di Michele Goni
Orson Welles non
avrebbe mai voluto che 'Rosebud', la parola pronunciata dal tycoon Kane
in punto di morte, fosse soggetta a una investigazione chiarificatrice. Era un
termine prolusivo a un mistero che tale doveva rimanere. L'enigma resta, anzi
il film con il suo profluvio di artifici visivi barocchi, tra specchi e ombre
dove tutto appare più che essere, si industriava a infittirlo, accludendolo al
fine come motivo fondante della realtà stessa, come ordine indifferente alle
compartizioni morali correnti del puritanesimo ufficiale.
Il mito
originario e appagante, tutto americano, dell'uomo d'affari che si fa strada un
successo dopo l'altro, era demolito da Citizen Kane insieme al suo
annesso e ingannevole sistema iconografico. Le immagini troneggianti sui
manifesti, le apparizioni pubbliche tronfie e garrule del grande uomo di
successo, divengono sempre più pallide e sproporzionate con il progredire nel
film di un disvelamento delle miserie della vita privata del protagonista. Alla
fine il potere non appaga.
È risaputo che
la figura di Kane era ritagliata su misura su quella di Howard Hughes,
l'eccentrico miliardario americano protagonista delle cronache del tempo, un citizen
Berlusconi all'ennesima potenza, innamorato del volo e degli aerei tanto da
produrre una delle più inverosimili battaglie aeree mai girate al cinema (Angeli
dell'inferno, 1930), con innumerevoli velivoli a giostrare da comparse, e
morti annotati sul taccuino degli incidenti sul set.
Non era quindi una
semplice messa in mora di un mito qualsivoglia, ma l'attacco al cuore del
potere industriale più arcigno sotto forma del suo volto più noto. Welles pagò
il suo affronto con un bando perpetuo dal circuito della Hollywood ufficiale.
Nacque così, in
seno all'industria più organizzata ferrea e conservatrice, il mito del cineasta
ribelle. Ne aveva favorito il sorgere un clima politico di rinnovamento, nonché
la rottura con quella Germania nazista – con tutto ciò che questo comportava in
termini di scelte e orientamenti politici – che ai grandi capi di Hollywood
(pure erano tutti ebrei, se si eccettua lo Zanuck di Via col vento) non
era mai troppo dispiaciuta.
Nonché essere in
pieno contrasto con i ritratti benevolmente leggendari dei padri della patria,
l'esempio di Welles era un'alternativa poderosa, di libertà assoluta, a quello
più formale e impegnativo del pedagogista rivoluzionario alla Ejzenstein,
ingessato nelle simmetrie concettose della sua martellante dialettica filmica.
Con poche eccezioni maestose (Ivan il Terribile e La congiura dei
Boiardi) a rischio di purghe ed epurazioni.
I grandi
naturalisti 'contro' del cinema americano venuti dopo, hanno tutti, chi più e
chi meno, da fare i conti con Welles e il suo cinema, da Elia Kazan a Nicholas
Ray, da Robert Aldrich a Sam Peckinpah, ma anche da Samuel Fuller a Richard
Brooks.
Né è finita qui.
Il trattato contro le forme della moderna politica barocca che è Citizen
Kane, l'anti-Principe cinematografico del secolo breve, con la sua disamina
acuta fin nelle pieghe formali, dei rischi della civiltà di massa (soggetta
alla fascinazione carismatica e all'asservimento mediatico), assomma in
sé due propositi fondanti, da cui si diramano le principali correnti critiche
della cinematografia moderna, che dal dopoguerra giunge sino agli sgoccioli
delle avanguardie teorizzanti: la critica del linguaggio e quella
dell'informazione, che sono poi le due forme predilette con cui si esercita il
potere delle grandi istituzioni collettive. Citizen Kane in superficie è
la parabola esemplare di un'ascesa irresistibile fallita per un nonnulla; ma
quella scalata abortita in un mistero metafisico insondabile, è un compendio
del caleidoscopio formale e narrativo che struttura la trama del film,
l'inchiesta irrisolta sull'ultima parola del morente. Ecco un'altra consegna
nichilistica per il mezzo secolo a venire: se il potere è qualcosa che non
appaga la riduzione dell'umano a congegno oliato, sia pure il più ben
remunerato, informare non equivale a risolvere né tanto meno a educare.
Le avanguardie,
specie dalla Nouvelle Vague in poi, si industrieranno con accanimento a
ribadire il rischio di un asservimento linguistico insito nelle forme più
gloriose del cinematografo. Godard se ne farà forte nei suoi film-saggio, di
cui resta però soprattutto la critica capillare interna alla storia del
cinematografo delle Histoires du cinéma; ma restano anche in negativo le
concessioni allo snobismo rivoluzionario de La cinese (1967), con le sue
troppe rivendicazioni simboliche, il mito del proletariato sbandierato e più
che sospetto. Mi pare che in molti film quel vagheggiare il mito della
rivoluzione avvicini Godard a Ejzenstein, entrambi intellettuali borghesi più
bravi a baloccarsi con gli stemmi e le insegne di quanto non lo siano a fabbricare
le storie e la lingua viva di una nuova rivoluzione, a meno che tali non si
vogliano ritenere i miti edificanti del passato, gli happenings
ciarlieri, o gli auspici propositivi dell'avvenire ripetutamente evocati nelle
messe in scena.
Il rivoluzionario
duro e puro, il Saint-Just del caso (ma senza il fanatismo e la retorica di
quest'ultimo), o forse un novello Trotskij senz'armi (ma ben avveduto sulle
strategie machiavelliche del nuovo terrorismo occidentale), spetta a Guy Debord
di incarnarlo con la sua aspirazione a un integralismo puritano della morale
rivoluzionaria. Negarsi per sempre alla società dello spettacolo, evitandone le
comparsate mediatiche, fu un modo di sfuggire l'irrealismo avvilente
dell'avversario.
Il suicidio di
Debord, avvenuto poco prima dell'insolito appuntamento con un'apparizione
televisiva (fu forse la mattina del giorno fissato per la messa in onda), sarà
stato certo la disperazione del vinto, ma il gesto risuona di una sua sinistra
e cristallina perfezione: disertare quell'ultimo appuntamento, non sarà stato
per caso per l'intellettuale rivoltoso, tendere un ultimo agguato a un nemico
che, sperando da ultimo di metterlo nel sacco, lo voleva inchiodare al
narcisismo e alla vanità specchiata della recita mediatica? Se così fosse,
saremmo di fronte a un puro e insieme estremo atto di rivolta paradossale: più
che un autodafé, un harakiri militare, un suicidio da apache irredento che,
spalle al muro, alla sopravvivenza grigia nelle riserve pestilenziali di una
civiltà corrotta preferisce la morte.
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Francesco Rosi premiato col Pardo d'Oro
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Tanta lucida
dedizione non è di tutti. C'è chi invece ai simboli, alla lingua e alla
persuasione affida ancora il proprio sentire.
All'opposto
della rivolta linguistico-sociologica di Debord, sta il più umano esercizio di
allerta di cineasti dediti allo smascheramento, agli appostamenti, ai
pedinamenti problematici, spesso in seno a un dubbioso naturalismo. Ecco dunque
le geometrie del complottismo di un Fritz Lang (Il dottor Mabuse),
l'invettiva di un Costa-Gavras (da Z - L'orgia del potere a L'affare
della sezione speciale), i drammi letterari di Joseph Losey (Il servo,
L'incidente) o ancora le fatali computazioni di Stanley Kubrick (Spartacus,
Orizzonti di gloria).
A questa
nobilissima schiera di ultimi umanisti, va aggregato anche Francesco Rosi, la cui scomparsa pochi
giorni addietro è avvenuta tra scarsi clamori. Gli fu forse fatale un pudore di
regista contro, mai rivoluzionario, ma sempre in sottrazione rispetto alle
ardenti mitografie del tempo.
Diversamente da
coetanei come Damiano Damiani o Elio Petri, che sulla ricognizione della
recente storia patria si gettano con foga, sconfinando talora nell'abbaglio (Indagine
su un cittadino al di sopra di ogni sospetto) o nella computazione sciatta
e corriva (Vamos a matar, compañeros), ma sempre in linea con le
risonanze d'impatto delle parole d'ordine del tempo; diversamente quindi dalla
partigianeria ideologica più scoperta, Rosi agisce con calma, acquisendo con
scrupolo i documenti necessari a fare chiarezza sul caso. Indi l'istruttoria
illuminante, una forma cinematografica frutto di una meditazione complessa,
musiva e polifonica, nella quale si sovrammettono la struttura della finzione
ai materiali informativi. Di qui la trilogia che lo consegna alla fama di un
tempo ubriaco di ideologia e politica: Salvatore Giuliano, Il caso
Mattei, Lucky Luciano. La dialettica documento-finzione è evidente
retaggio dell'epica brechtiana, secondo una concezione nobilmente pedagogica
dello spettacolo, destinato a sollecitare lo spettatore – e non solo quello
borghese.
Il modello
esteriore della trilogia fa riferimento a Citizen Kane, senza però
precipitare al termine la storia nell'abisso di una realtà barocca
indecifrabile, segno elettivo dell'aristocrazia dei personaggi wellesiani,
nonché di quella del regista stesso, che a più riprese si mostra oscillante tra
il fascino della grandezza individuale e la consapevolezza della corruzione che
induce il potere nelle sia pure più eccezionali personalità. L'infernale
Quinlan del film omonimo è un
poliziotto geniale, scova il male e giudica il reo prima che se
ne siano date le prove. Per fare giustizia l'ispettore non va però per il
sottile, sconfinando a più riprese oltre la frontiera che lo separa
dall'avversario. Machiavelli approverebbe, Nietzsche pure. Ma siamo in
democrazia, non c'è posto per chi agisca scopertamente in spregio alle regole,
sia pure per fini superiori.
Quinlan,
Arkadin, Kane devono farsene una ragione: il meglio lo hanno in serbo i paesi
che fabbricano gli orologi a cucù, da secoli ignari delle guerre intorno. Ma è
più una legge di mercato, che non una morale: gli affari migliori si fanno in
tempo di pace. Allora la pace rischia di diventare il tempo dei lupi. Una volta
sposata l'ipotesi, abolite, almeno a proclami, le guerre e le ingiustizie, chi
terrà a bada le belve in agguato dietro i cavilli e le leggiucole predisposte
ad arte da chi mena le danze?
È anche quello
che si chiede John Huston ne L'uomo dai sette capestri, storia del
sedicente sceriffo matto Roy Bean, personaggio realmente esistito che, bibbia
in pugno, dettava legge “a ovest del Pecos” al tempo del selvaggio West. Quella
di Roy Bean era una legge fatta con metro grezzo e non sempre limpida, ma pur
sempre garantita da un patto schietto tra uomo e uomo, in grado di riportare
una rude civiltà in mezzo al vuoto del deserto. Non però abbastanza accorta da
reggere l'assalto dei predoni borghesi che si arricchiranno riducendo la
comunità a un sobborgo petrolifero maleolente.
È ovviamente
l'allegoria di uno spirito anarchico: meglio la selva dei bruti che la tiepida
legge dei pavidi, perché con essa giunge il frollimento degli spiriti e delle
energie.
Ma l'America è
là, lontana, e nel ciclo compiuto della sua democrazia pur giovane si affaccia
già un crepuscolo della civiltà.
A un'Italia
sottomessa da secoli, è dato ancora di sperare, anche forse un poco alla cieca,
specie se il frutto della libertà sia ancora da sperimentare. Che tra le rovine
del dopoguerra possa miracolosamente attecchire?
Ecco allora in
Rosi un programma da buon pedagogista illuminato e pratico, che prima di tutto
vuole riscattare il popolo da una millenaria incultura. Occorre dargli dignità,
autonomia di pensiero, ripulirlo e nutrirlo, senza gettarlo allo sbaraglio come
era accaduto al tempo delle trincee (Uomini contro), o delle avventure
coloniali del ventennio (Cristo si è fermato a Eboli); né a Rosi pare
onesto chiamarlo in parte nelle battaglie delle piazze borghesi (I tre
fratelli). Non bisogna
indottrinare a forza, secondo i precetti del realismo socialista
zdanoviano e dell'arte di regime. Meglio il teatro brechtiano, con la sua
commovente utopia applicata al cinematografo e la sua disciplinata autodifesa
raziocinante.
I misteri
soggiacenti alle vicende di Salvatore Giuliano, Enrico Mattei e Lucky Luciano
sono indubbiamente soggetti accattivanti per dar forma a un'epica a mezzo tra L'opera
da tre soldi e il gangster's movie statunitense, che in fondo
nascono dallo stesso milieu. La seduzione del mistero narrativo dei tre
film è concepita per intrattenere l'immaginazione in un prolungato sforzo di
ricerca della verità che, infine delusa, si dovrà appagare della problematicità
in sé, come avviamento a una storia sempre in fieri e in atto di
rimodellarsi, suscettibile di ripensamenti e modifiche.
Il risultato non
è un film-saggio con le sue problematiche convergenze-divergenze di materiali
culturali, ma una sorta di intrigo-documentario popolare esalato in mistero di
cronaca. Sempre però attento a che il caso singolare risalti come exemplum
di una storia maestra per tutti, in una dialettica andata e ritorno tra il
concreto dei fatti e l'astrazione ponderata dell'interpretazione.
Ed è la fitta
rete creata dal montaggio dei materiali intersecantesi a restituire al caso
particolare la sua dimensione di dramma collettivo (perché “la sola psicologia
è il montaggio”, senza nessuna concessione per gli eroi).
Già in Salvatore
Giuliano (1962), pure ancora modellato sulle esperienze originarie
del cineasta, si può cogliere questa maniera di procedere: quel sud in bianco e
nero, plastico ma privo di slanci pittorici è forse in parte debitore de La
terra trema di Visconti (del quale Rosi fu aiutante per la realizzazione
del film 'verghiano' e verso il quale nutrì sempre una grata devozione
di allievo), film atono, astratto, più
una ricognizione documentario-etnografica sul modello dei film di Flaherty, che
non una visitazione sociale del sud più primitivo. La terra trema deve
essere sembrato a Rosi ‒ e
forse lo fu ‒
una sorta di grado zero del realismo italiano, una documentazione cruda e senza
respiro cui riferirsi per sgomberare gli equivoci del vecchio naturalismo; un
atto costitutivo, insieme anti-retorico e anti-decadente, ovvero uno sguardo esente
da congetture letterarie neo-barbariche o sensuali. Era dunque una buona
piattaforma per il cronachismo complesso di Salvatore Giuliano.
Il successo è
immenso, il tripudio critico mai più eguagliato.
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Una immagine di Salvatore Giuliano (1962)
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A differenza di
quanto accadeva in Salvatore Giuliano (in cui il bandito Giuliano era
assente dal film, in sdegno anche al dramma psicologico o verista), ne Il
caso Mattei (1972) il personaggio del titolo è anche il protagonista del
film. Ne viene un senso di ambigua fascinazione mitica per il personaggio e la
sua statura individuale, una sorta di campione dell'azione civile preso al
laccio dagli interessi che ne intralciano l'operato. Per un attimo viene quasi
meno il contegnoso distacco del dispositivo da parte del regista: giunti al
punto in cui Mattei muore, precipitando con il suo aereo, Rosi compare infatti
in scena nell'atto di intervistare i personaggi che furono accanto
all'ingegnere nei suoi ultimi giorni in Sicilia. Quella coda tutta di cronaca
mostra l'accanimento esasperato del regista per i troppi dettagli trascurati
dall'inchiesta ufficiale e per le reticenze omertose alle sue domande. Ma i
tempi sono eroici, l'entusiasmo alle stelle: pur tra tante cautele, Rosi si
concede un'invocazione finale per un futuro migliore.
Non c'è però
spazio per la disperazione. Rosi l'ha del resto sempre ribadito: anche laddove
i suoi film si vanno a cacciare nei più intricati viluppi del potere, sino a
toccarne gli esiti ripetutamente mortali (gli affari col potere sono da sempre
contigui alla morte, è un assunto tragico e classico), è sempre per un'esigenza
di chiarezza e quindi serve rischiare.
Ecco allora Lucky Luciano (1973),
con la storia del padrino della mafia statunitense che si intreccia alle
vicende del meridione del dopoguerra, tra affarismo e malaffare. Qui la storia
si infittisce, e l'intrigo attinge vertici di un machiavellismo labirintico, in
un gioco di ombre dov'è difficile distinguere chi parteggia per chi. Da
siffatto groviglio può sfuggire anche una considerazione di stoica
rassegnazione: così il capo della commissione d'inchiesta Harry J. Anslinger
confessa a Charles Siragusa (l'agente americano della narcotici che prima
incastrò e poi scarcerò, salvo riprendere a indagarlo in Italia, il potente
Luciano), che in fondo è tutto un balletto
destinato a risolversi in un girotondo in cui gli avversari che si fronteggiano
si annullano a vicenda.
Lucky Luciano e Il caso Mattei analizzano
entrambi fitte reti di potere, ma si distinguono per il diverso modo di interpretare il
soggetto intorno a cui ruota l'intrigo: se Mattei è un individuo eccezionale, e
la sua lotta contro il potere assume una dimensione eroica ed esemplare;
Luciano è un non-personaggio, una proiezione dei molteplici interessi che fanno
capo a lui. Il solo momento in cui questa maschera dell'intrigo rivela un fondo
umano, è quando ormai si approssima alla morte. Lì il regista si concede anche
un moto di compatimento per il personaggio, ma non tanto per la pietà che
suscita l'uomo in sé, quanto per le illusioni di cui si era nutrito il suo
sogno di dominio. Ed è questa forse la più compiuta delle allusioni a quel côté
ideologico progressivo presente già in Citizen Kane.
Frammezzo alla trilogia sulla politica moderna, Rosi
firma una serie di film eterogenei, per fini e riuscita. Primo tra essi Le
mani sulla città (1963), memorabile esempio di ritratto corale di classe
dirigente cittadina. Sullo sfondo di una Napoli stretta nella morsa della
speculazione edilizia, si narrano quelle che potremmo definire le gesta di
Nottola (un potente costruttore, impersonato da Rod Steiger) e del consiglio
comunale cittadino, governato in quel tempo dall'intreccio affaristico del
potere democristiano con quello monarchico. A contrastare la cinica egemonia
dei due partiti conservatori, è il partito comunista, alla cui testa Rosi mette
il garrulo De Vita, interpretato da un vero consigliere comunista. Il film è
concepito e realizzato come un vibrante saggio didascalico sui guasti prodotti
dal potere sulla vita civile di una città del sud, dettaglio importante per il
regista, convinto assertore di quell'interpretazione storica di un sud atavico
e pre-urbano, che lo condanna all'arcaismo della sua corruzione. L'ampio spazio
di manovra della trilogia si riduce qui sensibilmente: non più le sottili
arcate dialettiche e fantomatiche tese tra capitale e mondo rurale, tra civiltà
capitalista e terzo mondo, o ancora tra centri e periferie globali. Le mosse,
la vita della città, si decidono tra i palazzi di piazza, dove si confrontano
in schermaglia i contendenti dei partiti avversi.
Come già in parte in Lucky Luciano, Rosi non
annerisce in modo univoco tutti gli affiliati al potere, conferendo loro
precise sfumature a seconda delle tipologie che vuol ritrarre. In questa
piccola antologia di mirabile realismo antropologico, Nottola risalta come il
personaggio più magistrale e vivo in assoluto. Nella scena in cui
l'imprenditore conduce De Vita in visita a uno dei suoi palazzi (è per
mostrargli i pregi delle sue abitazioni: “chist'è nu cesso” ‒ dice ‒, premendo il
tasto dello sciacquone!), la rozzezza di Nottola spicca per vitalità a cospetto
della loquela astratta e populista del politico progressista che, spiazzato
dalle ragioni dell'avversario, si arrampica sugli specchi dell'idealismo[1].
E ancora leggendarie risultano le sequenze del consiglio comunale, dove tra le
parole infiorettate, si insinua a poco a poco il perfetto e fin amabile cinismo
del democristiano interpretato da Randone, a trovare una ragione di compromesso
in nome del “bene” comune degli affari.
Non è una commedia all'italiana con le sue
deformazioni di spirito e l'ilarità spiegata. Le mani sulla città è il
ritratto esemplare (in quanto rappresentativo di ogni altra situazione analoga
a questa) di quel cinismo profondo che permea il governo di tanti comuni
italiani, nel passato come nel presente, eseguito come uno studio tipologico:
una volta di più dal particolare all'universale, come servizio a disposizione
di chi voglia intendere. Quei colori stesi in modo così rapido ed efficace, la
sintesi ideologico-caricaturale delle battute, la semplicità diretta e fin
mitica della trama, tutto fuso in un insieme a esaltare nei ritratti dei guitti
uno straripante e paradossale afflato shakespeariano.
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Rod Steiger, protagonista di Le mani sulla città (1963)
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Del 1967 è la riduzione cinematografica de Lo
cunto de li cunti di Giambattista Basile: C'era una volta è un film
ameno, ma di poca energia, complice forse la scelta degli attori (Sofia Loren e
Omar Sharif) che già da soli non spiccano per mobilità e fine sentire. Qui
forse, prima e sola occasione, il popolare Rosi si impiglia in un manierismo
popolaresco superficiale di poca spendibilità.
Segue uno dei film più riusciti del regista, il
coraggiosissimo Uomini contro (1970), celebre e maledetto film sulla
Grande Guerra tratto dal romanzo di Emilio Lussu Un anno sull'altipiano.
Anche questo è un film di archetipi che parlano. La sostanza che informa
ciascuno di essi è una visione particolare della guerra: il generale Leone è la
retorica bellica di alto rango; all'opposto di questi c'è Ottolenghi, il
socialista rivoluzionario che vede nella guerra una forma di oppressione a
danno delle classi popolari; in mezzo ai due estremi si situa la figura del
tenentino Sassu, il giovane borghese ardimentoso che cammin facendo si trova a
correggere le proprie posizioni, sino a rovesciarle radicalmente. In un film
apparentemente disarticolato, costruito per quadri e situazioni che non hanno
il crescendo tipico del cinema bellico americano, c'è comunque una tensione
dialettica tutta interna alla figura di Sassu, il quale in corso d'opera si
trasforma gradualmente finendo quasi per divenire un ribelle.
I contrasti di classe latenti in tutto il cinema di
Rosi, nel teatro della guerra esplodono inevitabilmente, individuando la fonte
di tutti i mali: il potere che tutto regge da dietro le trincee, quelle nemiche
ma anche quelle amiche, dove i soldati agiscono a comando come marionette. Più
che un film sulla guerra come devastazione bellica, come evento
alternativamente eroico o calamitoso, dove si alternano colore e avventura, tra
partigiani, martiri e carogne, Uomini contro finisce per essere un
dramma ideologico-didattico sugli uomini in guerra, i quali, nelle opportune
circostanze si tramutano in 'uomini contro', giungendo in prossimità di un
nuovo pensiero, ciascuno a seconda del grado di consapevolezza e
dell'estrazione sociale da cui proviene. Sassu da buon borghese accetta il
sacrificio della fucilazione finale, laddove Ottolenghi giunge a incitare i
suoi commilitoni alla rivolta. Sono due reazioni commisurate a eventi storici
dai quali i personaggi non possono e non devono smarginare, pena falsificare la
storia successiva (“Se non avessi fatto morire Ottolenghi avrei dovuto girare
un altro film, un film sulla rivoluzione sovietica, già fatto da Ejzenstein.
Perciò Ottolenghi doveva morire. In Italia c'è stato poi il fascismo e, come
sappiamo, la presa di coscienza da parte di persone come lui non è bastata a
evitarlo[2]”).
Più che la cronaca illustrata di una guerra, nel
disegno del suo autore Uomini contro diventa una specie di durissima
allegoria della lotta di classe nell'Italia di inizio '900, fissata nel teatro
dei più feroci contrasti, tra i ripetuti massacri insensati e lo scialo delle
retoriche. Sullo sfondo gli spettatori-vittime, i soldati semplici, specie i
contadini del meridione, legati a quel senso fatale degli avvenimenti (la
storia come evento naturale ostile) tipico del mondo pseudo-feudale che li ha
generati.
Se l'impegno didattico per Rosi è rilevare nelle
contingenze del reale le tensioni aggallanti, conferendogli forma di racconto e
di saggio, senza ombra di dubbio questo, per la violenza dei contrasti (di
metodo e di rigore, non meno che tematica), è il suo film più bello e riuscito.
La reazione a Uomini contro fu veemente, sia
da parte dei capataz che, tra ammutinamenti e ordini disattesi, fiutavano
sollecitazioni politiche importune, sia da parte della sinistra che vedeva
vanificarsi definitivamente quel vagheggiamento del popolo come sol
dell'avvenire, cullato dal sentimentalismo del cinema neorealista.
Il film fu girato tra venti sempre contrari, tanto da
costringere il regista alla ricerca di capitali e scenari stranieri (da ultimo
Rosi se lo pagò da sé, rara attestazione di coraggio e forza, in una
cinematografia, quella italiana, dove i temerari non è che abbondino). Poi il
processo per vilipendio alle forze armate, da cui il regista uscì prosciolto da
ogni accusa, ma che indusse alla sospensione delle proiezioni in sala e alla
scomparsa del film per più di due decenni. Da ultimo la ricomparsa, tra
palinsesti anonimi che distrattamente lo recuperavano a visioni ormai negate
all'eco di possibili scuotimenti.
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Gianmaria Volonté in Uomini contro (1970)
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Con Cadaveri
eccellenti (1976), adattamento cinematografico del romanzo di
Sciascia Il contesto, Rosi torna per un momento al saggio politico.
L'occasione è quella di un apologo funereo, tra complotti e visioni di un
possibile colpo di stato. Diversamente
dal romanzo l'ambientazione è ben definita, si tratta della Palermo mortuaria
dei misteri mafiosi, ma raffigurata in
una metafisica di interni e scorci urbani che fanno pensare a tratti alla
Mitteleuropa posticcia de Il processo di Welles, con la sua analoga
sintesi di ambientazioni tanto lontane da far pensare a un non-luogo. Forse
proprio da Welles Rosi prende a prestito il gusto inusuale e accentuato per una
profondità di campo utile a produrre un minaccioso effetto di straniamento sul
personaggio, quasi i luoghi incombenti e astratti materializzassero quella tela
di intrigo che lo soffocano sino a ucciderlo.
L'argomento rammenta film come Perché un
assassinio (1974) di Alan Pakula, in cui rivive il clima dell'America dei
complotti, dell'assassinio Kennedy, coi suoi misteri risaputi o troppo noti. Ma
l'analogia si ferma alla superficie, perché Cadaveri eccellenti non è un
film naturalista, non quindi il semplice ritratto psicologico della
modesta e cupa Italia delle convergenze parallele e della strategia della
tensione. Come il coetaneo (1976) e quasi profetico, fin più impressionante, Todo
modo di Elio Petri[3],
siamo nel pieno di un'allegoria
apologetica, un nuovo episodio del grande affresco didattico-politico sulla
storia contemporanea, o se vogliamo, una commedia della coscienza civile.
Quell'ispettore che scopre il gioco sotterraneo della politica è un cavallo di
Troia (quasi fossimo nella Carriera di un libertino, o in un'Opera
del mendicante, rifatta a misura d'inchiesta), concepito per introdurre lo
spettatore nel vivo di un dilemma ideologico che si pone alla fine nel modo più
netto: “compromesso o rivoluzione”. Pronunciata in un dialogo tra due leader
comunisti che si interrogano sull'opportunità di scatenare la piazza a rischio
di apparecchiare un colpo di stato, questa affermazione dipinge il dubbio che
stringe Rosi e il comunismo del tempo; dubbio del quale, per senso di sommo
civismo, il regista vuol fare partecipe il cittadino.
Se però il ritratto dell'Italia democristiana era
tutto giocato sui toni di una felicità caricaturale, forte ancora il regista di
ampie e rosee riserve di speranza per l'avvenire (vedi il discorso finale del
deputato comunista De Vita, con tutta la sua vibrata partecipazione che sembra
a tratti caricatura), il film presente sarà la più funerea e plumbea delle
riflessioni. Non a caso i riferimenti alla morte, consueti anche altrove,
compaiano copiosi e tetri più che mai: dall'ossario della Cappella dei
Cappuccini di Palermo, alla scena in cui è ambientata l'uccisione del
protagonista del film (un museo che, tra luci astratte ["une lumière
d'acquarium"[4]]
e statue inanimate, materializza la posta mortale in ballo nel gioco), la
storia appare così costretta entro un dilemma tragico.
Rosi, che rivoluzionario non sarà mai, inghiotte il
boccone più amaro, consapevole che la situazione non consente di nutrire
illusioni[5],
e che
"Tout cela comporte naturellement une série de significations; cela
va du requiem à la révolution comme on la comprenait autrefois jusqu'aux
doutes, aux incertitudes, au désir de voir se réaliser le plus vite possible
ces réformes indispensables pour nous permettre de modifier la qualité de vie
qui est la chose pour laquelle nous sommes tous en train de lutter"[6].
Il tutto sapendo che il rischio mortale del
conformismo e del torpore sono in agguato[7].
Come poi il tempo successivo ha rivelato a pieno.
C'è tempo per un ultimo film
maggiore, Cristo si è fermato a Eboli (1979), tratto dall'omonimo libro
di Carlo Levi in cui lo scrittore torinese narra il suo confino fascista in una
Lucania arcaica tra ripe frananti dimenticate da Dio.
Rosi ispeziona un sud remoto chiuso in una silenziosa
dignità, tutt'altra cosa dalle corrotte urbes dei lazzari e della mala
vischiosa di Le mani sulla città. A Eboli si approfondisce quella
critica allo scempio del sud, in uno scenario teatro di un ennesimo confronto
di una dialettica a tre. I tre attori di questa storia sono il podestà fascista
(la razionalità burocratica, l'ordine del potere), la popolazione indigena, con
il suo retaggio di credenze magiche, duro lavoro e poesia spontanea (la magia,
l'irrazionale) e infine l'intellettuale borghese, in bilico tra la fascinazione
folgorante dei luoghi e la naturale appartenenza al mondo della civiltà. Cristo
si è fermato a Eboli è una visitazione iniziatica, il sud come luogo della
poesia ritrovata, fonte della vita; ma anche luogo dove la vita in comune
possiede ancora una solida verità.
È il film più sentito di Rosi, forse anche il più
bello; la sintesi tra didascalismo e poesia, posta nei termini più estremi
della ragione e del sentimento, raggiunge vertici di puro lirismo, tra lo
spoglio paesaggismo e l'osservazione complice di un'umanità primitiva, esente
dalle scorie della celebrazione populista che dalla maniera romantica dei
Macchiaioli sale sino al Neorealismo, passando ovviamente per le celebrazioni
agro-nerborute del ventennio.
Risolto l'equivoco della mediocre favola di C'era
una volta, col suo corredo di stente evocazioni arcadiche, Cristo si è
fermato a Eboli è il più bel ritratto popolare del cinema italiano: meglio
certo del deamicisiano e sentimentale I compagni (1963) di Monicelli, e
meglio anche di quel L'albero degli Zoccoli (1978) di Ermanno Olmi con
il suo volenteroso pauperismo controriformato. Va da sé che Cristo si è
fermato a Eboli è anche assai più vero degli scorci del sub-proletariato
pasoliniano, fradici sin nel midollo di pietismo barbarico e sensuale. Un solo
precedente mi pare all'altezza: Gli ultimi (1963) di Vito Pandolfi,
adattato dalle memorie del prete-letterato David-Maria Turoldo. Iniziava sulle
note del Rigoletto, con un carretto condotto a mano in paese da
contadini; Bertolucci lo aveva visto e mandato a memoria per filmare l'inizio
di quella saga da far-west padano e fascista che era Novecento (1976).
Lo scialbo e didascalico (film di una crisi nera e
senza uscita) Tre fratelli conferma poco più tardi che la scommessa di Cadaveri
eccellenti è persa. La storia di quei tre fratelli smarriti nell'Italia del
terrorismo si può risolvere solo in sogno, il regista ne è consapevole; ma nei
vagheggiamenti di un nuovo ciclo vitale, affiora un sentimentalismo che pare a
tratti un auspicio regressivo: la bambina simbolo della purezza arcadica
agreste, il vecchio padre semprepiangente, l'educatore affranto (figura in cui
il regista vede riflessa la vocazione ad un mestiere ormai votato
all'inutilità), il sogno dei bambini che ripuliscono il mondo dalle brutture...
Da tutto il film traspira un forte senso di frustrazione, segno che il regista
non sa più a che votarsi.
Da regista e intellettuale organico, sempre ligio
alla storia e a sistemi di pensiero aggregativi, Rosi non si trova più in una
situazione che a rapidi passi liquida qualsiasi ambizione di essere, comprese
le manovre del più candido dei riformismi. A un tempo di grandi patti e
unificazioni, in cui si moltiplicano le già facili occasioni del conformismo, i
saperi positivi più manovrieri vanno subito in crisi. Il realismo politico del
regista non consente svolte fuori del seminato, è un passo troppo oltre ogni
ideologia o orizzonte accessibile, specie per chi aveva nutrito la speranza di
colmare col cinema il vuoto tra popolo e vita politica, portando l'uno a essere
protagonista dell'altra. È certo straziante vedere quel vuoto spalancarsi fino
a inghiottire costrutti e speranze; pure il regista non se la sente di mettere
'contro' i due.
Quel riavvolgersi nelle memorie consolatorie di Tre
fratelli denuncia però l'affiorare di una sorta di impotenza. È la sola
vera debolezza in questa mirabile carriera di cineasta, cui manca la prontezza
di ammettere che era tempo di ripartire da zero. Restano le consolazioni del
mito vivificante dell'erotismo senza età (Carmen, 1984), o il culto di
una memoria ossequiante il passato, partecipe e commossa, ma a rischio anche di
una impasse ufficiale (La tregua, 1997).
L'amatissimo (da Rosi intendo) John Huston ne L'uomo
dai sette capestri risolveva diversamente la questione: con un'ultima
apparizione leggendaria, lo spirito delle leggi Roy Bean, ormai vecchio, quasi
fantasma donchisciottesco, radeva al suolo la città corrotta dal capitale,
scatenando in un'ultima e improbabile carica a cavallo un immenso e simbolico
rogo purificatore. L'urbe sfatta tornava terreno brullo per rifondare una
civiltà.
Si risparmiavano così gli epiloghi funesti, le
commedie attualissime del vorrei ma non posso, con gli energumeni eloquenti e i
burocrati inteccheriti. Per un regolamento dei conti ancora da venire.