|
di Sarah Panatta
Unʼenorme fallica destrutturazione del "gusto".
Un egocentrato planning evasivo per masse ignorate e diseducate. Nuovo cine...
"x". Sbiadisce e si camuffa sempre più, il valore dell'incognita. Hungry
"x", incognita affamata di Settima Arte, ma tenuta in dieta
ipoculturale e ipopartecipativa dall'enstablishment in toto.
Ambasce
dello sguardo. Allibito intruso per grandangoli a bassa quota. Su corpi molati
dal presente distrattivo, prototipi mostruosi per un futuro di terrorizzata
inedia. Su tavolate scomposte, su nidiate viziate, dallo smog di pensieri
sterilizzati da decenni di teorie paralizzanti. Su altri sguardi, impastati di
attesa, colpevole, amorfa. Su spazi vivisezionati, da scale appesantite da
storie dimenticate in fretta. Rarefatta polverosa disfunzionale vita. Lasciata
ad agonizzare nei suoi balletti deterministici e nelle mode falsamente
evolutive (dal twitting alla meditazione vegana). Una vita disfunzionale,
quella che vorrebbe anzi dovrebbe ma non riesce a possedere e riscrivere certo
nuovo cine(ma)paradiso italiano.
Nella
tabula rasa dei cinepanettoni espansi, travestimento "made in" per
operAzioni di product placement svaccato, che continuano a riciclare
dall'estero o a riciclarsi estirpando ossigeno da scenografie estere abusate,
che non sembrano neppure volere una dignità autoriale che non possegga la
consistenza alimentare di un preparato liofilizzato da tetrapack. Ecco che nomi
brandizzati come Virzì e Genovese e in parte l'ultimo Tornatore si incuneano
regolarmente tra cinepanettonismo e nuovi cineparadiso. Scivolando su mega spot
spiaggiati in sceneggiature
incollate a freddo. Confondendosi tra i linguaggi
pretenziosamente neo-neorealistici di alcune (ex) giovani promesse. Come il
godardiano introspettivo "genere" di Saverio Costanzo e la cronaca
familiare variamente declinata di Francesca Archibugi. Altri prodotti in cerca
di identità-spot?
|
Il regista Saverio Costanzo
|
Dopo In memoria di me (2007), La solitudine
dei numeri primi (2010) e l'adattamento tv nostrano della serie In
treatment (2013), Saverio Costanzo torna ai cuori surgelati di una meglio
gioventù dagli orizzonti precari, precocemente, forse inconsapevolmente
avvizzita, nel vetro frangibile del proprio trauma esistenziale (ferita,
mutilazione, esclusione e autoinganno) assorbito da una società assopita e
manchevole nei confronti di quella gioventù stessa, pur sempre bramosa di
appigli, risposte, sfoghi. Sono tutti Hungry
Hearts[1].
Mina (Alba Rohrwacher), Jude (Adam Driver) e il loro bambino. Un amore sghembo
tra le quattro sghembe mura di una mansarda/serra/utero. Un amore a tre che
(si) esclude e si inerpica nei silenzi. Mentre boccheggia senza linfa che nutra
i corpi scavati. Amore che corrode ma resiste, fino alla detonazione
imprevista.
Mina
e Jude, personaggi senza libretto di istruzioni, camminano nella capsula
mimetica della propria solitudine, asimmetrici volti di un'età inafferrabile e
repressa. Si intercettano per caso o per scherzo a New York, si
scelgono/seducono/scherniscono nel retro di un ristorante cinese e si sposano.
Mina resta incinta e matura l'idea che il suo bambino sarà "diverso",
un "bambino indaco" pregno di luce, come prevede una medium nel suo
loculo da marciapiede, e che andrà preservato dalla contaminazione carnivora e
opacizzante del mondo. Dal parto in acqua non riuscito, alle manie vegane di
semi e purganti, alla sociopatia latente, Mina si trasforma con impercettibile
tenacia. Ripara con muto zelo dal gelo troppo urbano se stessa e il suo
cucciolo intoccabile. A guardarla arrampicata al tetto dell'appartamento/torre,
scapole radenti la pelle tesissima e diafana, nella donna sembra evolvere un
alien teneramente ostile, una depressione nebulosa e vorace, inafferrabile
dagli occhi del marito tanto legato a lei quanto progressivamente sconcertato.
Mina non vuole nutrire il bambino secondo una dieta comunemente accettata, non
ammette che sia visitato da medici o che esca di casa. Jude la asseconda ma ha
paura, fino ad entrare in guerra con se stesso e con la moglie per salvare il
proprio figlio.
Rabbiosa
febbre di cuori affamati, Hungry Hearts. Titolo magnetico e folk,
trasudato della metafisica flesh and blood dei suoi protagonisti. Titolo
ritmico, quanto mai indispensabile per un'opera d'altro canto arrancante,
esile, che traballa come la macchina da presa che vaticina nella bolla
familiare di Mina e Jude, che perde equilibrio fino a calarsi a piombo,
accasciata, sulle sue creature insettiformi in barattolo, con i suoi
"fuori quadro" sporcati, tra primi piani strettissimi e carrellate
immerse in un'aria formicolante, sospesa.
Un'opera
che non trova ragioni, nel suo formulario algebrico balbettante. Fuori posto,
come un orto urbano eretto in forma di bunker da una principessa vegana su una
palazzina inizio '900 a picco sull'inquinata sollecitudine di un incrocio
newyorkese, denso del rumore stridulo ma soffocato di taxi, botteghe e folla
anonima sotto grattacieli scomodamente assiepati.
Nuova
esplorazione di codici emotivi "estranei" traducibile in tragedia
domestica. Dal caso Mondadori a quello Einaudi, dal romanzo dell'incensato
esordiente e prodigio editorial-popolare Paolo Giordano, a quello di Marco
Franzoso, alla sua quarta prova in prosa, specializzato minatore degli anfratti
torbidi della famiglia contemporanea. Con una sceneggiatura, stavolta a due
mani, quelle dello stesso Saverio Costanzo, tratta da "Il bambino
indaco" scritto da Franzoso, il regista cerca la consueta affascinata
"giusta distanza" dal suo teorema visivo di "numeri primi".
Ma assorbe con troppo zelo la bussola narrativa del romanzo, occupando lo
schermo con la prospettiva inetta e
respingente del protagonista maschile Jude, padre nel limbo, cacciando poco a
poco nel mistero, che diventa orrore, Mina, madre iperprotettiva o omicida?
|
Adam Driver e Alba Rohrwacher in Hungry Hearts
|
Rapito
dalla risacca di una dolce ineffabile cancrena dell'anima, Hungry Hearts
trascura il gioco delle parti, tracciando una forse persino ridicola dicotomia
bene-male. Tenta di guidare il pubblico tra i non detti, tra le pieghe dei
sorrisi, i rivoli di lacrime singole o i sussulti dei pianti asciutti dei pur
empatici interpreti (Alba Rohrwacher e Adam Driver, premiati con la Coppa Volpi
alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia 2014). Costanzo si intromette
in una famiglia popolata di cuori selvatici, veggenti e schivi/schiavi,
insicuri e premurosi, autolesionisti e alla deriva. E dilaga en plein air in un
dramma da camera con vista sui dilemmi fumogeni di una granulosa Grande
(piccola) Mela.
È
ancora La solitudine dei numeri primi (Ita 2010). Jude e Mina, due
"numeri primi gemelli" tagliati nello stesso friabile blocco di una
materia fonda e vischiosa. Un nucleo linguistico ancora debolmente memore
dell'incandescenza horror del film del 2010 ruota lentamente nel centro di
questa opera autoreferenziale e ripetitiva, zoppa e anoressica come la
protagonista del precedente lavoro di Costanzo. Dopo la prova
thriller di un dramma spericolato nel suo continuo rimpallarsi da un frammento
all'altro delle vite dei suoi personaggi spezzati e autistici l'uno verso
l'altro, Costanzo torna all'adattamento letterario con un dramma-enigma vicino
a certa cinematografia nordeuropea nella sua asettica condiscendenza verso i
protagonisti, che come in una rete di ragno velenosa si avviluppano e urlano
spastici e ancora soli, in una morsa che non concede scampo. Il film
infatti si ammala e implode, come Jude e Mina, dopo un incipit-sogno che in
riva allo scuro oceano presagisce, nel temporale dei sensi, ma non premunisce,
la carneficina che scaturirà dall'amore improvviso e dipendente.
Meno
sottile e coraggioso de La solitudine dei numeri primi, Hungry Hearts
si accampa monotono sulle cicatrici antiche e sconosciute dei protagonisti,
ramificate in un sottosuolo dell'animo fin troppo scoperto, humus oltreumano di
tensioni forse esplicabili, ma lontane dalla logica dell'esistere insieme (e
insieme al pubblico, altrettanto... solo).
E a
cena di altrettanti e palesi veleni – ma con commensali più vicini a mammiferi
da circo pasciuti da un'irregimentata codardia, che ad aracnidi apprensivi e
sociodevianti – invita il televisivo e naif ultimo film diretto da Francesca
Archibugi, confezionato dalla "ditta" Virzì, Il nome del figlio [2].
Indovina chi fa outing a cena?
Simona è una starletta televisiva al suo esordio
letterario (con ghost writer incluso), pronta a colonizzare le librerie con i
piccanti retroscena dello showbiz narrati ne "Le notti di F", e sta
per dare un figlio a Paolo, immobiliarista-Rolex e Bmw annessi, possessivo con
scioltezza, razzista e snob con la grinta autoironica e compiaciuta del
rampollo cinico di un'illustre casata, i Pontecorvo, istituzione nazionale. Betta, insegnante precaria alla medie e sorella di Paolo, in
"premenopausa" sin dall'asilo, ansiogena e remissiva, è sposata con
il professore twittatore incallito e sociopatico Sandro, il "paguro"
intruso. Claudio, amico fraterno di Betta e confessore della sue scappatelle e
non solo, è un musicista che produce dischi di cover e ascolta da decenni con
sagace pazienza il belare del suo mucchio pseudofamiliare. Si ritrovano insieme
per una cena e una news imporante, che tra scherzo e verità assesta colpi
salati al menage apparentemente rodato.
Sfornata
così, tra ginnastica domestica e zuffe verbose, la ricetta de Il nome del
figlio, nuovo film da camera anzi da "sala da pranzo" di
Francesca Archibugi.
|
La regista Francesca Archibugi (ph. Claudio Iannone)
|
Doppie
vite, segreti sottaciuti, insofferenze a pelo d'acqua, febbri che vogliono
evacuare da corpi a stento trattenuti nel tepore familiare, tra una mega
bottiglia di champagne, un libro citato per caso, una dietrologia
antropologico-storica, un Benito di troppo, una crostata di ricotta
dimenticata, un'imbarazzante intervista fiume, un elicottero-spia giocattolo e
un parto imminente. Questione di ruoli, storici e culturali e personali.
Questione di cuori, affamati di semplicità ma abituati al gioco dei mimi. Una
lite domino e nuovi equilibri in famiglia Pontecorvo. Dove professori
sinistrorsi abbuffati di antropologia culturale e carte (nascoste) di partiti/e
inesistenti, incastrati in esistenze fantasmatiche, si accapigliano e riconciliano con rampanti
agenti del lusso menefreghista italiota. Alla fine l'unico sguardo
"asciutto" e sincero, certificato da carte, esibite, è quello della
(ex) soubrette dagli occhi laminati di verde, Simona, l'immatura fantozziana
gestante, procace e linguisticamente terrona, che sembra poter invece insegnare
a tutti la banalità vanesia dell'esistere. Che sbatte sul
muso vizioso anche se amato dei suoi "parenti" acquisiti come lo
status tanto difeso quanto osteggiato da ciascuno di loro sia l'imprescindibile
culla e tomba in cui nascere, ribellarsi, digerire, scopare, sconfessare,
ripiegare, invecchiare, il piedistallo (s)comodo da cui emettere sentenze, il
vestito di cui nessuno di loro sa o vuole spogliarsi senza accettare le conseguenze
dell'altrui sguardo, finalmente diretto, sulle contraddizioni e sui desideri
pronti a scoppiare, sull'epidermide nuda del Sé.
"Cena
tra amici" ("Le prénom") pièce teatrale di Alexandre De la
Atellière e Matthieu Delaporte divenuta grazioso ma monotono film nel 2012, per
la regia degli stessi autori, è la maschera strutturale del film della
Archibugi. Che risulta remake (ulteriormente) isterizzato della pellicola
francese. Il nome del figlio, titolo più sottilmente
patriarcale e vendibile, vorrebbe convogliare nella sua dizione televisiva e
ritornante, con rasoiate di sarcasmo leggero, l'umorismo colto e (tipicamente)
nervoso dell'originale d'Oltralpe sulla società alto borghese e suoi eterni
intrighi e crucci socio-politico-sessuali, in una commedia a portata di mano
che tenta di svolazzare dalla twittermania al razzismo, dalla depressione di
coppia all'ipocrisia domestica tra fine anni '70 e primi 2000.
|
I protagonisti di Il nome del figlio: Luigi Lo Cascio, Micaela Ramazzotti, Alessandro Gassmann, Valeria Golino, Rocco Papaleo
|
Come i rugginosi treni che scorrono invisibili sotto
la terrazza dell'attico shabby chic dei Pontecorvo, nel quartiere graffiato e
coatto adibito a "tossici, immigrati e bidelli" e radical chic, il
film della Archibugi arranca, fornendo dai finestrini, sporcati con garbo e
rare discese nel trash pecoreccio nostrano, una visione troppo schematica di
quell'italietta per bene e precarizzata nell'anima che forse poteva ritrarre. Personaggi verosimili e non veri, caricature a tratti divertenti ma
non trascinanti, nonostante lo sforzo di Papaleo (Claudio, il ruolo più
completo) e Gassmann. Un film corale, un prodotto ready for
the video, che languisce nei canoni della ripresa televisiva, sciogliendo nei
veleni della "cena" pillole di psicologia da scaffale 3x2 e attualità
a grani grossi q.b., intabarrando il tutto nello spartito della pièce francese,
adattata dalla stessa Archibugi insieme alla mano onnipresente di Francesco
Piccolo, qui slegato apparentemente da Virzì (invece innestato nel film come
produttore associato).
Squadra
di mercato che vince non si cambia. E se la premiata ditta virziniana rastrella
a suo modo botteghini e sponsor spalleggiata da mamma Rai, il film da
"quattro salti in padella" corretti allo champagne è servito in poche
mosse. C'è bisogno di leggere "Le notti di F" per nutrire cuori che
restano ereditariamente hungry?
[1] Regia Saverio Costanzo. Cast: Adam Driver,
Alba Rohrwacher, Roberta Maxwell, Al Roffe, Geisha Otero. Jason Selvig,
Victoria Cartagena, Jake Weber, David Aaron Baker, Nathalie Gold, Victor
Williams. Sceneggiatura Saverio Costanzo. Tratto dal romanzo "Il bambino
indaco" di Marco Franzoso (Giulio Einaudi Editore). Fotografia Fabio
Cianchetti. Montaggio Francesca Calvelli. Scenografie Amy Williams. Costumi
Antonella Cannarozzi. Musiche Nicola Piovani. Una produzione Wildside con Rai
Cinema. In associazione con Biscottificio di Verona. Usa 2014 – Durata 109'. Uscita 15 gennaio
2015. Distribuito da 01 Distribution.
[2] Regia Francesca Archibugi. Tratto dalla pièce
teatrale "Le prénom" di Alexandre De la Atellière e Matthieu
Delaporte. Cast: Alessandro Gassmann, Valeria Golino, Luigi Lo Cascio, Rocco
Papaleo, Micaela Ramazzotti. Sceneggiatura Francesca Archibugi, Francesco
Piccolo. Montaggio Esmeralda Calabria. Scenografia Sandro Vannucci. Fotografia
Fabio Cianchetti. Musiche Battista Lena. Una produzione Indiana Production,
Lucky Red, in collaborazione con Motorino Amaranto, Rai Cinema, Sky. Ita 2015 –
Durata 94'. Uscita
22 gennaio 2015. Distribuzione Lucky Red
Scarica in formato pdf
|
|