il suo destino: la Buona Fata di Cenerentola
e le tre Fate Madrine volanti ne La Bella addormentata nel bosco ne
sono la prova.
Per
quanto concerne la Fata di Pinocchio, non posso fare a meno di evocare le
molteplici versioni che si sovrappongono nel nostro immaginario dalla seconda
metà del XIX secolo, dalle illustrazioni originali, ma non le prime in
assoluto, di Carlo Chiostri[6] (1901), al film di
animazione di Walt Disney (1940); dal film TV di Luigi Comencini (1972, in cui
la Fata è incarnata da Gina Lollobrigida) al recente lungometraggio di Roberto
Benigni (Pinocchio, 2010, in
cui Nicoletta Braschi, consorte del regista-interprete, incarna la Fata).
Quali connotazioni
la differenziano dall’originale e quali dati restano (eventualmente) inalterati
in tutte le versioni? Per il libro s’è detto. Il fatto è che spesso la
conoscenza della storia creata da Collodi passa per il film americano di
Disney, diffuso dopo il 1940; possiamo definirlo ormai un «classico» per il
mondo intero. Ma la sua fata ha perso il colore blu dei capelli; è una bionda
fanciulla e il blu – anzi, l’azzurro – si è trasferito all’abito. Il turchino
corrisponde a un blu cupo[7], ma chi lo sa più? A dire
il vero, ci si è anche interrogati sulla motivazione del colore: perché Collodi
dà alla fata un tratto così particolare? Varie ipotesi sono state formulate
fino a oggi, ma nessuna pare probante: la più accreditata indicherebbe nella
simbologia di suddetto colore la manifestazione dell’appartenenza dell’autore
alla massoneria. Ma non risiede qui il
nostro interesse: ci piace rilevare come tale colore (che di volta in volta
vira da blu chiaro, blu scuro a viola) e che dà un attributo d’eccezione alla
fata collodiana è un elemento trascurato – e anzi, cancellato – dalla
filmografia hollywoodiana e invece conservato ed esaltato dai cineasti
italiani. Per ordine di tempo, dopo il film di Disney fa seguito, è la volta –
trent’anni dopo – dello sceneggiato in cinque puntate di Comencini, diffuso
dalla TV italiana nel 1972. Girato tra l’alto Lazio e la Toscana, se si fa
eccezione per l’ottimo Andrea Balestri, il bimbo toscano che interpreta il
ruolo di Pinocchio (qui, quasi sempre umano), il film conta una serie di attori
popolarissimi del cinema prestati al piccolo schermo, quali: Nino Manfredi
(Geppetto), la coppia di comici Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (il Gatto e
la Volpe), il regista Vittorio De Sica (il Giudice), gli attori Lionel Stander
(Mangiafuoco), Mario Adorf (il direttore del circo), ma soprattutto (e sopra a
tutti) Gina Lollobrigida nel ruolo della Fata Turchina.

Orbene,
proprio nella scelta di tale attrice, non è possibile pensare che per incarnare
una fata quasi mamma, Luigi Comencini abbia «innocentemente» scelto la
diva per eccellenza, colei che all’epoca rappresentava la donna ideale e
insieme il prototipo della sensualità femminile nell’immaginario maschile italiano
e mondiale. Infatti, la sua Fata evoca il lato ambiguo (e ammaliante)
delle fate che sono anche maghe – alla stregua di una Viviana, Morgana e della
loro madre ancestrale: Circe. Il colore eccentrico dei capelli lo indica: non è
umana[8]. In nessun momento, Gina
Lollobrigida dà l’impressione di poter diventare per davvero una mamma.
Sostiene Roberto Benigni che Carlo Emilio Gadda, uno dei maggiori romanzieri
del Novecento, ebbe a dire che «La Fata è il più grande mito femminile del XIX
secolo. È la mitezza, la benignità, il distacco»[9]. Tanto mite non è: la
Buona Fata si mostra spesso molto severa verso Pinocchio, poi lo perdona
sempre, ma lo fa soffrire prima di assolverlo, come in una versione asessuata
della ballata La Belle Dame sans merci (1819) di John Keats.
La relazione è
discontinua: la Fata è la sorella o la mamma di Pinocchio? Nel suo film,
Benigni sceglie una terza interpretazione. Coi lineamenti di un quarantenne,
interpreta lui stesso il ruolo di un Pinocchio dal cuore di bimbo, e per il
ruolo della Fata Turchina chiama sua moglie, Nicoletta Braschi. I capelli si
fanno di un azzurro intenso, blu oceano, ma tra i due non c’è un rapporto che
assomigli a quello che unisce una madre al proprio figlio, sia pure potenziale,
ma semmai a quello tra due innamorati. A ogni buon conto, è la storia di una
coppia che amoreggia in modo allusivo per tutta la durata del film.
Ecco di seguito un
diagramma[10]
che mostra le filiazioni intuitive tra maghe, fate, ninfe e streghe tra quelle
più note a popolar il nostro immaginario collettivo sociale:

La
Principessa Sabbiadoro
Prima di
accostarci alla storia del personaggio creato da Barbara Pumhösel e di
comparare la sua eroina con la Fata di Pinocchio, facciamo il punto sulle
favole con protagoniste le principesse. Allorquando si evoca una principessa,
la prima cosa che viene in mente è che le favole rigurgitano di principi e
principesse. In genere, le favole d’amore sono (debbono essere) percorsi a
ostacoli tra giovani rampolli della nobiltà o loro pari: una principessa e un
eroe, una principessa e un guerriero... difficilmente (pacta sunt servanda)
la corrente passa tra una principessa e un povero cristo. Persino il rivoltante
rospo dello stagno si rivela essere un principe sotto incantesimo; ugualmente
la Bestia [de La Bella e la Bestia] è un bel principe punito a causa
della sua arroganza e il cui corpo, evidenziando la bruttezza dell’anima, fa di
lui una sorta di Dorian Gray alla rovescia. Ma Bella non è una principessa. E
nemmeno Cenerentola è nata tale.
In definitiva,
nell’immaginario collettivo (italiano), le principesse non sono poi così
numerose e oltretutto sono tutte «importate»: Biancaneve (Grimm, Germania),
Rosaspina (Perrault, Francia), la Principessa sul pisello (Andersen,
Danimarca); quella alla quale si pensa subito, è Rosaspina, meglio conosciuta
sotto il sintagma La bella addormentata nel bosco (ma anche Aurora, sempre via Disney). Grazie a un
sortilegio che la fa addormentare per cento anni, nella storia di questa
principessa si concretizza simbolicamente un fantasma sessuale: la fanciulla
non fa nulla, il principe la risveglia e la fa rinascere al mondo. Lei è
l’oggetto – immacolato – dell’amore di lui.
In realtà, le cose
si svolgono diversamente nel racconto originale. Di già nella versione di
Charles Perrault (1696), si fa allusione a una certa «fretta comune» (hâte
commune) da parte dei due giovani; dopo quattro ore passate a parlarsi, si
sposano il giorno stesso del risveglio della principessa, all’approssimarsi
della notte: «dormirono poco, la principessa non ne aveva granché bisogno»[11]. In capo a due anni,
hanno già due figli e pur tuttavia vivono ancora nella clandestinità. La favola
non è così innocente come raccontano le trascrizioni filmiche alla Disney (Sleeping
Beauty,
1959) destinate ai bimbi.
Tuttavia
l’originale è italiano: il racconto è stato scritto da Giambattista Basile nel
1634, Rosaspina (traduzione del tedesco Dornröschen) si chiama in realtà
Talia. Una profezia (non una fata cattiva) fatta a suo padre dice che la
principessa morirà a causa di una scheggia di legno, filando il lino[12]. Tutto avviene come
previsto. Dopo un po’ di tempo (fuori questione far trascorrere cento anni), un
Re arriva al castello, la vede addormentata, s’invaghisce di lei, la prende fra
le braccia e la porta «su un letto dove co[gli]e il frutto del suo amore»[13]. Dopodiché se ne torna
nel suo regno, dimenticando quel che ha commesso. Uno stupro silenzioso.
Da questo rapporto
non consensuale nascono due gemelli che risvegliano la madre dal suo sonno incantato.
Frattanto, ricordando quanto ha fatto, il Re torna e racconta tutto alla
ragazza madre... quasi tutto. Trascura di dire che lui, il re, è già maritato,
ma giacché è Re, invita Talia a vivere in casa sua con i due gemellini. La
moglie gelosa vorrebbe far bruciare l’amante di suo marito insieme con la
progenie, ma non vi riesce. Per colmo di sfortuna, sarà lei a bruciare nel
fuoco preparato per Talia. La storia si accomiata dal lettore con il matrimonio
dei due piccioncini. Qual è la morale? L’uomo può tutto. Nel film Disney la
cattiva è la Fata che ha fatto addormentare Aurora (la Bella addormentata nel
bosco); in Perrault, è la matrigna della principessa; in Basile, la sposa del
Re fedifrago. A ogni buon conto, la cattiva è sempre una donna.
La lunga
digressione narrativa permette di fare meglio il punto sulla tradizionale
attitudine di una principessa: lei è la quintessenza della nobiltà
inaccessibile ne La principessa sul pisello, l’ingenua innocenza in Biancaneve
se non una specie di bambola ne La Bella addormentata nel bosco,
oggetto concupito di cui chiunque potrebbe disporre.
La principessa
Sabbiadoro è diversa, seppur sempre principessa ma vedremo più avanti. Pumhösel
ha scritto parecchie favole, perlopiù pedagogiche, che seguono gli insegnamenti
di Gianni Rodari, premio Hans Christian Andersen nel 1970.

Autore e teorico
di letteratura per l’infanzia, lo scrittore novarese era contro quelle favole
che abbiano intenzioni a) normative (comportati come si deve); b)
dottrinali (impara che), c) fataliste (così va il mondo, non
dimenticarlo). E in effetti, il tono di una favola è spesso sermoneggiante
o intimidatorio. Rodari inaugura una quarta via, quella che intraprenderanno
gli autori di storie moderne: la favola educativa senza essere pedante; storie
divertenti, realistiche (o aventi un fondo di realtà); insomma, favole che non
vogliono essere edificanti né moralizzatrici.
Ma se Barbara
Pumhösel s’iscrive come detto nel solco rodariano, perché ancora una
principessa? Due sono le idee direttrici che tiene bene in mente: raccontare la
storia dello specchio di vetro e proporre un’immagine autonoma del personaggio
femminile. Lo specchio di vetro è stato inventato in Italia, a Venezia, nel XIV
secolo: la protagonista non poteva che essere una principessa. L’associazione
logica (per quanto stereotipata) esigerebbe specchio + principessa = oggetto di
vanità, donna che vi riflette la propria immagine sciocca e/o vanitosa (basti
rammentare la regina Crimilde, la strega matrigna di Biancaneve). E invece no,
la giovane principessa non pensa minimamente a rimirarsi nello specchio, ma
veniamo alla trama di questa favola.
Dalla più tenera
età, Sabbiadoro ama trascorrere il suo tempo costruendo castelli di sabbia,
come amano fare tutti i bimbi del mondo che giochino su di una spiaggia. Sua
madre avrebbe voluto essere marinaio ma nella vita o si è regina o si è uomo di
mare; poiché la mamma amava «il suo principe color del mare»[14] (per non dire l’aggettivo
designato per i principi amati) scelse la prima opzione. Sfortunatamente e per
ragioni ignote, un giorno il re e la regina perirono, lasciando orfana la bella
principessina, la quale dovette crescere velocemente, con
già
una guerra che si annunciava alle porte: un tentativo d’invasione da parte del
signore del reame vicino. Sabbiadoro è giovane e vorrebbe cambiare il mondo:
non deroga al suo statuto e non trasmette i suoi poteri ai vari ministri.
Decide di non
cedere all’odio, di non cedere alla guerra. E il tempo passa. Alcuni mesi
prima, ha conosciuto il giovane apprendista di un mastro vetraio, a Venezia, un
artigiano squattrinato cui piace scolpire la sabbia, giocarci, e che con la
sabbia fabbrica degli specchi. Settimo di una famiglia numerosa (siamo fuori
dagli stereotipi fiabeschi) che lavora il vetro. Non avendo più nomi da dare,
sua madre sposta per lui le sillabe di vetro e lo chiamerà Trove.
Fate l’amore non fate la guerra, diceva uno slogan pacifista degli anni
’60 negli Stati Uniti dello scorso secolo, e Sabbiadoro pensa all’amore e pensa
al vetro, due nozioni che le daranno l’idea geniale in grado di evitare la
guerra tra due popoli. Scrive al mastro vetraio chiedendogli aiuto e
ordinandogli parecchi esemplari di specchio. L’idea della principessa è di
equipaggiare gli scudi dei suoi soldati di altrettanti specchi che
rifletteranno l’immagine dei soldati nemici.
Nella mitologia
greca, è la dea Atena che dona a Perseo uno scudo lucido come uno specchio da
potercisi riflettere dentro: così l’eroe riuscirà a vedere Medusa attraverso
l’immagine riflessa sul suo scudo. Un’astuzia che eviterà a Perseo d’essere
pietrificato dallo sguardo della Gorgone. Specchio come trappola mortale. Qui,
i soldati nemici che si vedranno riflessi negli scudi dell’esercito di
Sabbiadoro crederanno a un sortilegio[15], ponendosi domande quali
«Sono io il nemico o sono l’altro?»[16], richiamando ancora
Rodari che scriveva: «A cosa gli [al bambino] serve ancora una favola? A
costruire strutture mentali, a porre rapporti come “io-gli altri”»[17].
La guerra è
scongiurata, l’amore trionfa e i due giovani sanno che non potranno più
lasciarsi, ma è assente la formula classica che E vissero felici e contenti
ed ebbero molti figli a chiudere la favola. Quella di Barbara Pumhösel non
è una principessa invaghitasi di un principe azzurro, non è sedotta da un eroe
giunta a salvarla da un drago potente: lei s’innamora di un artigiano, novello
borghese di umili origini. Non si trasforma in Capo di stato in maniera
maschile: invece di scatenare una guerra o di proporre un matrimonio di ragion
di Stato per scongiurarla, intraprende una terza via. Usa lo specchio non già
come oggetto di vanità femminile ma piuttosto come strumento in grado di
salvaguardare la pace tra due popoli. Ecco perché la principessa Sabbiadoro può
dirsi moderna.

Conclusioni
Abbiamo visto
quale immagine della donna restituiscono i due personaggi delle nostre favole,
la Fata Turchina e la Principessa Sabbiadoro. Diversamente dai tempi moderni,
all’epoca di Carlo Collodi la donna italiana aveva un ruolo tradizionalmente
limitato in seno alla famiglia borghese: era essenzialmente figlia (di un
padre), madre (di figli) e sposa (d’un marito). Era definita sulla base di una
sua appartenenza a qualcun altro, fosse il padre o il marito (e se vedova, al
figlio maggiore). Da brava cattolica apostolica, la donna italiana di fine
Ottocento si conforma alle diciassette pie indicazioni che raccomanda il quarto
capitolo di un manifesto[18] cristiano del 1895 (Doveri
della famiglia cristiana), circa i doveri di una sposa:
1. Voler bene
al marito
2. Rispettarlo
come capo
3. Obbedirgli
come nostro superiore
4. Assisterlo
con premura
5. Ammonirlo
con reverenza
6. Rispondergli
con grande mansuetudine
7. Tacere
quando è alterato
8. Pregare per
esso il Signore
9. Sopportarne
i difetti
10. Schivare la
famigliarità con altri uomini
11. Non
consumare la roba in vanità
12. Essere
sottomessa alla madre del marito e ai suoi vecchi
13. Umile e
paziente con le cognate
14. Prudente
con quelli della famiglia
15. Amante
della casa
16. Riservata
nei discorsi
17.
Osservatrice dei doveri religiosi
In una lista così
normativa, i diritti della donna sposata non sono assolutamente tenuti in
conto. Certo, la Fata Turchina non c’entra, la fata non è sposata, non ha
nemmeno un uomo e il solo essere di sesso maschile[19] con il quale interagisce
è Pinocchio. Non solo: trattandosi di una fata, nessun proposito religioso (se
non apertamente laico, Collodi era di certo anticlericale) rientra tra le
raccomandazioni di buona condotta ch’ella impartisce al burattino. Se non fosse
altro che una fata madrina, il suo atteggiamento verso Pinocchio sarebbe almeno
bizzarro: lo mette in guardia, ma non gli impedisce di fare sciocchezze; passa
il tempo a rimproverarlo, a fargli paura, a farlo soffrire, lo sgrida, lo
punisce ma poi lo perdona sempre.
Alterna
dolcezza a severità. Promette di divenire sua madre ma non mantiene la
promessa; neppure come figura di sostituzione riesce a tenere il passo.
In fin dei conti,
non è né madre né madrina. È una creatura straordinaria, nel senso che esce
dall’ordinario, fuori dalla norma: soprannaturale e ambivalente. E se la Fata
Turchina fosse un (ossimorico) modello di femme fatale (qualcosa di
assimilabile al mito cui alludeva Carlo Emilio Gadda)? A ogni buon conto, non
può di certo servire da modello alle ragazzine che leggevano Pinocchio sul
finire del secolo XIX. Forse lo sarebbe in un mondo in cui la visibilità –
meglio se eccentrica – è garanzia di successo.
Per contro, il
tempo delle principesse sembra non conoscere declino: in mancanza di favole, la
stampa del gossip s’incarica di raccontare le «avventure» più o meno
sentimentali delle giovani teste incoronate di oggi. Ed è tutto ancora fortemente edulcorato,
malgrado si abbia avuto modo di vedere lo scarto – dal tardo Medioevo fino agli
anni Sessanta del secolo scorso – tra i racconti originali e i rimaneggiamenti
letterari da parte di favolisti più prudenti. Con le rivisitazioni filmiche
delle realizzazioni disneyane abbiamo assistito a cambi sostanziali, al fine di
salvaguardare la morale comune e desessualizzare ogni storia destinata a
bambini. Tali trasformazioni hanno inevitabilmente condotto a una
sovrapposizione di intrecci e di tematiche. Oggidì, le favole tradizionali sono
poco lette e film siffatti (che ormai hanno superato il mezzo secolo)
costituiscono una sorta di bible fantasy, pudibonda, per bimbi e
genitori.
Malgrado il suo
statuto di principessa (pegno dovuto all’ambientazione storica), Sabbiadoro
costituisce un modello di donna moderna, autonoma, senza pregiudizi di casta,
donna di potere senza mascolinizzazione, donna di pace con i suoi specchi
montati sugli scudi dei soldati. A riprova, si osservi bene la foto
sottostante, in cui – a Kiev in piazza dell’Indipendenza – e grazie a degli
specchi, le donne ucraine fanno prova di pacifico coraggio contro la violenza[20], a fine dicembre del
2013.
Ciò mostra che in
tutte le storie inventate scivola un frammento di realtà o meglio che la realtà
prende in prestito la sua parte di sogno alle favole: la vita imita l’arte
molto di più di quanto l’arte imiti la vita, per dirla con Oscar Wilde.

Foto:
©AP/Sergej Chuzavkov