PRIMO PIANO
SU FRANCESCO ROSI
(1922-2015)
Un gentiluomo e intellettuale
‘contro’ con la macchina
da presa


      
Ampie annotazioni critiche sul cinema del regista napoletano morto lo scorso 10 gennaio, che è stato uno degli ultimi umanisti meridionali e creatori della settima arte impegnati a scavare nelle pieghe e piaghe della società italiana e nelle forme di rapporto tra potere e criminalità, attraverso una potente estetica narrativa realistico-drammatica. Memorabile l’arco dei suoi film che va da “Salvatore Giuliano” (1962) a “Cristo si è fermato a Eboli” (1979), passando per “Le mani sulla città” (1963), “Uomini contro” (1970), “Il caso Mattei” (1972), “Lucky Luciano” (1973) e “Cadaveri eccellenti” (1976).
      



      

 

 

di Michele Goni

 

 

Orson Welles non avrebbe mai voluto che 'Rosebud', la parola pronunciata dal tycoon Kane in punto di morte, fosse soggetta a una investigazione chiarificatrice. Era un termine prolusivo a un mistero che tale doveva rimanere. L'enigma resta, anzi il film con il suo profluvio di artifici visivi barocchi, tra specchi e ombre dove tutto appare più che essere, si industriava a infittirlo, accludendolo al fine come motivo fondante della realtà stessa, come ordine indifferente alle compartizioni morali correnti del puritanesimo ufficiale.

Il mito originario e appagante, tutto americano, dell'uomo d'affari che si fa strada un successo dopo l'altro, era demolito da Citizen Kane insieme al suo annesso e ingannevole sistema iconografico. Le immagini troneggianti sui manifesti, le apparizioni pubbliche tronfie e garrule del grande uomo di successo, divengono sempre più pallide e sproporzionate con il progredire nel film di un disvelamento delle miserie della vita privata del protagonista. Alla fine il potere non appaga.

È risaputo che la figura di Kane era ritagliata su misura su quella di Howard Hughes, l'eccentrico miliardario americano protagonista delle cronache del tempo, un citizen Berlusconi all'ennesima potenza, innamorato del volo e degli aerei tanto da produrre una delle più inverosimili battaglie aeree mai girate al cinema (Angeli dell'inferno, 1930), con innumerevoli velivoli a giostrare da comparse, e morti annotati sul taccuino degli incidenti sul set.

Non era quindi una semplice messa in mora di un mito qualsivoglia, ma l'attacco al cuore del potere industriale più arcigno sotto forma del suo volto più noto. Welles pagò il suo affronto con un bando perpetuo dal circuito della Hollywood ufficiale.

Nacque così, in seno all'industria più organizzata ferrea e conservatrice, il mito del cineasta ribelle. Ne aveva favorito il sorgere un clima politico di rinnovamento, nonché la rottura con quella Germania nazista – con tutto ciò che questo comportava in termini di scelte e orientamenti politici – che ai grandi capi di Hollywood (pure erano tutti ebrei, se si eccettua lo Zanuck di Via col vento) non era mai troppo dispiaciuta.

Nonché essere in pieno contrasto con i ritratti benevolmente leggendari dei padri della patria, l'esempio di Welles era un'alternativa poderosa, di libertà assoluta, a quello più formale e impegnativo del pedagogista rivoluzionario alla Ejzenstein, ingessato nelle simmetrie concettose della sua martellante dialettica filmica. Con poche eccezioni maestose (Ivan il Terribile e La congiura dei Boiardi) a rischio di purghe ed epurazioni.

 

I grandi naturalisti 'contro' del cinema americano venuti dopo, hanno tutti, chi più e chi meno, da fare i conti con Welles e il suo cinema, da Elia Kazan a Nicholas Ray, da Robert Aldrich a Sam Peckinpah, ma anche da Samuel Fuller a Richard Brooks.

Né è finita qui. Il trattato contro le forme della moderna politica barocca che è Citizen Kane, l'anti-Principe cinematografico del secolo breve, con la sua disamina acuta fin nelle pieghe formali, dei rischi della civiltà di massa (soggetta alla fascinazione carismatica e all'asservimento mediatico), assomma in sé due propositi fondanti, da cui si diramano le principali correnti critiche della cinematografia moderna, che dal dopoguerra giunge sino agli sgoccioli delle avanguardie teorizzanti: la critica del linguaggio e quella dell'informazione, che sono poi le due forme predilette con cui si esercita il potere delle grandi istituzioni collettive. Citizen Kane in superficie è la parabola esemplare di un'ascesa irresistibile fallita per un nonnulla; ma quella scalata abortita in un mistero metafisico insondabile, è un compendio del caleidoscopio formale e narrativo che struttura la trama del film, l'inchiesta irrisolta sull'ultima parola del morente. Ecco un'altra consegna nichilistica per il mezzo secolo a venire: se il potere è qualcosa che non appaga la riduzione dell'umano a congegno oliato, sia pure il più ben remunerato, informare non equivale a risolvere né tanto meno a educare.  

Le avanguardie, specie dalla Nouvelle Vague in poi, si industrieranno con accanimento a ribadire il rischio di un asservimento linguistico insito nelle forme più gloriose del cinematografo. Godard se ne farà forte nei suoi film-saggio, di cui resta però soprattutto la critica capillare interna alla storia del cinematografo delle Histoires du cinéma; ma restano anche in negativo le concessioni allo snobismo rivoluzionario de La cinese (1967), con le sue troppe rivendicazioni simboliche, il mito del proletariato sbandierato e più che sospetto. Mi pare che in molti film quel vagheggiare il mito della rivoluzione avvicini Godard a Ejzenstein, entrambi intellettuali borghesi più bravi a baloccarsi con gli stemmi e le insegne di quanto non lo siano a fabbricare le storie e la lingua viva di una nuova rivoluzione, a meno che tali non si vogliano ritenere i miti edificanti del passato, gli happenings ciarlieri, o gli auspici propositivi dell'avvenire ripetutamente evocati nelle messe in scena. 

Il rivoluzionario duro e puro, il Saint-Just del caso (ma senza il fanatismo e la retorica di quest'ultimo), o forse un novello Trotskij senz'armi (ma ben avveduto sulle strategie machiavelliche del nuovo terrorismo occidentale), spetta a Guy Debord di incarnarlo con la sua aspirazione a un integralismo puritano della morale rivoluzionaria. Negarsi per sempre alla società dello spettacolo, evitandone le comparsate mediatiche, fu un modo di sfuggire l'irrealismo avvilente dell'avversario.

Il suicidio di Debord, avvenuto poco prima dell'insolito appuntamento con un'apparizione televisiva (fu forse la mattina del giorno fissato per la messa in onda), sarà stato certo la disperazione del vinto, ma il gesto risuona di una sua sinistra e cristallina perfezione: disertare quell'ultimo appuntamento, non sarà stato per caso per l'intellettuale rivoltoso, tendere un ultimo agguato a un nemico che, sperando da ultimo di metterlo nel sacco, lo voleva inchiodare al narcisismo e alla vanità specchiata della recita mediatica? Se così fosse, saremmo di fronte a un puro e insieme estremo atto di rivolta paradossale: più che un autodafé, un harakiri militare, un suicidio da apache irredento che, spalle al muro, alla sopravvivenza grigia nelle riserve pestilenziali di una civiltà corrotta preferisce la morte.





Francesco Rosi premiato col Pardo d'Oro


Tanta lucida dedizione non è di tutti. C'è chi invece ai simboli, alla lingua e alla persuasione affida ancora il proprio sentire.

All'opposto della rivolta linguistico-sociologica di Debord, sta il più umano esercizio di allerta di cineasti dediti allo smascheramento, agli appostamenti, ai pedinamenti problematici, spesso in seno a un dubbioso naturalismo. Ecco dunque le geometrie del complottismo di un Fritz Lang (Il dottor Mabuse), l'invettiva di un Costa-Gavras (da Z - L'orgia del potere a L'affare della sezione speciale), i drammi letterari di Joseph Losey (Il servo, L'incidente) o ancora le fatali computazioni di Stanley Kubrick (Spartacus, Orizzonti di gloria).

A questa nobilissima schiera di ultimi umanisti, va aggregato anche Francesco Rosi, la cui  scomparsa pochi giorni addietro è avvenuta tra scarsi clamori. Gli fu forse fatale un pudore di regista contro, mai rivoluzionario, ma sempre in sottrazione rispetto alle ardenti mitografie del tempo.

Diversamente da coetanei come Damiano Damiani o Elio Petri, che sulla ricognizione della recente storia patria si gettano con foga, sconfinando talora nell'abbaglio (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto) o nella computazione sciatta e corriva (Vamos a matar, compañeros), ma sempre in linea con le risonanze d'impatto delle parole d'ordine del tempo; diversamente quindi dalla partigianeria ideologica più scoperta, Rosi agisce con calma, acquisendo con scrupolo i documenti necessari a fare chiarezza sul caso. Indi l'istruttoria illuminante, una forma cinematografica frutto di una meditazione complessa, musiva e polifonica, nella quale si sovrammettono la struttura della finzione ai materiali informativi. Di qui la trilogia che lo consegna alla fama di un tempo ubriaco di ideologia e politica: Salvatore Giuliano, Il caso Mattei, Lucky Luciano. La dialettica documento-finzione è evidente retaggio dell'epica brechtiana, secondo una concezione nobilmente pedagogica dello spettacolo, destinato a sollecitare lo spettatore – e non solo quello borghese.

Il modello esteriore della trilogia fa riferimento a Citizen Kane, senza però precipitare al termine la storia nell'abisso di una realtà barocca indecifrabile, segno elettivo dell'aristocrazia dei personaggi wellesiani, nonché di quella del regista stesso, che a più riprese si mostra oscillante tra il fascino della grandezza individuale e la consapevolezza della corruzione che induce il potere nelle sia pure più eccezionali personalità. L'infernale Quinlan del film omonimo è un  poliziotto geniale, scova il male e giudica il reo prima che se ne siano date le prove. Per fare giustizia l'ispettore non va però per il sottile, sconfinando a più riprese oltre la frontiera che lo separa dall'avversario. Machiavelli approverebbe, Nietzsche pure. Ma siamo in democrazia, non c'è posto per chi agisca scopertamente in spregio alle regole, sia pure per fini superiori.

Quinlan, Arkadin, Kane devono farsene una ragione: il meglio lo hanno in serbo i paesi che fabbricano gli orologi a cucù, da secoli ignari delle guerre intorno. Ma è più una legge di mercato, che non una morale: gli affari migliori si fanno in tempo di pace. Allora la pace rischia di diventare il tempo dei lupi. Una volta sposata l'ipotesi, abolite, almeno a proclami, le guerre e le ingiustizie, chi terrà a bada le belve in agguato dietro i cavilli e le leggiucole predisposte ad arte da chi mena le danze?

È anche quello che si chiede John Huston ne L'uomo dai sette capestri, storia del sedicente sceriffo matto Roy Bean, personaggio realmente esistito che, bibbia in pugno, dettava legge “a ovest del Pecos” al tempo del selvaggio West. Quella di Roy Bean era una legge fatta con metro grezzo e non sempre limpida, ma pur sempre garantita da un patto schietto tra uomo e uomo, in grado di riportare una rude civiltà in mezzo al vuoto del deserto. Non però abbastanza accorta da reggere l'assalto dei predoni borghesi che si arricchiranno riducendo la comunità a un sobborgo petrolifero maleolente.

È ovviamente l'allegoria di uno spirito anarchico: meglio la selva dei bruti che la tiepida legge dei pavidi, perché con essa giunge il frollimento degli spiriti e delle energie.

Ma l'America è là, lontana, e nel ciclo compiuto della sua democrazia pur giovane si affaccia già un crepuscolo della civiltà.

A un'Italia sottomessa da secoli, è dato ancora di sperare, anche forse un poco alla cieca, specie se il frutto della libertà sia ancora da sperimentare. Che tra le rovine del dopoguerra possa miracolosamente attecchire?

Ecco allora in Rosi un programma da buon pedagogista illuminato e pratico, che prima di tutto vuole riscattare il popolo da una millenaria incultura. Occorre dargli dignità, autonomia di pensiero, ripulirlo e nutrirlo, senza gettarlo allo sbaraglio come era accaduto al tempo delle trincee (Uomini contro), o delle avventure coloniali del ventennio (Cristo si è fermato a Eboli); né a Rosi pare onesto chiamarlo in parte nelle battaglie delle piazze borghesi (I tre fratelli). Non bisogna  indottrinare a forza, secondo i precetti del realismo socialista zdanoviano e dell'arte di regime. Meglio il teatro brechtiano, con la sua commovente utopia applicata al cinematografo e la sua disciplinata autodifesa raziocinante. 

I misteri soggiacenti alle vicende di Salvatore Giuliano, Enrico Mattei e Lucky Luciano sono indubbiamente soggetti accattivanti per dar forma a un'epica a mezzo tra L'opera da tre soldi e il gangster's movie statunitense, che in fondo nascono dallo stesso milieu. La seduzione del mistero narrativo dei tre film è concepita per intrattenere l'immaginazione in un prolungato sforzo di ricerca della verità che, infine delusa, si dovrà appagare della problematicità in sé, come avviamento a una storia sempre in fieri e in atto di rimodellarsi, suscettibile di ripensamenti e modifiche.

Il risultato non è un film-saggio con le sue problematiche convergenze-divergenze di materiali culturali, ma una sorta di intrigo-documentario popolare esalato in mistero di cronaca. Sempre però attento a che il caso singolare risalti come exemplum di una storia maestra per tutti, in una dialettica andata e ritorno tra il concreto dei fatti e l'astrazione ponderata dell'interpretazione.

Ed è la fitta rete creata dal montaggio dei materiali intersecantesi a restituire al caso particolare la sua dimensione di dramma collettivo (perché “la sola psicologia è il montaggio”, senza nessuna concessione per gli eroi).

Già in Salvatore Giuliano (1962), pure ancora modellato sulle esperienze originarie del cineasta, si può cogliere questa maniera di procedere: quel sud in bianco e nero, plastico ma privo di slanci pittorici è forse in parte debitore de La terra trema di Visconti (del quale Rosi fu aiutante per la realizzazione del film 'verghiano' e verso il quale nutrì sempre una grata devozione di allievo),    film atono, astratto, più una ricognizione documentario-etnografica sul modello dei film di Flaherty, che non una visitazione sociale del sud più primitivo. La terra trema deve essere sembrato a Rosi   e forse lo fu una sorta di grado zero del realismo italiano, una documentazione cruda e senza respiro cui riferirsi per sgomberare gli equivoci del vecchio naturalismo; un atto costitutivo, insieme anti-retorico e anti-decadente, ovvero uno sguardo esente da congetture letterarie neo-barbariche o sensuali. Era dunque una buona piattaforma per il cronachismo complesso di Salvatore Giuliano.

Il successo è immenso, il tripudio critico mai più eguagliato.





Una immagine di Salvatore Giuliano (1962)


A differenza di quanto accadeva in Salvatore Giuliano (in cui il bandito Giuliano era assente dal film, in sdegno anche al dramma psicologico o verista), ne Il caso Mattei (1972) il personaggio del titolo è anche il protagonista del film. Ne viene un senso di ambigua fascinazione mitica per il personaggio e la sua statura individuale, una sorta di campione dell'azione civile preso al laccio dagli interessi che ne intralciano l'operato. Per un attimo viene quasi meno il contegnoso distacco del dispositivo da parte del regista: giunti al punto in cui Mattei muore, precipitando con il suo aereo, Rosi compare infatti in scena nell'atto di intervistare i personaggi che furono accanto all'ingegnere nei suoi ultimi giorni in Sicilia. Quella coda tutta di cronaca mostra l'accanimento esasperato del regista per i troppi dettagli trascurati dall'inchiesta ufficiale e per le reticenze omertose alle sue domande. Ma i tempi sono eroici, l'entusiasmo alle stelle: pur tra tante cautele, Rosi si concede un'invocazione finale per un futuro migliore.

Non c'è però spazio per la disperazione. Rosi l'ha del resto sempre ribadito: anche laddove i suoi film si vanno a cacciare nei più intricati viluppi del potere, sino a toccarne gli esiti ripetutamente mortali (gli affari col potere sono da sempre contigui alla morte, è un assunto tragico e classico), è sempre per un'esigenza di chiarezza e quindi serve rischiare.

Ecco allora Lucky Luciano (1973), con la storia del padrino della mafia statunitense che si intreccia alle vicende del meridione del dopoguerra, tra affarismo e malaffare. Qui la storia si infittisce, e l'intrigo attinge vertici di un machiavellismo labirintico, in un gioco di ombre dov'è difficile distinguere chi parteggia per chi. Da siffatto groviglio può sfuggire anche una considerazione di stoica rassegnazione: così il capo della commissione d'inchiesta Harry J. Anslinger confessa a Charles Siragusa (l'agente americano della narcotici che prima incastrò e poi scarcerò, salvo riprendere a indagarlo in Italia, il potente Luciano), che in fondo è tutto un balletto destinato a risolversi in un girotondo in cui gli avversari che si fronteggiano si annullano a vicenda.

Lucky Luciano e Il caso Mattei analizzano entrambi fitte reti di potere, ma si distinguono per  il diverso modo di interpretare il soggetto intorno a cui ruota l'intrigo: se Mattei è un individuo eccezionale, e la sua lotta contro il potere assume una dimensione eroica ed esemplare; Luciano è un non-personaggio, una proiezione dei molteplici interessi che fanno capo a lui. Il solo momento in cui questa maschera dell'intrigo rivela un fondo umano, è quando ormai si approssima alla morte. Lì il regista si concede anche un moto di compatimento per il personaggio, ma non tanto per la pietà che suscita l'uomo in sé, quanto per le illusioni di cui si era nutrito il suo sogno di dominio. Ed è questa forse la più compiuta delle allusioni a quel côté ideologico progressivo presente già in Citizen Kane.

 

Frammezzo alla trilogia sulla politica moderna, Rosi firma una serie di film eterogenei, per fini e riuscita. Primo tra essi Le mani sulla città (1963), memorabile esempio di ritratto corale di classe dirigente cittadina. Sullo sfondo di una Napoli stretta nella morsa della speculazione edilizia, si narrano quelle che potremmo definire le gesta di Nottola (un potente costruttore, impersonato da Rod Steiger) e del consiglio comunale cittadino, governato in quel tempo dall'intreccio affaristico del potere democristiano con quello monarchico. A contrastare la cinica egemonia dei due partiti conservatori, è il partito comunista, alla cui testa Rosi mette il garrulo De Vita, interpretato da un vero consigliere comunista. Il film è concepito e realizzato come un vibrante saggio didascalico sui guasti prodotti dal potere sulla vita civile di una città del sud, dettaglio importante per il regista, convinto assertore di quell'interpretazione storica di un sud atavico e pre-urbano, che lo condanna all'arcaismo della sua corruzione. L'ampio spazio di manovra della trilogia si riduce qui sensibilmente: non più le sottili arcate dialettiche e fantomatiche tese tra capitale e mondo rurale, tra civiltà capitalista e terzo mondo, o ancora tra centri e periferie globali. Le mosse, la vita della città, si decidono tra i palazzi di piazza, dove si confrontano in schermaglia i contendenti dei partiti avversi.

Come già in parte in Lucky Luciano, Rosi non annerisce in modo univoco tutti gli affiliati al potere, conferendo loro precise sfumature a seconda delle tipologie che vuol ritrarre. In questa piccola antologia di mirabile realismo antropologico, Nottola risalta come il personaggio più magistrale e vivo in assoluto. Nella scena in cui l'imprenditore conduce De Vita in visita a uno dei suoi palazzi (è per mostrargli i pregi delle sue abitazioni: “chist'è nu cesso” dice , premendo il tasto dello sciacquone!), la rozzezza di Nottola spicca per vitalità a cospetto della loquela astratta e populista del politico progressista che, spiazzato dalle ragioni dell'avversario, si arrampica sugli specchi dell'idealismo[1]. E ancora leggendarie risultano le sequenze del consiglio comunale, dove tra le parole infiorettate, si insinua a poco a poco il perfetto e fin amabile cinismo del democristiano interpretato da Randone, a trovare una ragione di compromesso in nome del “bene” comune degli affari.

Non è una commedia all'italiana con le sue deformazioni di spirito e l'ilarità spiegata. Le mani sulla città è il ritratto esemplare (in quanto rappresentativo di ogni altra situazione analoga a questa) di quel cinismo profondo che permea il governo di tanti comuni italiani, nel passato come nel presente, eseguito come uno studio tipologico: una volta di più dal particolare all'universale, come servizio a disposizione di chi voglia intendere. Quei colori stesi in modo così rapido ed efficace, la sintesi ideologico-caricaturale delle battute, la semplicità diretta e fin mitica della trama, tutto fuso in un insieme a esaltare nei ritratti dei guitti uno straripante e paradossale afflato shakespeariano.





Rod Steiger, protagonista di Le mani sulla città (1963)


Del 1967 è la  riduzione cinematografica de Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile: C'era una volta è un film ameno, ma di poca energia, complice forse la scelta degli attori (Sofia Loren e Omar Sharif) che già da soli non spiccano per mobilità e fine sentire. Qui forse, prima e sola occasione, il popolare Rosi si impiglia in un manierismo popolaresco superficiale di poca spendibilità.

Segue uno dei film più riusciti del regista, il coraggiosissimo Uomini contro (1970), celebre e maledetto film sulla Grande Guerra tratto dal romanzo di Emilio Lussu Un anno sull'altipiano. Anche questo è un film di archetipi che parlano. La sostanza che informa ciascuno di essi è una visione particolare della guerra: il generale Leone è la retorica bellica di alto rango; all'opposto di questi c'è Ottolenghi, il socialista rivoluzionario che vede nella guerra una forma di oppressione a danno delle classi popolari; in mezzo ai due estremi si situa la figura del tenentino Sassu, il giovane borghese ardimentoso che cammin facendo si trova a correggere le proprie posizioni, sino a rovesciarle radicalmente. In un film apparentemente disarticolato, costruito per quadri e situazioni che non hanno il crescendo tipico del cinema bellico americano, c'è comunque una tensione dialettica tutta interna alla figura di Sassu, il quale in corso d'opera si trasforma gradualmente finendo quasi per divenire un ribelle.

I contrasti di classe latenti in tutto il cinema di Rosi, nel teatro della guerra esplodono inevitabilmente, individuando la fonte di tutti i mali: il potere che tutto regge da dietro le trincee, quelle nemiche ma anche quelle amiche, dove i soldati agiscono a comando come marionette. Più che un film sulla guerra come devastazione bellica, come evento alternativamente eroico o calamitoso, dove si alternano colore e avventura, tra partigiani, martiri e carogne, Uomini contro finisce per essere un dramma ideologico-didattico sugli uomini in guerra, i quali, nelle opportune circostanze si tramutano in 'uomini contro', giungendo in prossimità di un nuovo pensiero, ciascuno a seconda del grado di consapevolezza e dell'estrazione sociale da cui proviene. Sassu da buon borghese accetta il sacrificio della fucilazione finale, laddove Ottolenghi giunge a incitare i suoi commilitoni alla rivolta. Sono due reazioni commisurate a eventi storici dai quali i personaggi non possono e non devono smarginare, pena falsificare la storia successiva (“Se non avessi fatto morire Ottolenghi avrei dovuto girare un altro film, un film sulla rivoluzione sovietica, già fatto da Ejzenstein. Perciò Ottolenghi doveva morire. In Italia c'è stato poi il fascismo e, come sappiamo, la presa di coscienza da parte di persone come lui non è bastata a evitarlo[2]”).

Più che la cronaca illustrata di una guerra, nel disegno del suo autore Uomini contro diventa una specie di durissima allegoria della lotta di classe nell'Italia di inizio '900, fissata nel teatro dei più feroci contrasti, tra i ripetuti massacri insensati e lo scialo delle retoriche. Sullo sfondo gli spettatori-vittime, i soldati semplici, specie i contadini del meridione, legati a quel senso fatale degli avvenimenti (la storia come evento naturale ostile) tipico del mondo pseudo-feudale che li ha generati.

Se l'impegno didattico per Rosi è rilevare nelle contingenze del reale le tensioni aggallanti, conferendogli forma di racconto e di saggio, senza ombra di dubbio questo, per la violenza dei contrasti (di metodo e di rigore, non meno che tematica), è il suo film più bello e riuscito.

La reazione a Uomini contro fu veemente, sia da parte dei capataz che, tra ammutinamenti e ordini disattesi, fiutavano sollecitazioni politiche importune, sia da parte della sinistra che vedeva vanificarsi definitivamente quel vagheggiamento del popolo come sol dell'avvenire, cullato dal sentimentalismo del cinema neorealista.

Il film fu girato tra venti sempre contrari, tanto da costringere il regista alla ricerca di capitali e scenari stranieri (da ultimo Rosi se lo pagò da sé, rara attestazione di coraggio e forza, in una cinematografia, quella italiana, dove i temerari non è che abbondino). Poi il processo per vilipendio alle forze armate, da cui il regista uscì prosciolto da ogni accusa, ma che indusse alla sospensione delle proiezioni in sala e alla scomparsa del film per più di due decenni. Da ultimo la ricomparsa, tra palinsesti anonimi che distrattamente lo recuperavano a visioni ormai negate all'eco di possibili scuotimenti.





Gianmaria Volonté in Uomini contro (1970)


Con Cadaveri eccellenti (1976), adattamento cinematografico del romanzo di Sciascia Il contesto, Rosi torna per un momento al saggio politico. L'occasione è quella di un apologo funereo, tra complotti e visioni di un possibile colpo di stato. Diversamente dal romanzo l'ambientazione è ben definita, si tratta della Palermo mortuaria dei misteri mafiosi, ma raffigurata in una metafisica di interni e scorci urbani che fanno pensare a tratti alla Mitteleuropa posticcia de Il processo di Welles, con la sua analoga sintesi di ambientazioni tanto lontane da far pensare a un non-luogo. Forse proprio da Welles Rosi prende a prestito il gusto inusuale e accentuato per una profondità di campo utile a produrre un minaccioso effetto di straniamento sul personaggio, quasi i luoghi incombenti e astratti materializzassero quella tela di intrigo che lo soffocano sino a ucciderlo.

L'argomento rammenta film come Perché un assassinio (1974) di Alan Pakula, in cui rivive il clima dell'America dei complotti, dell'assassinio Kennedy, coi suoi misteri risaputi o troppo noti. Ma l'analogia si ferma alla superficie, perché Cadaveri eccellenti non è un film naturalista, non quindi il semplice ritratto psicologico della modesta e cupa Italia delle convergenze parallele e della strategia della tensione. Come il coetaneo (1976) e quasi profetico, fin più impressionante, Todo modo di Elio Petri[3], siamo nel pieno di un'allegoria apologetica, un nuovo episodio del grande affresco didattico-politico sulla storia contemporanea, o se vogliamo, una commedia della coscienza civile. Quell'ispettore che scopre il gioco sotterraneo della politica è un cavallo di Troia (quasi fossimo nella Carriera di un libertino, o in un'Opera del mendicante, rifatta a misura d'inchiesta), concepito per introdurre lo spettatore nel vivo di un dilemma ideologico che si pone alla fine nel modo più netto: “compromesso o rivoluzione”. Pronunciata in un dialogo tra due leader comunisti che si interrogano sull'opportunità di scatenare la piazza a rischio di apparecchiare un colpo di stato, questa affermazione dipinge il dubbio che stringe Rosi e il comunismo del tempo; dubbio del quale, per senso di sommo civismo, il regista vuol fare partecipe il cittadino.

Se però il ritratto dell'Italia democristiana era tutto giocato sui toni di una felicità caricaturale, forte ancora il regista di ampie e rosee riserve di speranza per l'avvenire (vedi il discorso finale del deputato comunista De Vita, con tutta la sua vibrata partecipazione che sembra a tratti caricatura), il film presente sarà la più funerea e plumbea delle riflessioni. Non a caso i riferimenti alla morte, consueti anche altrove, compaiano copiosi e tetri più che mai: dall'ossario della Cappella dei Cappuccini di Palermo, alla scena in cui è ambientata l'uccisione del protagonista del film (un museo che, tra luci astratte ["une lumière d'acquarium"[4]] e statue inanimate, materializza la posta mortale in ballo nel gioco), la storia appare così costretta entro un dilemma tragico.

Rosi, che rivoluzionario non sarà mai, inghiotte il boccone più amaro, consapevole che la situazione non consente di nutrire illusioni[5], e che

 

"Tout cela comporte naturellement une série de significations; cela va du requiem à la révolution comme on la comprenait autrefois jusqu'aux doutes, aux incertitudes, au désir de voir se réaliser le plus vite possible ces réformes indispensables pour nous permettre de modifier la qualité de vie qui est la chose pour laquelle nous sommes tous en train de lutter"[6].

 

Il tutto sapendo che il rischio mortale del conformismo e del torpore sono in agguato[7]. Come poi il tempo successivo ha rivelato a pieno.

 

C'è tempo per un ultimo film maggiore, Cristo si è fermato a Eboli (1979), tratto dall'omonimo libro di Carlo Levi in cui lo scrittore torinese narra il suo confino fascista in una Lucania arcaica tra ripe frananti dimenticate da Dio.

Rosi ispeziona un sud remoto chiuso in una silenziosa dignità, tutt'altra cosa dalle corrotte urbes dei lazzari e della mala vischiosa di Le mani sulla città. A Eboli si approfondisce quella critica allo scempio del sud, in uno scenario teatro di un ennesimo confronto di una dialettica a tre. I tre attori di questa storia sono il podestà fascista (la razionalità burocratica, l'ordine del potere), la popolazione indigena, con il suo retaggio di credenze magiche, duro lavoro e poesia spontanea (la magia, l'irrazionale) e infine l'intellettuale borghese, in bilico tra la fascinazione folgorante dei luoghi e la naturale appartenenza al mondo della civiltà. Cristo si è fermato a Eboli è una visitazione iniziatica, il sud come luogo della poesia ritrovata, fonte della vita; ma anche luogo dove la vita in comune possiede ancora una solida verità.

È il film più sentito di Rosi, forse anche il più bello; la sintesi tra didascalismo e poesia, posta nei termini più estremi della ragione e del sentimento, raggiunge vertici di puro lirismo, tra lo spoglio paesaggismo e l'osservazione complice di un'umanità primitiva, esente dalle scorie della celebrazione populista che dalla maniera romantica dei Macchiaioli sale sino al Neorealismo, passando ovviamente per le celebrazioni agro-nerborute del ventennio.

Risolto l'equivoco della mediocre favola di C'era una volta, col suo corredo di stente evocazioni arcadiche, Cristo si è fermato a Eboli è il più bel ritratto popolare del cinema italiano: meglio certo del deamicisiano e sentimentale I compagni (1963) di Monicelli, e meglio anche di quel L'albero degli Zoccoli (1978) di Ermanno Olmi con il suo volenteroso pauperismo controriformato. Va da sé che Cristo si è fermato a Eboli è anche assai più vero degli scorci del sub-proletariato pasoliniano, fradici sin nel midollo di pietismo barbarico e sensuale. Un solo precedente mi pare all'altezza: Gli ultimi (1963) di Vito Pandolfi, adattato dalle memorie del prete-letterato David-Maria Turoldo. Iniziava sulle note del Rigoletto, con un carretto condotto a mano in paese da contadini; Bertolucci lo aveva visto e mandato a memoria per filmare l'inizio di quella saga da far-west padano e fascista che era Novecento (1976).





Lo scialbo e didascalico (film di una crisi nera e senza uscita) Tre fratelli conferma poco più tardi che la scommessa di Cadaveri eccellenti è persa. La storia di quei tre fratelli smarriti nell'Italia del terrorismo si può risolvere solo in sogno, il regista ne è consapevole; ma nei vagheggiamenti di un nuovo ciclo vitale, affiora un sentimentalismo che pare a tratti un auspicio regressivo: la bambina simbolo della purezza arcadica agreste, il vecchio padre semprepiangente, l'educatore affranto (figura in cui il regista vede riflessa la vocazione ad un mestiere ormai votato all'inutilità), il sogno dei bambini che ripuliscono il mondo dalle brutture... Da tutto il film traspira un forte senso di frustrazione, segno che il regista non sa più a che votarsi.

Da regista e intellettuale organico, sempre ligio alla storia e a sistemi di pensiero aggregativi, Rosi non si trova più in una situazione che a rapidi passi liquida qualsiasi ambizione di essere, comprese le manovre del più candido dei riformismi. A un tempo di grandi patti e unificazioni, in cui si moltiplicano le già facili occasioni del conformismo, i saperi positivi più manovrieri vanno subito in crisi. Il realismo politico del regista non consente svolte fuori del seminato, è un passo troppo oltre ogni ideologia o orizzonte accessibile, specie per chi aveva nutrito la speranza di colmare col cinema il vuoto tra popolo e vita politica, portando l'uno a essere protagonista dell'altra. È certo straziante vedere quel vuoto spalancarsi fino a inghiottire costrutti e speranze; pure il regista non se la sente di mettere 'contro' i due.

Quel riavvolgersi nelle memorie consolatorie di Tre fratelli denuncia però l'affiorare di una sorta di impotenza. È la sola vera debolezza in questa mirabile carriera di cineasta, cui manca la prontezza di ammettere che era tempo di ripartire da zero. Restano le consolazioni del mito vivificante dell'erotismo senza età (Carmen, 1984), o il culto di una memoria ossequiante il passato, partecipe e commossa, ma a rischio anche di una impasse ufficiale (La tregua, 1997).

L'amatissimo (da Rosi intendo) John Huston ne L'uomo dai sette capestri risolveva diversamente la questione: con un'ultima apparizione leggendaria, lo spirito delle leggi Roy Bean, ormai vecchio, quasi fantasma donchisciottesco, radeva al suolo la città corrotta dal capitale, scatenando in un'ultima e improbabile carica a cavallo un immenso e simbolico rogo purificatore. L'urbe sfatta tornava terreno brullo per rifondare una civiltà.

Si risparmiavano così gli epiloghi funesti, le commedie attualissime del vorrei ma non posso, con gli energumeni eloquenti e i burocrati inteccheriti. Per un regolamento dei conti ancora da venire. 

 

 

 



[1]             È lo stesso Rosi a spiegarlo nel corso di un'intervista con Michel Ciment: "[Nottola] È un personaggio che mi interessa, per la sua forza, la sua energia, che deve riuscire a esprimere concretamente. È una forza a livello primitivo, non guidata da una cultura, da una coscienza morale; e poiché la società in cui vive non lo condiziona a esprimersi in senso positivo, lui lo fa in senso negativo [...] M'interessa l'umanità di Nottola. È un personaggio come lo è De Vita, e quella scena chiarisce i limiti di De Vita: limiti che in seguito gli fanno assumere quella posizione romantica che mi è stata rimproverata da una certa sinistra italiana". Michel Ciment, Dossier Rosi, Torino, Il Castoro, 2008, p. 93.

[2]             Michel Ciment, Op. cit., p. 101.

[3]             Coetanei, e venuti dalla medesima radice letteraria (anche Todo Modo derivava da un romanzo di Sciascia), i film di Rosi e Petri condivisero il medesimo destino: un oblio decennale da schermi e palinsesti. Se ne riscosse per primo Cadaveri eccellenti, mentre su Todo modo, salvo una fugace programmazione notturna negli anni '90, permane un esilio permanente dalla televisione. Solo di recente il film di Petri è tornato disponibile in vendita negli ultimi anni.

[4]             Così Francesco Rosi in un'intervista a Jean Gili, raccolta in Le cinéma italien, Parigi, Union Général d'Éditions, 1978, p. 263.

[5]             "[Le parti communiste] ne se trouve pas dans les conditions de réponse à une provocation de type par un acte qui pourrait provoquer une catastrophe, un désastre". Francesco Rosi in Jean Gili, Op. cit., p. 264.

[6]             Francesco Rosi in Jean Gili, Op. cit., pp. 264-265.

[7]             "Je me rends compte qu'il y a un risque a montrer ce type de doute parce que, dans la societé où nous vivons, il y a une forme de conformisme qui émerge même de la gauche et qui naît peut-être de la difficulté à affronter certains problèmes d'articulation difficile. Cependant, je considère qu'un intellectuel, ou mieux un artiste, qui a pour s'exprimer des moyens, des instruments qui appartiennent à l'art, s'il en ressent la nécessité, doit assumer ce risque". Francesco Rosi in Jean Gili, Op. cit., p. 265.




Scarica in formato pdf  


      
Sommario Primo Piano

Il contatore dei visitatori Shiny Stat è attivo da dicembre 2006