di Maria Jatosti
Mattina di
febbraio. Una corsa in taxi dentro una Milano quieta, larga, ottocentesca:
stradoni, viali, slarghi, palazzi borghesi, opulenti, balconi floreali. Il
tassista ascolta Radio Popolare, è comunista. Parliamo della guerra in Irak,
dell’America di Bush e ci troviamo d’accordo su tutto. Sono arrivata. Un
portone imponente, lustro e massiccio, un bel cortile, una casa grande,
soffitti alti, finestroni alla francese, tendaggi, poltrone comode, silenzio.
Vincenzo
Consolo, ignoto marinaio sorridente, è seduto davanti a me, curioso, acuto,
ironico. Cominciamo.

Vincenzo
Consolo in casa, a
Milano, 2004
In uno dei
tuoi libri, L’olivo e
l’olivastro, dici: “Scrivere è una lotta
non solo con la realtà, ma con me stesso. Ma scrivere è la mia vocazione, il
mio mestiere”. Possiamo partire da qui, dal tuo altissimo artigianato della scrittura,
da questa grande, complessa, ininterrotta avventura, che è immersione nel
passato, nella memoria, stratificazione di culture e civiltà. Il sorriso
dell’ignoto marinaio, nel ’76, fu per me una
fascinazione... Nel tuo scrivere totale, metaforico, nella tua lingua, c’è
dentro tutto: l’antico, il classico, la storia, il quotidiano, il popolare, ma
non dialettale...
Vedi, Maria,
il dialetto si forma dai sedimenti linguistici che hanno lasciato le varie
dominazioni. Quello che io faccio, con una tecnica un po’ da archeologo
dilettante, è disseppellire la lingua che sta sotto il dialetto, scavare nei
giacimenti linguistici siciliani e immettere le parole anche arcaiche, auliche,
che hanno un significato e un significante, che possiedono cioè una loro
bellezza anche sonora, e che ti dicono molto di più del vocabolo italiano,
perché nascono da una matrice antica, vengono da parole greche, latine, arabe,
spagnole, eccetera. Dopo di che, innesto e organizzo la frase in senso fonico,
ritmico, insomma cerco di raschiare sotto la
crosta per recuperare le radici linguistiche e far capire – poiché la
letteratura è memoria – da dove veniamo, come si sono formati i nostri
linguaggi, le nostre lingue, eccetera. Nel mio caso si è parlato spesso, con
molta superficialità, di dialetto. Ma il mio non è dialetto. Lo dico con lo
stesso furore, la stessa forza con cui lo diceva Verga. Verga, che è arrivato
alla perfezione dei Malavoglia,
aborriva il dialetto ed era in polemica con Capuana, che invece lo frequentava.
Quella di Verga è un’operazione linguistico-stilistica che consiste nell’aver
abbassato il codice centrale, toscano, al livello del modo di pensare e di essere
del popolo, cioè dei pescatori e dei contadini siciliani. Pasolini lo chiama “un
italiano irradiato di dialettalità”. Non è un gioco estetico, il mio, ma etico
direi, e politico.
Un’operazione
sperimentale complessa, di grande impegno e difficoltà…
Infatti è
una strada ardua, ma ho capito che per me era l’unica possibile. Ti dico,
Maria, che ho fatto questa scelta con la consapevolezza di essere uno che
veniva dopo grandi scrittori di una generazione precedente. Parlo di Moravia,
di Calvino, di Sciascia, tutti autori che avevano scelto la cifra comunicativa,
illuministica, razionalistica. Appena ho cominciato a scrivere mi sono reso
conto che non potevo adottare lo stesso registro stilistico. Avendo vissuto il
fascismo, la guerra, quegli scrittori avevano nutrito la speranza che,
abbattuto il regime, tornata la pace, con l’avvento della democrazia si potesse
formare una società armonica con la quale comunicare, come avveniva in Francia.
Questo pensavo allora. Ma, nel ’63, quando ho pubblicato il mio primo libro, queste
speranze erano già cadute. Il sogno di una società armonica con la quale
comunicare era crollato, quindi ho adottato un mio modulo espressivo che fatalmente
mi metteva in quella linea di sperimentatori che nella letteratura moderna parte
da Verga e arriva fino a Gadda, a Pasolini. Questa è stata la mia scelta…

… che hai
perseguito tenacemente, senza cedimenti… Ma parlavi di senso etico, politico.
Vogliamo chiarire meglio questo concetto?
Vedi, al
contrario della maggior parte degli scrittori contemporanei, io non scelgo mai dei
temi assoluti, esistenziali o metafisici: i miei sono sempre temi relativi,
storici e sociali. Attraverso la scrittura letteraria ho assunto, diciamo così,
una funzione di critica nei confronti dei responsabili del malessere sociale.
Io credo che l’esistenza sia penosa, anche se sono felicissimo di essere e di
essere stato in questo mondo. Pensa a tutti quelli che non sono stati, che sono
morti bambini. È straordinario! Però vivere è arduo, noi siamo creature
fragili, sentiamo il senso della morte, il senso della nostra fragilità. Leopardi
dice che il dolore dell’esistere si può mitigare, che la società può mitigarlo,
ma quando la possibilità di rendere meno penosa, più armonica, la vita dell’uomo
viene tradita dai responsabili, allora chi scrive deve fare i conti con questo,
e scrivere diventa dunque un’azione politica. Per questo parlo di senso etico e
politico. Quando scriviamo un libro, quello che generalmente intendiamo per
romanzo, noi perseguiamo un’utopia di armonia ma rappresentiamo la dis-armonia. Il contrario di utopia
credo sia dis-topia…
È da questa concezione,
o meglio convinzione, che nasce la tua lingua ricca, densa, unica; la tua
narrazione metaforica così piena di riferimenti che diventa a volte difficile
coglierli tutti. Penso a L’olivo e l’olivastro…
In quel
libro ho eliminato completamente la finzione del romanzo. È un po’ un viaggio
nella realtà, prendendo come cifra l’Odissea,
l’Ulisse, l’eterno Ulisse. Per me – proprio in questo tempo di superficialità
dovuta all’esplosione, alla rivoluzione dei mezzi di comunicazione di massa –
la scrittura, il testo letterario, è ipertesto, nel senso di cercare di
scrivere – appunto perché, ribadisco, la letteratura è memoria – su altre
scritture e quindi di rimandare continuamente in modo implicito o anche
esplicito ad altri esempi letterari. È ciò che determina una scrittura
stratificata, nella quale spero ci sia anche un ritmo…
… una
musicalità interna, poetica. I tuoi libri, tu non ami definirli romanzi.
Sì. Ci tengo
a dire che non ho mai scritto romanzi. Il romanzo credo che non si possa più
scrivere. I romanzi li scrivevano fino al Novecento quelli che avevano sperato
in una società nuova. Oggi l’autore non sa più a chi si rivolge, chi è il suo referente.
Io credo si sia rotto il rapporto tra testo letterario e contesto situazionale.
In questa civiltà di massa, lo scrittore scrive un po’ come il poeta. È vero, la
mia scrittura tende verso la forma poetica, nel senso che il dialogo diventa
monologo. Per questo i miei libri non li chiamo romanzi, ma narrazioni. Nel
saggio su Nicolaj Leskov, contenuto in Angelus
novus, Walter Benjamin fa distinzione fra romanzo e narrazione: la
narrazione rimanda alle narrazioni antiche, orali, quelle che, appunto per
ragioni mnemoniche, eliminavano tutti gli scogli della frase… Io ho adottato
questo stile chiamiamolo post moderno, abolendo tutto quanto facevano gli autori
una volta, come, per esempio, sulla scia di Manzoni, interrompere il racconto per introdurre una riflessione filosofica.
Questo non si può più fare perché è venuto meno il dialogo con il lettore.
Quasi sempre, se nei miei libri interrompo ogni tanto la narrazione, è per
inserire una parte corale, diciamo un canto, cioè una sorta di digressione, di
commento, o di lamento, rispetto all’azione che sto narrando. Nella sua storia
della tragedia, parlando del passaggio da Eschilo e Sofocle alla tragedia
moderna, Nietzsche afferma che con Euripide c’è l’irruzione dello spirito
socratico, cioè della filosofia. Milan Kundera teorizza l’irruzione della
filosofia, dello spirito socratico nel romanzo. Il romanzo, secondo Kundera, deve essere anche saggio. Infatti nei suoi
libri lui inserisce sempre delle parti filosofiche, riflessive. Ma io non sono
d’accordo, io sostengo che oggi questo non è più possibile. Non c’è più da
ragionare… Per me nella scrittura devono esserci, come nella tragedia antica,
l’azione scenica e il coro, non lo spirito socratico.
Semmai la
riflessione storica. La storia è spesso centrale nei tuoi libri: il
Risorgimento, il fascismo…
Sì, la
riflessione storica portata dalla metafora. Io tratto temi storici, ma non a caso.
Io non parlo degli egizi, io parlo di eventi della nostra storia, del nostro
passato per rappresentare il presente. Per questo ho scelto dei momenti
cruciali. Ad esempio, nel ’92, quando ho capito che in Italia stava avvenendo
qualcosa di sinistro – non di sinistra, purtroppo – con Nottetempo, casa per casa ho voluto raccontare la nascita del
fascismo, poi, nel ’98, con Lo spasimo di
Palermo, la terribilità della lotta alla mafia, il sacrificio dei magistrati…

Tra La ferita dell’aprile, uscito nel ’63 in una collana sperimentale mondadoriana, e Il
sorriso dell’ignoto marinaio corrono più
di una decina d’anni, tredici, per la precisione. Com’era la tua vita in quegli
anni? Dove ti trovavi, cosa facevi?
Quella lunga
interruzione coincide con il trasferimento a Milano.
Perché
Milano?
Perché
Milano era la città dove c’erano Vittorini, Quasimodo, la città dov’era stato
Verga: avevo questa mitologia letteraria. Ma c’era già stata una prima stagione
milanese. Nel ’52, al tempo dell’Università, la mia famiglia aveva deciso di mandarmi
a studiare altrove; in principio io pensavo alla Normale di Pisa, ma poi ho
optato per Milano. Volevo comunque uscire dalla Sicilia, conoscere quell’“altrove”,
che per me era rappresentato da Milano. Allora a Milano c’era molta domanda di
lavoro e, finita l’Università, con la mia laurea in legge in tasca, ricevetti
diverse proposte. Ma io volevo fare lo scrittore, non mi interessava legarmi in
qualche modo al mondo dei legulei, così me ne tornai in Sicilia dove sono
rimasto fino al ’68 e dove scelsi di insegnare nelle scuole agrarie. Mi affascinava
il mondo contadino. I miei riferimenti erano da una parte Vittorini e
dall’altra Carlo Levi: Cristo s’è fermato
a Eboli e Le parole sono pietre; poi c’era la cifra di Danilo Dolci e Sciascia
aveva già scritto Le parrocchie di
Regalpietra. Tutto questo mi aveva influenzato e determinato: volevo
provare a scrivere in quella linea storico-sociologica, ma la mia era una
scrittura prettamente letteraria e così le intenzioni andavano da una parte e
la scrittura da un’altra. Infatti scrissi La
ferita dell’aprile che con il mondo contadino non aveva proprio niente da
spartire.
Com’ è avvenuta
la pubblicazione del tuo primo libro?
L’esperienza
di Vittorini e dei “gettoni” einaudiani si era conclusa e da Mondadori Vittorio
Sereni dirigeva insieme a Niccolò Gallo una collana di ricerca che si chiamava
“Il tornasole”. Mandai il dattiloscritto e dopo due anni ricevetti un telegramma.
Mi convocarono a Milano. E da lì è cominciato tutto.


Elio Vittorini e Vittorio
Sereni
A parte
quella che, implicitamente e esplicitamente, è dentro la tua scrittura, che
posto ha la poesia nella tua vita, nella tua formazione? Hai mai scritto
poesie?
Mi sono
nutrito di poeti, ma ho troppo rispetto per la poesia e so di essere un
narratore a tutti gli effetti. Naturalmente la conosco e l’ho frequentata, sia
quella italiana che quella straniera...
Chi degli
stranieri ami in particolare?
A prescindere
dai francesi, Baudelaire, eccetera, il mio poeta in assoluto, quello che mi ha
sempre affascinato, è Eliot.
Non avevo
dubbi. Il titolo del tuo primo libro è quasi una citazione.
Sì, La ferita dell’aprile è praticamente
ricalcato sulla famosa frase “Aprile è il più crudele dei mesi”... Per me
aprile significa adolescenza e quello è il libro dell’adolescenza, la mia e
l’ennesima adolescenza della Sicilia, con la ricostituzione dei partiti, le
prime votazioni, le prime lotte, la strage di Portella della Ginestra… E poi le
elezioni del ’48 con la vittoria della Democrazia cristiana...
... la
grande illusione del Fronte popolare...
Il Blocco
del Popolo, già. Negli anni Sessanta, come ti dicevo, insegnavo negli istituti
agrari perché volevo raccontare il mondo contadino, ma mi rendevo conto che quelle
scuole erano diventate una specie di inganno. Ho vissuto il tempo della grande
emigrazione meridionale, lo spopolamento dei nostri paesi. I padri dei ragazzi
che venivano a scuola da me erano emigrati e sapevo che i figli avrebbero seguito
la stessa strada, allora facevo di tutto perché rimanessero in Sicilia, consigliando
loro di abbracciare mestieri che gli avrebbero permesso di restare nella loro
terra. Alcuni mi hanno dato retta... Intanto frequentavo Sciascia, e lui mi diceva:
“Cosa ci fai qui? se fossi nelle tue condizioni: scapolo, giovane, io farei la
valigia e me ne andrei”. Un giorno mi disse questa frase lapidaria: “Qui non
c’è più speranza”. Purtroppo aveva ragione. Eravamo sotto il dominio spudorato
della Democrazia cristiana. Io avevo già pubblicato il mio primo libro e per me
si trattava o di stare con il potere democristiano mafioso oppure di essere
emarginato. Allora ho seguito il consiglio di Sciascia e, nel ’68, ho fatto le
valigie e sono partito per Milano.
Anche perché
in quegli anni era qui che bisognava stare per cambiare il mondo...
Hai ragione,
erano gli anni della Grande Speranza. Milano per me era l’antitesi della
Sicilia. La città dove c’era stata la rivoluzione industriale, di tradizione
socialista turatiana, con una equità sociale… Ma quando sono arrivato mi sono
trovato di fronte un luogo diverso, che non riconoscevo più. Quella che avevo
visto da studente era una Milano ancora di tipo portiano, con addosso le ferite
della guerra, ma con una memoria popolare ancora autentica, viva. Le speranze
si sono riaccese poi, nel ’68: i conflitti sociali, gli scioperi... Per me Milano
in quegli anni era una realtà da studiare e da capire... E intanto scrivere.
Così cominciai a collaborare a dei giornali tra cui «Il Tempo illustrato», un
settimanale molto bello, diretto da Nicola Cattedra.
Lo ricordo
bene. Ci scrivevano Bocca, Pasolini, Bianciardi... La critica letteraria la
faceva Giancarlo Vigorelli…
È vero. Mi
mandarono subito a fare un’inchiesta sui cavatori di pomice di Lipari. Fu una
grande esperienza… Dalla Sicilia m’ero portato dietro tante idee… Se ti
ricordi, nel Sessanta, con la celebrazione del centenario dell’unità d’Italia,
c’era stata una revisione critica del Risorgimento, per cercare di liberarlo da
tutta l’oleografia romantica, e, di conseguenza, la rilettura di Gramsci, di
Salvemini... Ma poi, nel ’68, fu rimesso tutto in discussione. Allora Vittorini,
Calvino invitavano i giovani intellettuali a inurbarsi per studiare la
trasformazione della società italiana, il neocapitalismo… Tutte queste idee,
tutti questi elementi, le lotte contadine, eccetera, mi hanno portato a
scrivere Il sorriso dell’ignoto marinaio.
Ma a Milano,
a parte la scrittura, le collaborazioni giornalistiche, come vivevi? Per chi
lavoravi?
Mi vergogno
a dirlo, ma ti risponderò come feci una volta con Malerba, il quale mi chiedeva
che mestiere facessi: “Lavoro in una fabbrica d’armi”, gli dissi. Intendevo la
Rai, che credimi era peggio di una fabbrica d’armi.

Come c’eri
finito? E com’era lavorare per la televisione?
La
televisione di allora, a confronto con quella di adesso, era un’altra cosa,
c’erano persone di cultura. Il direttore era Angelo Romanò. Ci finii partecipando
a un concorso per funzionario programmista. In commissione c’erano Giorgio
Strehler, Paolo Grassi, Leone Piccioni... Io avevo già pubblicato e, inoltre,
conoscevo bene la storia del teatro, del cinema... Arrivammo in cinque: un
bassettiano, che poi diventò direttore generale della Rai, un nipote di
Pasquale Saraceno, un altro che veniva dall’Università cattolica, e per finire
il figlio di un eroe della Resistenza. E poi c’ero io, senza nessuna protezione.
Mi venne affidata una rubrica di libri, “Tuttolibri” si chiamava. Io la curavo
dall’interno e Nascimbeni la presentava. Comunque, ho avuto parecchie storie e
alla fine sono stato emarginato; così, dopo una breve carriera al livello più
basso, me ne sono andato. Esaurita l’esperienza Rai sono diventato consulente
della Einaudi. I torinesi mi volevano come redattore, mi avevano già sistemato
in un residence in attesa di trovarmi casa. Ci ho provato... C’era questa torre
d’avorio della realtà einaudiana e tutt’intorno... Be’, insomma, in capo a una
settimana non ce la facevo più: ho fatto la valigia e sono scappato, nonostante
le insistenze di Giulio (Einaudi n.d.r.)
che mi inseguiva al telefono. Alla fine il rapporto si trasformò in una
collaborazione esterna e ogni settimana andavo a Torino per delle riunioni... Ma
vivevo e abitavo a Milano.
Dove hai
sposato una ragazza milanese.
Lombarda.
Caterina è di Bergamo. Io ero il solito emigrato con la valigia di cartone...
La tua vita
sentimentale non è stata particolarmente avventurosa, pare...
No, mi
considero nella norma...
Esiste una
norma? Lasciamo stare, parliamo della parentesi romana.
A Roma ci
sono stato un anno, per la Rai. Abitavo al residence di via di Ripetta. Dovevo scrivere
una sceneggiatura per Marco Bellocchio. Si trattava di una vita di Pascoli, ma
dopo la prima puntata Marco, che era tutto preso da altri progetti suoi, si
disamorò e non se ne fece più nulla. La sceneggiatura è rimasta lì. Mi
dispiacque perché era interessante. Il lavoro riguardava la parte pubblica più
bella di Pascoli, prima della svolta familistica, la vicenda bolognese, di
quando va a finire in prigione, di quando aveva aiutato Andrea Costa a scappare
assieme ai compagni, eccetera... Ma Bellocchio non ebbe più voglia di farlo...
Peccato. A
Roma chi frequentavi?
Ero molto
amico di Vincenzo Cerami, vedevo spesso Moravia... Pasolini era già morto. Lui
l’avevo conosciuto prima, in Sicilia, a un premio letterario, il Brancati, dove
c’erano anche Moravia, Sciascia, Bufalino...
E Brancati
l’hai conosciuto?
No. Mi
ricordo benissimo quando è morto, a Torino, in quel modo orrendo, così
brancatiano. Quest’uomo si portava dentro i polmoni il feto di un fratello
gemello... Una fine barocca, letteraria, che sembra inventata da lui... Grande
scrittore, Brancati. Le sue lettere alla Proclemer ricordano quelle di
Pirandello a Marta Abba. Sono strazianti. Pirandello era innamoratissimo della
Abba, ma lei pensava soltanto al lavoro, al teatro, al successo. Attraverso
Pirandello voleva arrivare in America, al cinema... Vagheggiava di diventare la
nuova Greta Garbo…


I luoghi dell’anima: “La mia isola è
Las Vegas”
Torniamo
alla Sicilia. La “tua” Sicilia. Luogo mitico, dell’anima, del sogno…
Sì, la
sogno. So che quando ci si allontana dalla sfera della memoria, il ritorno
diventa impossibile: si è condannati per il resto della vita all’eterna
erranza. In realtà, io non mi sento più di appartenere a questo luogo
idealizzato. Raggiungere il centro ideale, la “patria immaginaria”, che poteva
essere Roma o Firenze o Milano è stato il mito di tanti letterati siciliani.
Per molti di noi, che eravamo ai margini, in un confine storico e anche
linguistico, era facile identificare, idealizzare, il “centro” in vari luoghi,
ma poi ti accorgi che la patria scelta nella realtà è sempre diversa da quello
che hai immaginato e subentra la delusione. Intanto la terra che hai lasciato
si trasforma; d’altra parte, niente rimane fermo. Non voglio cadere nella
mitizzazione del luogo abbandonato, ma, per riprendere la metafora de L’olivo e l’olivastro, Itaca non è più raggiungibile,
perché mentre tu sei via – mentre Ulisse era via – è stata conquistata dai
Proci e tu non puoi più approdare nella terra che hai lasciato, nella terra
della memoria. Non c’è più la ricomposizione dello squarcio…
Se non si
può né stare né tornare, qual è la speranza? Che cosa deve accadere?
Io non sono
pessimista. Io credo che nella storia ci siano momenti di involuzione e poi
grandi momenti di apertura e di crescita. Senza retorica, io spero molto nella immigrazione
dal terzo mondo, gente che viene qui a portarci qualcosa di vitale, di nuovo,
di diverso, di più umano. Io ci spero. La storia della civiltà è fatta di
incroci, di spostamenti… La Sicilia è il simbolo massimo di questi
arricchimenti reciproci… Per esempio, i Normanni sono stati conquistatori
intelligenti: loro non hanno cancellato, come spesso fanno i dominatori, i
resti della civiltà arabo-musulmana. L’hanno lasciata e l’hanno adottata. Sotto
i Normanni a Palermo c’erano trecento moschee, chiese cristiane del rito greco
e del rito latino, sinagoghe: erano diversità che coesistevano e competevano in
grande armonia, nel reciproco scambio, nel rispetto dell’altro, del diverso da
te… Questi sono momenti alti della civiltà, che creano armonia…
… un’armonia
che in Sicilia, a Palermo, nonostante tutto, si percepisce fisicamente, si
sente nella lingua, nei nomi, nell’arte, nell’architettura; si respira
nell’aria, nei suoi odori… Ma tutta questa armonia che fine ha fatto?
È stata
distrutta dalla nostra civiltà. È finita con la dominazione spagnola, con
l’Inquisizione. Quello è stato un momento di frattura tra le culture. È sparita
con le guerre corsare, con le lotte fra le due religioni: musulmana e cattolica…
Oggi viviamo veramente in un’epoca di teocrazie… E quando le religioni
diventano potere…
Già. E gli
Ebrei?
Gli Ebrei in
Sicilia sono stati cacciati come in Spagna, nel 1492. Sono venuti al Nord, in
Toscana soprattutto, dove c’erano i Medici che erano molto aperti. Devi sapere,
cara Maria, che io, con il mio cognome, devo essere un marrano, cioè un ebreo
convertito. Qui al Nord tutti i Consolo sono ebrei. A Milano, Segre, Fortini mi
chiedevano se ero ebreo. Il fatto è che il mio cognome viene da “console”, la
carica elettiva della corporazione di arti e mestieri. Si eleggevano tre consoli
e poi la carica diventava nome. Ora, la corporazione arti e mestieri l’avevano
in mano gli ebrei, ed è successo che mentre quelli cacciati hanno mantenuto la
loro cultura, la loro religione, quelli rimasti sono stati costretti a
convertirsi. Morale della favola, credo proprio di essere un marrano. Questa
storia ho cercato di rappresentarla in
Nottetempo, casa per casa il cui protagonista si chiama Marano, che viene
da Marrano, un cognome molto comune…
Nella nostra
lingua e nella tradizione popolare il termine “marrano” ha un significato, una
connotazione negativi.
Sì, appunto:
vile marrano, traditore, uno che cambia religione…
Parliamo del
futuro. Attualmente sei nel mezzo di quella lotta non solo con la realtà ma con
te stesso che per te è scrivere? Insomma, stai componendo un’altra narrazione?
Sì, sto
lavorando al prossimo libro. Questo è il mio mestiere, la mia vocazione, non posso
fare altro. Il luogo, dal quale non so prescindere, è la mia terra lontana. I
miei libri sono tutti ambientati in Sicilia, come sai. Questo si colloca nel ’600.
Ho trovato delle carte… dei documenti… È una storia di inquisizione che mi
sembra rispecchi il momento nostro…
Tu non perdi
mai di vista l’attualità storica, il tempo che stiamo vivendo…
No, mai.
Quando era a Milano, Verga scrisse a Capuana a proposito della necessità della
distanza per poter parlare della Sicilia. Il suo capolavoro, I Malavoglia, l’ha scritto a Milano.
Quando è tornato a Catania, non ha scritto più niente. La distanza è indispensabile,
diceva a Capuana, però poi bisogna verificare…
Arriva
Caterina con una caraffa di bibita colorata. “Sono le sue arance, vengono
proprio da laggiù. Non c’è bisogno dello zucchero…”, dice. “Poi te le faccio
provare in insalata, se ti fermi…”. La bibita è dolce e freschissima, non c’è
bisogno di zucchero. Faccio qualche passo nella stanza, sbircio dalle tende il
paesaggio che volge al plumbeo. Vincenzo è rimasto seduto, mi chiede se sono inquieta,
se ho bisogno di qualcosa, se sono stanca. Non sono inquieta e nemmeno stanca,
caro Vincenzo. Non smetterei mai di ascoltarti, di sapere… Andiamo avanti.

Consolo con la
moglie Caterina
Vogliamo
parlare di quest’Italia di oggi? Secondo te, nell’attuale situazione culturale
che possibilità ha un giovane di talento di pubblicare, venir fuori,
affermarsi? Una volta c’erano i Vittorini, i Calvino, i
Sereni, le collane specializzate, sperimentali, aperte ai principianti, le
riviste letterarie, la critica, con la sua funzione fondamentale…
Proprio
così, i grandi editori di una volta: Mondadori, Rizzoli, Einaudi, come le
grosse industrie, si permettevano di avere dei laboratori di ricerca dove si
promuovevano gli esordienti. E poi, appunto, come dici tu, c’erano le riviste
letterarie che facevano da tramite, c’era la critica. Tutto questo è scomparso.
Oggi esiste soltanto il mercato, per cui se non sei confortato da qualcosa che
non ha niente da spartire con la letteratura, se non sei un personaggio
extra-testuale, se non appartieni al mondo dello spettacolo o non sei una presenza
televisiva: barzellettiere, cantante, e così via, e comunque non fai notizia,
non hai nessuna possibilità di pubblicare. D’altra parte, i nuovi autori hanno
poco a che vedere con la tradizione letteraria. Sai, facendo parte di giurie di
alcuni premi dove è prevista anche la sezione degli esordienti, mi sono reso
conto che c’è stata una sorta di frattura, di jato. Non voglio fare il
moralista e non so come saranno giudicati domani, ma, al di là di ogni giudizio
mi sembra che questi ragazzi non abbiano punti di riferimento nella tradizione
letteraria, com’è stato per la mia generazione e oltre, fino a Tabucchi che ha
dieci anni meno di me. Loro guardano al cinema, ai fumetti, alla televisione, alla
canzonetta. Quando noi ci promuovevamo, sapevamo da chi eravamo stati preceduti
e chi erano quelli che stavano nel contesto letterario, nella società
letteraria in quel momento, insomma chi erano i nostri punti di riferimento. Ne
avevamo consapevolezza.
Ma questa
frattura a cosa si deve?
Io credo che
sia dovuta all’esplosione dei mezzi di comunicazione di massa: il trionfo
dell’esteriorità. Ci sono fenomeni che non sono soltanto giovanili. Prendi il caso
Camilleri, un fenomeno di tipo mediatico, che ricalca i moduli di stampo
televisivo, nel senso del cattivo cinema, dello stereotipo dell’eterna Sicilia
di colore che non ci togliamo di dosso, con l’uso di un dialetto di tipo
regressivo, che è una cosa che mi offende terribilmente. Questo è ciò che fa il
signor Bossi: la regressione linguistica dall’italiano a un padano che non
esiste più. Nulla giustifica l’uso e la pratica di questo tipo di linguaggio, di
questo siciliano di colore che nessuno più parla.

Andrea Camilleri
E tuttavia,
qual è la ragione del grande successo popolare e non solo di Camilleri?
Intanto c’è
lo strumento televisivo. Stamattina parlavo con un medico il quale lamentava le
stesse cose nel suo campo professionale. Oggi i grandi medici sono soltanto
quelli che appaiono continuamente in televisione, che diventano personaggi, tanto
per dirti che questo accade in ogni settore. Insomma, se questo strumento, di
per sé innocente, da noi ha inciso più in profondità che altrove, è perché noi
abbiamo avuto una storia che nessun paese europeo ha avuto: una trasformazione
radicale che nell’arco di pochissimi anni ha portato l’Italia da paese povero e
contadino a una delle sette potenze più industrializzate del mondo, con grandi
spostamenti di uomini dal Sud verso il Nord. Tutto ciò ha determinato uno
sconvolgimento. Pasolini si è dannato su questi temi. E sulla trasformazione,
sulla nascita della nuova lingua nazionale – la lingua del politichese, la
lingua mediatica, televisiva – s’è innestata la televisione. Di fronte
all’arrivo di nuove masse di meridionali nel Nord, Elio Vittorini, nella sua
ingenuità di letterato, diceva che i dialetti del Sud lo “spazientivano” perché
erano portatori di soggezione e spesso anche di corruzione, cioè di passività,
mentre nei dialetti settentrionali lui ravvisava l’attivismo. Diceva inoltre
che sarebbe stato interessante studiare gli incroci tra dialetti settentrionali
e meridionali, perché da quegli incroci sarebbero nate le nuove koiné.
Ma la storia
non gli ha dato ragione. Questo non è avvenuto...
No, affatto.
Perché è passato il rullo compressore della televisione a omologare tutto ai
livelli più bassi. Purtroppo la letteratura dei giovani riflette proprio
questo: le koiné generazionali, i gerghi, oppure i dialettismi di maniera alla
Camilleri. Ma se vai a guardare le famose classifiche che escono settimanalmente
sui giornali, ti scoraggi: tutti libri di terz’ordine, tutti prodotti
mediatici, figli della televisione...
Non credi
che la televisione abbia in qualche misura assolto, almeno all’inizio, a una
funzione sociale e pedagogica? Che abbia in un certo modo contribuito a saldare
l’unità d’Italia?
Sì, all’inizio
ha avuto la funzione di togliere i dialettofoni dalle sacche di
incomunicabilità in cui erano relegati. C’è un bellissimo racconto di De
Roberto intitolato Paura, che si
svolge in trincea durante la prima guerra mondiale. Ci sono soldati che parlano
fra di loro ognuno nel proprio dialetto e non riescono a comunicare, o comunicano
a malapena. Sì, comunque hai ragione, all’inizio la televisione ha avuto una
funzione pedagogica, di educazione popolare. Umberto Eco e Tullio De Mauro
l’hanno sottolineata, affermando che finalmente con la televisione gli italiani
potevano comunicare fra di loro.
Ma a quale
prezzo?
Un prezzo
altissimo. La perdita è stata enorme. La nostra lingua s’è impoverita poiché
s’è inaridito l’apporto che veniva dal basso, dalle condizioni dialettali.
Analizzando la nostra lingua e facendo il paragone con quella francese, che
definisce una lingua geometrizzata, Leopardi dice che la nostra non è una
lingua ma un’infinità di lingue. La grande ricchezza della nostra lingua
derivava appunto dall’incontro degli apporti popolari dal basso con la lingua
colta dall’alto. Oggi non è più così. Oggi abbiamo l’inaridimento dei due
affluenti. Le due realtà sono confluite al centro, ma perdendo ricchezza. La
scrittura letteraria è inesistente. I nuovi autori scrivono tutti allo stesso
modo, usano la lingua corrente della comunicazione che è la lingua del
giornalismo, la lingua mediatica...
Lo stesso discorso,
secondo te, vale per la poesia?
No. Io credo
che nella poesia – e anche nel teatro, direi – vi sia molta più vivacità che
nella narrativa. La poesia sente che ormai la nostra lingua è poeticamente
quasi impraticabile. Per questo sono nati i poeti neo-dialettali, proprio come
bisogno di una lingua altra che non sia questa lingua arida. Il fenomeno dei
neo-dialettali è diverso dalla poesia in dialetto di un tempo perché i contesti
dialettali non esistono più. Il neo-dialetto è una lingua di cultura, costruita
con molta consapevolezza.
Un’operazione
in qualche modo a tavolino.
Senza
dubbio. È come se si scrivesse in latino, proprio per il bisogno di usare una
lingua che non sia quella della comunicazione, ma una lingua alta. C’è un poeta
napoletano, non so se lo conosci, Michele Sovente, che scrive napoletano e latino
insieme. In Sicilia, il neo-dialettale De Vita usa una lingua che non è la
lingua di Buttitta o dei cantastorie... La poesia dialettale, soprattutto in
Sicilia, proprio per la forte tradizione che aveva, diventava molto spesso
arcadica. La svolta l’ha determinata Ignazio Buttitta con la sua poesia civile,
ma la tradizione era quella, quella di Giovanni Mele, il famoso poeta arcadico
del Settecento, per intenderci.
Comunque,
l’angoscia, il grande interrogativo dell’uomo di oggi, non solo dell’uomo di
lettere, che in qualche modo ha smarrito la consapevolezza dei propri
strumenti, è come se ne esce. Dove andiamo? Dov’è la speranza?
Mi verrebbe
alla mente il tempo in cui nei conventi si copiavano a mano i testi classici...
Gli amanuensi...
Amico mio, non vorremo concludere questa chiacchierata con l’invito amletico a ritirarci
in convento, spero...

Trionfo di colori-odori-sapori
mediterranei sulla tavola a casa di Consolo
Niente
convento, dice Vincenzo col sorriso aguzzo e gli occhi che bucano. Per ora si
va a mangiare, vieni. Rinunciamo al ristorante e decidiamo d’accordo di onorare
l’invito di Caterina. Di là c’è aria di festa. La tavola è già apparecchiata
per tre. Un goccio di bianco di Salaparuta per aprire la strada a un pasto felicemente
multietnico: si va dai formaggi bergamaschi alle arance di Sicilia, passando
per l’aglio-e-oglio di Roma, in onore alle nostre rispettive origini. Il caffè
è napoletano, e così l’unità d’Italia si compie alla grande. È tardi, fuori il
grigio s’è impastato di nebbia veleni e nevischio. Il nostro tempo è volato via.
Fiumi e montagne e orizzonti di parole come musica: un mondo sconfinato, una
navigazione in mare aperto, un bottino prezioso racchiuso nello scrigno del
registratore digitale, che mi porto via insieme ai colori e agli odori barocchi
di questa cucina luminosa. Grazie Vincenzo. A presto.
Milano, 18
febbraio 2004, settantunesimo.
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Poche notizie
Vincenzo Consolo. Siciliano di nascita
(18 febbraio 1933), lascia la sua Sant’Agata di Militello e va a laurearsi a
Milano dove torna negli anni Sessanta, dopo una parentesi di lavoro sull’Isola
e poi a Roma, per restarvi fino alla morte (21 gennaio 2012).
Scrittore
fecondo, di grande rigore etico e impegno morale, fiero odiatore di oleografie
e mitizzazioni estetiche tendenti a dare della sua terra amatissima, presente
in tutta la sua opera, un’immagine stantia, stereotipata e lontanissima dalla
realtà. Giornalista, insegnante, reporter, saggista, consulente letterario e
televisivo. Intellettuale curioso, arguto, ironico e consapevole, grande
affabulatore, ospite generoso e gentile, come dimostra questa
chiacchierata-fiume nella bella casa milanese, tra salotto e cucina, il giorno
del suo settantunesimo compleanno.
Ha
scritto:
Romanzi
e racconti:
La
ferita dell’aprile, romanzo,1963; 1977; 1989
Per
un po' d’erba ai limiti del feudo, racconto, in Narratori
di Sicilia,1967
Il sorriso dell’ignoto marinaio,
romanzo, 1976; 1987
Un
giorno come gli altri, racconto, in Racconti italiani del Novecento,1983
Lunaria, racconto, 1985; 1996
Retablo, romanzo,1987; 2000
Le pietre di Pantalica, racconti, 1988;1990
Catarsi, in Trittico, 1989
Nottetempo,
casa per casa, romanzo,1992; 2006
Fuga
dall’Etna, 1993
Nerò
Metallicò, 1994; 2009
L’olivo
e l’olivastro, 1994
Lo
spasimo di Palermo, 1998
Di
qua dal faro, 1999
Il
teatro del sole, racconti di Natale, 1999
Il
viaggio di Odisseo (con Mario Nicolao), 1999
La
rovina di Siracusa, racconto, in “Rappresentare
il Mediterraneo. Lo sguardo italiano”, 2000
Isole dolci del dio, 2002
Oratorio, 2002
Il corteo di Dioniso, 2009
La mia isola è Las Vegas, 2012
E numerosi saggi, tra cui:
Nfernu
veru. Uomini e immagini dei paesi dello zolfo, 1985; Il barocco in Sicilia, 1991;
I ritorni;
conversazioni in Sicilia, 1997; La
pesca del tonno in Sicilia, 2008
Esercizi di cronaca, Sellerio 2013 (postumo)
I suoi libri sono tradotti in
francese, inglese, spagnolo, portoghese, olandese, rumeno, catalano.