di Francesco Aprile
1. Introduzione
Emilio Villa e Francesco Saverio Dòdaro, entrambi esponenti dei linguaggi
di sperimentazione del Novecento italiano, appaiono accostabili, per qualità e
densità dell'afflato poietico, attraverso una sterminata tensione che li
accomuna nella continua ricerca dei semi del linguaggio. Una scrittura poetica,
quella dei due autori, in cui il plurilinguismo appare, anche nella
vivificazione di lingue “morte”, non più come strumento o gioco, inserimento,
ma come approccio strutturale e sonoro, cadenza ritmica e modalità del
pensiero, arpeggio testuale di intimità sonore che rimandano ai semi, alle
origini del linguaggio.
2.Emilio Villa, cenni biografici
Emilio Villa (Affori, 1914 – Rieti, 2003), poeta, artista, intellettuale,
critico, si è fatto promotore di una infaticabile operazione di ricerca
linguistica. Sostenitore dei valori dell’avanguardia, anticipatore per certi
versi di alcuni caratteri della neoavanguardia, entra in contatto, negli anni
’40 a Roma, con la poesia concreta di Carlo
Belloli[1], poeta futurista, prima di
trasferirsi a San Paolo, in Brasile, dove, dieci anni dopo l’esperienza dei
poemi murali di Belloli, il gruppo Noigandres conierà la terminologia “poesia
concreta” (Belloli, infatti, teorizzò il concetto di “poesia visuale”
anticipando, però, il concretismo della parola poetica). Di ritorno dal Brasile
è ancora a Roma, dove si dedica allo studio della filologia semitica e
paleogreca, uno studio indicativo di una tensione e direzione linguistica
consapevole. Ha inoltre rappresentato uno snodo cruciale per numerosi artisti,
grazie alla sua attività critica, contribuendo in modo determinante a fare
emergere artisti come Burri, Novelli, Debernardi, Francesconi e altri. Da
Carmelo Bene a Rothko, da Duchamp a Matta, ha intrattenuto collaborazioni e
stretti rapporti con alcuni dei più grandi artisti internazionali. Secondo
prospettive avanguardistiche, ha diffuso i suoi testi per vie semiclandestine,
conducendo un lavoro di protesta contro la dimensione facile e commerciale
dell’editoria.
3.Francesco Saverio Dòdaro, cenni biografici
Francesco Saverio Dòdaro (Bari, 1930), è poeta, narratore, poeta
verbo-visivo, teorico di movimenti artistico-culturali. Da ragazzo si interessa
di teatro e pittura, fino ad essere sconvolto dalla frontiera metafisica di
Morandi. Dunque fugge a Bologna, nell’immediato secondo dopoguerra. Di ritorno
a Bari l’incontro con il poeta armeno Hrand Nazariantz lo segna al punto che –
dopo un periodo intenso di avvicinamento e frequentazione con i Fiore, dunque
il Meridionalismo, ed il lavoro presso l’ufficio stampa della Fiera del Levante
– parte alla volta di Parigi, dove entra in contatto con gli esistenzialisti,
per poi trasferirsi in via definitiva a Lecce negli anni ’50. Qui fonda nel
1976 il Movimento di Arte Genetica, con sede a Lecce, Genova e Toronto,
caratterizzato da adesioni internazionali di ampio respiro (ruoteranno attorno
alle attività ed alle riviste del movimento, fra gli altri, Jean-Luc Nancy,
Bruno Munari, Eugenio Miccini, Giovanni Fontana, Rolando Mignani), e con il
quale rintraccia l’origine del linguaggio nella mancanza ad essere per la
separazione del soggetto dal complemento materno, annodando la ritmicità dei
linguaggi umani all’archetipo del battito materno ascoltato in età fetale.
Realizza e diffonde le sue opere attraverso edizioni semiclandestine,
indipendenti, proponendo collane editoriali che scardinano il concetto di libro
(romanzi in tre cartelle, romanzi su cartolina, romanzi da proiettare,
narrativa di cento parole in store), lanciando segnali forti verso la
mercificazione dell’editoria. Il suo linguaggio poetico si sviluppa sulle
direttrici dei media, del ritmo e dell’etimologia della parola, quest’ultima è
volta, appunto, ad indagare le origini del linguaggio. La sua posizione di
autore e critico, sempre attento alle nuove proposte del territorio, lo pone
come snodo e punto di riferimento per i linguaggi di ricerca nel Meridione,
rappresentando un punto di partenza e maturazione per molti giovani artisti.
4.Emilio Villa, praeverbium
La proposta autorale di Emilio Villa
è quella propria di un j’y pense, un
ci penso praeverbium dettato dal
suono della parola gestatrice. Un ci penso, ma innestato nell’istintualità del
corpo che si muove, che entra in contatto, che si agita e lavora, testimonianza
di un praeverbium kinetico, laddove
l’apporto del corpo desiderante, pulsionale, agita poi l’azione poietica,
testimoniando della materialità della scrittura. Un cumulo di linguaggi
accomunati per accumulazione sonora, un alfabeto in movimento gestativo,
l’esortazione desiderante della materia prima. Le ripetizioni sorvolano il
testo, s’innestano in condizione necessitante alla parola. Le ripetizioni,
nella pratica poetica di Emilio Villa, appaiono come un valore necessario alla
dimensione più naturale della parola, dove questa appare in un continuo
comporsi linguistico attraverso elementi minimi significanti, appunto, denotati
dalla ripetizione come ossatura dei semi del linguaggio.
«all white you when future speak
all white with smell
all white legitimate confusion people
all white thoughts
all white singing
all is cause of movement of
all white herself and
[...]
e pigro segno delle sonore agonie il tardo
separare sé da sé e udir fina
marmorea onda e nebbie delle partizioni
straniere e dolce fiamma inglese o beduina.
[dia]thèmes sur l'air adhaesit anima, vivicafi secundum»
Le Diciassette variazioni su temi proposti per una pura ideologia fonetica,
pubblicate nel 1955 e poi inserite nel volume Opere Poetiche I, Coliseum, 1989, mettono in evidenza il refrain
villiano delle ripetizioni, la condizione di una strutturazione del testo che
precede il testo in cui la parola appare nella sua sola funzione
significante-sonora, restituita ad un linguaggio che torna indietro nel tempo,
volgendo lo sguardo a trame pullulanti di una capacità discorsiva in divenire,
ed ancora non strutturata, non formata, che ansimano nel loro formarsi, nel
definirsi e disfarsi. Il pittore-scrittore villiano è amanuense. È colui che
conduce l’opera attraverso il lavorio instancabile delle connessioni fra
uomo-mondo, in questo senso l’amanuense scrittore-pittore è colto in ambiti di
reciprocità in cui il movimento del corpo, la sua tensione, streben, è un continuo raccordo col
mondo in un rapporto interno-esterno dove la parola si connota come tentativo
di penetrare la res-extensa,
scarnificando il testo, riducendolo alla materia prima, pura molecola di linguaggio
nella vivificazione delle lingue morte. La scrittura è un vortice. La
registrazione catastale del linguaggio villiano è un circolo
immaginario perché immaginato come punto d’unione
bi-univoco fra il j’y pense autorale
e la stoffa del mondo. Una poetica dei semi del linguaggio riscontrabile
nell’opera dell’autore attraverso il ricorso all’apprensione, l’appercezione
come autocoscienza ed esperienza percettiva primaria che pone l’attore sociale
in un raccordo primordiale, un canto dell’anthropos nell’attivazione delle
dinamiche di essere e ragione restituiteci dal mondo. La scrittura come
elemento del limite è una dissipazione della scrittura stessa, autocoscienza di
una conoscenza autorale che non può non essere se non nello smagrirsi, nel
depensarsi. Il linguaggio minimo è molecolare, ancorato al fondo di una unità
dispersa che è accorpamento, unità degli opposti. Il fondo buio, è l’abisso
generatore, ma è dentro questo, il chiaro. Dove questa unità degli opposti, dei
diversi, degli indiscernibili, vede la voce, vox, connaturata ad una esponenzialità della sua espressione, in n variabili in movimento. La scrittura
dissipata come azione, movimento quotidiano verso una matrice plurima di
variabili che animano una coscienza diversa, nuova, perché in un luogo che è
altro. L’inquadramento della poetica procede dunque in schemi d’azione in cui
il movimento si disfa, si ritrae,
torna e si disfa, ancora. La krasis,
l’armonia nella mescolanza, come elemento di unità, come abbraccio fra
l’autocoscienza conoscitiva e il movimento dello scrittore-amanuense.
Ègalement
trout écrasé, massacré, tout, trou-krasis, trou crêtes [...] un tout un trou[2]
Un tutto, un foro, un movimento
unificante della scrittura come mescolanza. La tensione verso il buio
dell’origine ha come mezzo, come trasporto, il percorso verso la distruzione
della conoscenza e come presupposto una conoscenza diversa, nuova.
L’inserimento di elementi testuali che sovvertono l’ordine di lettura è il
pervertimento della parola, sconsacrata e slegata dall’ordine strutturato della
civiltà come fondamento archetipo.

Figura SEQ Figura \* ARABIC -->1--> Emilio Villa, Traitée de pédèrasthie céleste,
Colonnese Editore
L’inserimento di elementi testuali
come pervertimento del testo, alterandone lo scorrimento dunque ponendosi come
una frattura nell’attività conoscitiva nell’uso corrente, medio, della parola
inscritta nell’ordine sociale che è fondato sul resto e cioè sulla negazione di
quel percorso all’origine intrapreso da Villa.

Figura 2 Emilio Villa, hisse
toi re d'amour da mou rire, Geiger 1975
La distorsione semiologica delle
lingue, dei linguaggi da Villa introdotti e vivificati nella compenetrazione
dialettica delle lingue differenti, ma corrispondenti per matrice iniziatica,
scura e lucida al contempo, è strumento di deformazione e protesta che si
concretizza in un progressivo abbandono della lingua italiana, a volte totale a
volte parziale, di quell’Ytalya
considerata come terra accademica e dunque come lingua della schiavitù. L’uso
di lingue come latino, greco, semitico, francese, inglese, diventa
preponderante nella pratica poetica, in un contesto letterario che si registra,
come già detto, non come gioco o pratica fine a se stessa, ma alla base del
modus operandi si pone una attualità e attualizzazione del pensare e del
pensiero, un pensarci, un j’y pense
della pratica poetica che vivifica, in una trance estrema del movimento
corporeo, la pratica autorale e le lingue morte lungo una manualità come
estensione della continua capacità creativa del mondo, un j’y pense ma percettivo, intuitivo istintuale della parola nuda e
sonora in cui la conoscenza villiana appare da un lato legata al movimento
percettivo e dall’altro ad una sua stessa automazione – non in quanto
automatica – ma in quanto consapevolezza, ma e soprattutto come rifiuto della
storia, pervertimento di questa intesa come strumento dell’errore, come mezzo
del “resto”, della negazione originaria alla quale accede l’uomo nel processo
sociale. La lingua smette di significare per lasciarsi dietro le cose e tornare
ad essere lingua in quanto sistema di suoni, portando Villa quasi alla
creazione di una lingua per la lingua.
La parola è l’accadimento mistico
che s’appalesa sulla pagina. Un linguaggio che è cosa, sul foglio, ma che è
colto nella tensione, duale, dell’immanenza e della trascendenza. È cosa
immanente sulla pagina, staccata concettualmente dalla cosa o dal senso e dalle
convenzioni, dunque, significative, torna come trascendenza della cosa perché
suono, articolazione mnestica di un accadimento remoto e collettivo che
trapassa nel personale e che di tanto in tanto si riaffaccia in superficie
chiedendo spazio, nel verso. Il ritmo è il veicolo e la parola è in quanto
ritmo. La parola-suono immanente trascende la parola stessa perché è proprio
del suono quell’universalizzazione significante, ritmica e arcaica, che
sostanzia l’uomo, colta nella dualità immanenza/trascendenza dove quest’ultima
sa connotarsi come universalizzazione della prima. Ma è la natura
dell’architettura significante che elude il significato, abbandonandolo, a
farsi portatrice della dimensione della parola. Tale universalizzazione, a
mezzo sonoro-significante della parola poetica, s’inserisce in chiave
continuativa nella negazione della storia, esplicitandosi per un carattere
atemporale della parole, in un trou primordiale e contemporaneo che
caratterizza il linguaggio poetico per l’impossibilità d’afferrare l’arcaico,
la pienezza di un movimento desiderante che di continuo sfugge agli sforzi di
un regressus a mezzo poetico. Il
nulla villiano dell’origine appare nella forma testuale della poetica detonato,
più che nell’indifferenziato, nella differenza che, sonora, intercorre fra i
termini scelti, esplicati sulla pagina di volta in volta. Le differenze fra
parola e parola a volte minime ma essenziali, vanno a precisare l’azione, la
struttura, dunque la preminenza di questa, del significante, sul resto,
apportando in modo esplicito, esortativo, dichiaratorio, alla poetica quella
dimensione dell’humus dell’unità fra i contrari, della diversità che
nell’origine si rintraccia si ritrova si scopre s’unisce.
«haleine y ps y pour / pour une âme
bien muette / my mu été / muette / parole / absente»[3]
Un continuo tornare, rifrarsi di
contenuti rimossi dal personale lontano, personalissimo, l’infanzia,
l’inconscio, la formazione di sé, del sé, che tornano e affiorano in maniera
forte e decisa, come schegge, ecco l’apparire di frammenti, di parole
scheggiate, slegate, slanciate, gettate sulla pagina e articolate su questa
come fossero nel vuoto; la distribuzione del testo si nutre delle violazioni
concrete di Belloli, sì, ma in linea di massima sfonda il muro del concretismo
smagrendosi sul margine, sbiancandosi sulla scia del tempo che passa, con
incursioni asemantiche, la parola è distribuita, calligrafa e calligrafata
adornata sul vuoto di un coup, sul
vuoto strutturale della pagina a partire da Mallarmé e «al contempo tallonava
Joyce, che aveva nutrito la stessa ambizione durante la stesura di Finnegans Wake, intricatissimo congegno retorico
concepito per far coincidere micro- e macro-cosmo, vita privata di Joyce e
storia dell’umanità, in un’unica dedalica realtà linguistica»[4].
La scrittura villiana è elemento partecipato e partecipativo, complementare
anche nella modulazione della sua espressione. È nella complementarietà che
risulta, ad esempio, dall’innumerevole quantità di testi che l’autore scrive in
partecipazione con altri artisti, pittori ecc, come ad esempio gli scritti su
Burri o Capogrossi, in cui emerge chiara la compartecipazione che non termina
nella semplice esegesi dell’opera pittorica, ma procede nell’esplicazione
dell’idea letteraria e artistica di Villa.
«Da una nozione semplice di umana fiducia, che esordiva come atto
perentorio, da uno scarto improvviso, nasceva la prima, e primaria, e persuasa
tentazione di designificare decolorare deplatonizzare i confusissimi gerghi
pittorici: e in tale modo, e tale scatto, che ancora nessuno, io penso, aveva
tentato così rigoroso e stretto e solenne e puro e povero. […] Per un primo
accostamento io e Cagli parlammo dell’aleph-taurus; Matta e io parlammo
dell’io-je. Comunque, in questo senso, quello di Capogrossi è stato il
tentativo più acuto, più toccante. Ritrovare in imo, in intumo homine, un segno
di grado iniziativo, un praesagium allo stato di pura molecola. Ritrovare il
praeverbium scabro, prezioso, secco, dove l’intera mente confluisce, con
meraviglie e inganni e di dove il nucleo si coglie»[5]
Questa partecipazione da intendersi
come possibilità è l’approccio dialogico e dialettico dell’autore,
rappresentando la percezione autorale quel luogo che incarna l’incontro, dunque
il possibile, che nel dialogo accresce ponendoci davanti ad una serie di
condotte simboliche che pur non appartenendoci permettono lo scavo e l’analisi ben
oltre l’esegesi dell’opera dell’Altro. Ciò che emerge dallo scritto su
Capogrossi, e più in generale dagli scritti del Villa critico, è quella dualità
che caratterizza l’intento interpretativo del poeta che se da un lato penetra
nell’opera pittorica, dall’altro procede all’esplicazione del suo processo
poetico.
5.Francesco Saverio Dòdaro, matà
Nel 1976 Francesco Saverio Dòdaro
fonda il Movimento di Arte Genetica.
Con tale movimento rintraccia la ritmicità, la musicalità dell’opera d’arte, e
del linguaggio in genere, nel battito del cuore materno ascoltato in età
fetale, considerando il linguaggio come processo di lutto per la separazione del
soggetto dal complemento materno. La poetica dòdariana è il ritmo di un
frammento disperso, di una serie di frammenti prima platonici, poi rimbaudiani,
colti ancora nell'effervescenza Freud-Lacan-Kristeva. Se c'è una tensione, uno
sforzo, anche qui, uno streben, è
quello dell'esistente oltre il vuoto, un al di là che connota l'esistenza,
altrove di ricordanze archetipiche. L'esigenza primaria dell'esistente
articolata nella rappresentazione lacaniana del fantasma, dell'espressione di
quel resto di godimento frammentato, di quel resto che resta nell'ingresso
nella struttura. Dòdaro analizza, con piglio da filologo, le lingue antiche
registrando la sua poetica sulle coordinate del duale che denota uno stacco
considerevole fra le lingue arcaiche e la nostra contemporaneità. La presenza,
in tali lingue, del duale, affiancata a tutta una serie di immagini ricorrenti,
la grande madre, la musicalità, rimandano ad un tempo personale e collettivo,
inscritto nella memoria di ognuno. L'arte come linguaggio del lutto è la
lettura dòdariana di un linguaggio che ha come origine un drastico e radicale
processo di lutto che connota l'esistente affermandone l'esistenza lungo un
tracciato che è quello della mancanza, una manque
à être che ha nell'al di là di ogni manifestazione quella spinta,
pulsionale, dell'esistente a manifestarsi in quanto esistenza nel tentativo
linguistico di una congiunzione all'Altro, in quanto ogni spinta in avanti ha
come motore la forza attrattiva del passato. Il linguaggio è una congiunzione.
Il linguaggio è
una congiunzione, il linguaggio è una «e»
Una «e» che suona il «violin»
Il linguaggio è il mio immaginario, che balla davanti al «miroir»,
Il linguaggio è il mio gemello. La mia yem che canta in nome del padre, del
figliuolo e di «mater dulcissima» L’esistenza è oltre il filo del telefono
pronto, il mio compleanno? Io il desiderio
Pronto l’antropiano? La punta del dito segna il ritmo del churinga
in nome del padre, del figliuolo e del ritmo dolcissimo pipistrellus
- pipistrellus non ostacolare l’oscillar dell’infelice
cot-deaths, cot-deaths
L’onde sull’albero. E fu fatto l’albero
L’onde su lithos. E fu fatto lithos
L’onde sull’es. E fu fatto l’es. E parlò – in nome del padre, del figliuolo e
della Lingua Dulcissima
La notte alla stazione, binario 7°, binario morto, il freddo ed i cani, per il
serrone, fra le bitte e le traudie, 15 maggio…
No. Non so dove esisto -
Diciamo Parigi, 15 maggio 1979
Ed è l’eco… Dulcissima -
Le fasi freudiane della sessualità
infantile sono lette da Dòdaro nell'ottica di una radice che rimanderebbe alla
pienezza del godimento dell'esperienza primaria, all'unità duale madre-bambino.
Dunque a partire dalla fase anale, passando per quella orale, ciucciare il
dito, allattare al seno, lo sperma, la fase genitale, risultano inscritte in
quella mancanza, primaria perché fondante, che si esplicita in una continua
tensione volta alla rifondazione della coppia, della dualità dispersa, in
quanto lo stato intrauterino farebbe riferimento ad ambiente liquido e non
gassoso. Un ritorno alla pienezza come Dualità, come rifondazione della coppia,
allontanandosi, dunque, dal regressus
ferencziano. Lo strumento etimologico, come in Emilio Villa, connota il
discorso poetico. L'analisi condotta da Dòdaro, avviata negli anni '50 (dopo
una brevissima parentesi pittorica, quattro anni) e protrattasi fino agli anni
'70 con la fondazione nel 1976 del movimento di Arte Genetica, e che in realtà
prosegue arrivando inesaurita ad oggi, verte sulla ricerca etimologica
affiancata dallo strumento psicoanalitico che irrobustisce il percorso di
ricerca. Scavare etimologicamente sulla parola “seno” comporta imbattersi in
una serie di testimonianze che di volta in volta riportano la parola al
concetto di felicità passando attraverso il ventre materno e la capacità
generatrice, creatrice della donna annodando il tutto alla figura archetipica
della grande madre e all’unità duale fondativa. Il seno è quella felicità
intesa come ricongiungimento dei frammenti, un ritorno al ciò che è stato, un
tentativo di ripristinare l'unità duale; infatti felicità da Phyo (Fèo) e dalla radice Bhu,
essere, feto, femmina, felice. Come Emilio Villa, lavorerà sulle lingue morte,
producendo una vivificazione costante dei linguaggi, un approccio sonoro alla
parola che trasuda il ciò che è stato, l’esistenza, l’essenza della radice ha
l’articolazione sonora della creazione linguistica, del pianto primordiale, del
dolore, dell’eco della gestazione. Ha lavorato sul greco e sul latino, sui
geroglifici egizi e sul pensiero dell’antico Egitto – Il libro dei morti – il
sanscrito, le antiche lingue slave, i ceppi germanici. Il ceppo unico del
linguaggio, la tensione dell’esistente alla rifondazione della coppia, della
dualità primigenia ha radice maternale (Sanscrito ed avestico: matar; armeno: mayr; greco: meter;
antico irlandese: mathir; antico
slavo: mati; antico tedesco: muotar. Ancora, il fango “moor”, la
fanghiglia “moder”, il mare “meer”, la madre “mutter”).
Mater
externata. Mater et virgo maculata. Pulvis puella atque mater.
- Madre e signora dell’acqua -
Le sorgenti neummaniane. Il grande fiume dell’inconscio. Tra le vallate della
storia, il respiro del mitologema, l’oscurità della notte primordiale. Sulla
barca pleromatica. Alla vela dell’uroboro che genera, produce, divora, e sul
verso il cerchio vuoto cinese wu chi. L’albero è indifferenziato. […]
Nei geroglifici egiziani cuore = pensiero, anima, principio spirituale.
Dall’antico Libro: Mio cuore, mia madre, mio cuore, mia madre! Mio cuore delle
trasformazioni.[6]
Elemento di raccordo fra le poetiche
dei due autori, oltre lo strumento etimologico, appare in quella doppia via già
analizzata in Villa. La produzione di Dòdaro si esplicita parallelamente in una
stesura critica in cui l’autore delinea, simbioticamente all’opera degli autori
trattati, il proprio pensiero, la propria ricerca, prodigandosi in una serie di
testi al contempo critici e poetici, con un forte piglio saggistico, in cui
l’analisi svetta ancorandosi alla ripetizione sonora del verso. Ciò appare
evidente nel caso sopracitato, ossia l’analisi dell’opera di Luciano Caruso e
torna, fra gli altri, nel testo che segue:
Dodici haiku.
Dodici punti di rilevamento. H 4800. H 4432. H 4953. L’estensione morfologica
dei fenomeni dell’inconscio. Dodici isobate. Dodici linee della glossa
poietica.
Dodici isoglosse. Del dolore universale: il neummaniano «Weltschmerz». […]
Dodici isoglosse. Le parole dei processi di lutto.
Sulla carta della nostra solitudine. Fiabescamente.[7]
Attraverso l'opera di
Thass-Thienemann, Dòdaro parte all'analisi delle antiche lingue slave dove è
possibile rintracciare la parola vuoto come contrario di incinta, dunque la separazione,
la lacerazione, la mancanza, che nello scavo etimologico risulta ascrivibile al
trauma della nascita, la separazione e dissipazione dell'unità duale, la
perdita dell'uno-tutto. Ancora sulla parola felicità, che in un componimento
attribuito a Petrarca incontra sul piano semantico il ventre, “ventre materno”,
mentre per Giacomo da Lentini (1250) risulta essere “intimità della coscienza”.
Una poetica del ventre, una sonorità del battito materno, è ciò che
contraddistingue l'agire poietico di Dòdaro. Nel 1983 realizza l'opera
verbo-visiva “Mar/e Amniotico”, che oggi si trova presso la Biblioteca
Nazionale Centrale di Firenze - Libri e pagine d'artista, in cui la “e” appare
ancora una volta come una congiunzione esistenziale, una legatura dell'anima immanente,
annidata ai serbatoi mnestici della trazione passata come motrice futura, ai
deserti dell'Alterità che nel duale appaiono colti in un tentativo di
rifondazione. Nel 1979, invece, realizza l’installazione “Matram psicofisica”,
in cui attraverso la curvatura del metro per la misurazione dell’uomo di Le
Corbusier disposto in posizione fetale, realizza una sfera lignea di diametro
1,12 metri, inserendovi all’interno un metronomo sulle frequenze del cuore,
ricreando l’ambiente intrauterino, pre-natale, che ai visitatori provocava,
nell’atto dell’accostare l’orecchio, stordimenti, mancanze, malesseri,
debolezze.
Giovanni Invitto, docente presso l’Università
del Salento, scrive in «La zucca di Cenerentola. L’errore pedagogico» di
Giovanna Bruco, che «La tesi di fondo è che la vita psichica si forma alla
nascita e che la realtà mentale umana si sviluppa su basi biologiche e non
spirituali. Nella nascita ha sede la stessa formazione delle immagini inconsce non
oniriche come fulcro dell’attività pensante umana. Ne scaturisce un nuovo
concetto di anima, assorbito da un altrettanto nuovo concetto di mentale, “che
altro non è che l’evoluzione della vitalità del feto, che dal suo primo
rapporto con il liquido amniotico sviluppa la carica libidica originaria nel rapporto
affettivo coi propri simili fino a raggiungere quel pensiero verbale che caratterizza
la peculiarità della specie umana distinguendola dal regno animale.” [...] In colloqui
epistolari con l’Autrice, le dicevo che questa tesi a me ricorda un movimento
culturale/artistico degli anni Settanta-Ottanta, chiamato Ghen. Francesco
Saverio Dòdaro fondò nel ’76 il Movimento Genetico, rintracciando la ritmicità
amniotica nell’opera d’arte e annodando la condizione poetica ai mourning process. Da questo l’arte
diviene il linguaggio del lutto, per la seperazione, per la perdita maternale,
e per il distacco dal liquido materno». Nel numero di Ghen, giornale modulare a cura del
movimento di Arte Genetica, del giugno 1978, Francesco Saverio Dòdaro affronta
il discorso di quelli che lui definisce Link,
i legami maternali, attraverso quelle che individua come le tre manifestazioni
storiche più importanti nell’uomo: arte, religio e vita sessuale. Ciò di cui si
serve è un’attenta analisi filosofica e etimologica attraverso lo strumento
linguistico, storico e antropologico degli studi che sui termini aveva portato
a termine il filologo Émile Benveniste
ne Il vocabolario delle istituzioni
indoeuropee.
Partendo da un’analisi comparativa di queste tre manifestazioni individua
il seme, attraverso lo sviluppo dialettico e le matrici nodali, per cui secondo
lo stesso Dòdaro è il legame, il link, quel senso primario che le accomuna.
L'etimologico Pianigiani mette in evidenza come la strada seguita da Dòdaro,
via Benveniste e non solo, sia da
tenere in considerazione e, anzi, sembra porsi come conferma del legame
maternale, della giunzione che quella pulsione, poi desiderio, si pone nel
linguaggio come ritorno, espressione e tentativo di riabbracciare la pienezza.
La parola arte, dal latino Àr-tem,
dalla radice Ar (la stessa
individuata da Dòdaro) che nel sanscrito e nell'avestico (zendo) assume i
significati di mettere in moto, muoversi
verso qualcosa o qualcuno, aderire,
attaccare, si connota come
manifestazione umana del tenere insieme
(da qui l'individuazione, anche, del linguaggio come rifondazione della
coppia). Per quanto concerne l’analisi della religio è interessante seguire il
percorso proposto da Benveniste che
in avestico trova l’aggettivo sūra – aggettivo della stessa famiglia di Spənta, appellativo usato per le sette divinità che presiedono
alla vita materiale e morale dell’uomo – identificato con forte, ma che
significa anche gonfiarsi, dal verbo Sū- accrescersi, che implica forza, ma
anche prosperità. Un rapporto simile è possibile individuarlo col greco Kueîn
(essere incinta, portare nel proprio seno) e Kûros (forza, sovranità).
«Tanto in indoiranico che in greco, il senso
evolve da rigonfiamento a forza o prosperità. Questa forza definita
dall’aggettivo avestico sūra è forza di pienezza, di rigonfiamento.
Infine, Spənta caratterizza
la nozione o l’essere provvisto di questa virtù, che è sviluppo interno,
crescita e potenza. Tra il greco kueo
essere incinta e kúrios sovrano, tra
l’avestico sūra forte e Spənta
–, sono così ristabilite le relazioni che, a poco a poco, precisano
l’origine singolare della nozione di sacro. [...] Possiamo presumere, benché il
termine slavo corrispondente non sia noto se non come traduzione di una nozione
cristiana, che la nozione originale dell’antico slavo Svetu fosse carica di rappresentazioni naturiste. Gli Slavi hanno
conservato dopo la conversione molte vestigia di nozioni pagane. In canzoni
popolari impregnate di un folklore preistorico, Svetu si riferisce a parole o esseri dotati di una potenza
soprannaturale. [...] Il carattere santo e sacro si definisce così in una
nozione di forza esuberante e fecondante, capace di portare alla vita, di far
sorgere i prodotti della natura»[8].
Inoltre, la nozione di Sacro è scritto secondo l'analisi
etimologica di Ottorino Pianigiani che dal latino Sac-ru(m) «dalla radice indoeuropea Sac-, Sak-, Sag-, attaccare, aderire [...] Ma
potrebbe con altri riferirsi anche alla radice del sanscrito Sac-ate, seguire, accompagnare»[9] rivela, insieme all'origine,
più recente, di Religione – «da un supposto verbo Relìgere composto della particella Re- che accenna a una frequenza e Légere [...] altri da Re-Ligàre unire insieme»[10] – la tendenza, già svelata in precedenza, dell'origine del
sacro, di questo concetto in relazione al ritorno, al tenere insieme, al
legare, al legame, nei casi precedenti si è visto come nei termini più antichi
risulti più forte la tendenza al rappresentare il legame con la madre, tanto
che la significazione profonda è la madre[11].
La terza manifestazione, l’attività sessuale, presa in parte in esame nei
precedenti capitoli, necessita dell’aggiunta dei concetti espressi da Ferenczi – in cui il coito è visto come
soddisfazione dell’istinto in virtù di un ritorno alla madre (Regressus ad Uterum) e il sonno, assieme
al coito, rappresenta una ripetizione delle forme di esistenza intrauterina.
In “Riflessioni per Ugo Carrega”, contenuta in Disperate del
XX secolo (edita nella collana di scritture sperimentali curata da Dòdaro nel
1989 per le Edizioni Il Laboratorio, Parabita, Le, ed in cui furono pubblicati
Carrega e Caruso), scriveva Dòdaro, accordandosi indagando su quei ceppi
linguistici che si articolano lungo tutto lo scibile umano, che «Ho voluto
trovare il seme di tutte le parole custodite in tutte le biblioteche; MATE […]
Ho voluto capire la pietas. La pietà. Michelangelo. Il pietoso Khristòs (unto):
PUER. Pietoso spostamento, capovolgimento. Con pietoso atto ho sostituito il
pietoso Mashiah (unto) con il pietoso PUER. Ed ho ritrovato la tua voce: MATE».

«Pronto? Pronto, sì. L’infanzia,
l’innocenza: la guerra di dipendenza (non di indipendenza). La naca. La
madonna.
Pronto? Pronto, sì. Ma il pianto del settenario iacoponico è il dolore del
figlio! Capisci, del figlio, per la perdita del complemento lacaniano,
sembiante, anche, della carne tragicamente perduta. Del figlio, non della
madre!
[…]
Allô, oui. C’est peut-être l’enfance qui approche le plus de la «vraie vie».
Oui.
[…]
Dal silenzio di quattromila anni, nel grande oceano negativo, piangendo.
[…]
Pronto? Pronto, sì. Quest’estate l’acqua ha irrigato i tuoi boschi di vetro.
Quest’estate le rose sono nere. Quest’estate io parto» [12]
Plurilinguismo.
Ripetizioni. L’anafora, dal serbatoio dello stabreim,
bussa con forza, con sicurezza, a battere il ritmo. Una condizione poietica
annidata al Tam-Tam paleolitico, nell’incavo segreto dell’origine.
«Vendita
promozionale. Le cento pecore di Nunzio. Le cento fiche. Le cento lune della
paura. Nella zona di San Pio ieri è sorto un Comitato di protesta. Max Mara,
Rocco Barocco, Ferré e Missoni. Ancora Missoni. Missoni. M. La “m” è la lettera
più grande: 18 unità. Cento pecore. Cento pecore ed un bambino. [...] Fichi e
freddo. Pastore. Vastar. Vastra. Vasto. Vastità. il re della Murgia. Un secchio
di resti per il cane. [...] Vendita promozionale. I gelsomini della Murgia. Le
mimose del Serrone. Le stelle della notte di natale. Dal 15 al 30 gennaio.
Comunicazione al Sindaco del 20 dicembre. Domani, 20 dicembre, bombarderemo la
città. L'Adriatico s'incendia. Le rose dell'Adriatico. Dalle macerie una mano
parla. Un cumulo di pietre. Sette piani di pietre»[13].
L’approccio
dòdariano alla parola si nutre dell’oralità, del suono, dunque delle radici
etimologiche e sonore, una vastità di timbri legati ad un tempo remoto e capaci
di compenetrazione dei tessuti temporali, producendosi su criteri di
universalizzazione significante. L’ambito dell’origine è proposto in questa
prassi poietica nel filtro della comunicazione mass-mediale. Il linguaggio
dell’origine veicolato attraverso modalità tipiche della comunicazione di
massa. La pressione del mondo sull’esistente appare deducibile attraverso le
collane editoriali progettate, ideate da Dòdaro: «Ghen arte» (Lecce, 1978)
giornale modulare del movimento di Arte Genetica che vede il modulo come unità
di misura del pensiero, «Violazioni estetiche» (Lecce, 1981), «Scritture» (Parabita,
1989), «Spagine. Scritture infinite» (Caprarica di Lecce, 1989) una collana
spaginata di nuove scritture, formato poster, «Compact Type. Nuova narrativa»
(Caprarica di Lecce, 1990) romanzi in tre cartelle, «Diapoesitive. Scritture
per gli schermi» (Caprarica di Lecce, 1990) narrazioni poetiche, verbo-visive,
da proiettare, la città è il libro, «Mail Fiction» (Caprarica di Lecce, 1991)
romanzi su cartolina, «Wall Word» (Lecce, 1992) romanzi da muro che attingono
alle violazioni concrete di Carlo Belloli ed alle esperienze della
comunicazione pubblicitaria, «New Page. Narrativa, Teatro, Poesia, Scavi, in
store» (Lecce, 2009) romanzi di cento parole, teatro in cento parole,
saggistica e poesia, applicati su crowner, pannelli cartonati, da esporre nelle
vetrine dei negozi, in store. Dunque una ricerca dell’origine che entra nei
flussi della quotidianità guardando all’Altro, attuando una frattura nel sistema
editoriale, guardando ad una rifondazione dell’ anthropos attraverso il linguaggio poetico. La dicotomia
congiunzione-mancanza è una delle caratteristiche fondamentali della poetica di
Dòdaro.

La riduzione del linguaggio ad
elementi minimi significanti che appaiono significati all'interno di una
contestualizzazione che li restituisce al lettore al di là del loro senso
nell'uso quotidiano, ancorandoli ad una comprensione extra-letteraria, ad un
linguaggio dei corpi come movimento significante della percezione dell'altro.
Il linguaggio è consumato. La radice sonora si schiude a nuova alba lungo
l'orizzonte di un percorso in cui il segno è ad un tempo simbolico e
pre-simbolico, lucidità e marasma. Lo svalutamento delle relazioni umane si
registra nella necessità di una denuncia da percorrere attraverso elementi di
un detournament poietico, a partire
dalla grammatica letteraria di Dòdaro che vede la parola a stretto contatto, in
un continuo scambio, con le evoluzioni dei new-media.

6.La parola come
entità percettiva, la relazione dell’incontro
La parola come entità percettiva attualizzata attraverso il movimento del corpo
percipiente e la sua sonorità torna sulla pagina in quanto strumento sonoro.
L’incontro Villa-Dòdaro, l’assonanza, la giustapposizione fra la differenza
delle posizioni, seppur accostabili, si realizza, dunque, sulle direttrici che
vertono da un lato sulla ricerca dell’origine del linguaggio, che appare come
momento di sviluppo, dunque in divenire piuttosto che dogma e staticità, e
l’esplicazione dell’origine attraverso il movimento sonoro della parola. Se
Emilio Villa è teso fra il vuoto di Mallarmé e la sonorità di Nietzsche, Dòdaro
si muove sulle coordinate Verlaine-Freud-Lacan. Da un lato le due esperienze
coincidono sull’uso smodato della ripetizione che non appare, quest’uso smodato
e fondante, figlio della lingua italiana, in cui la ripetizione è soggetta
all’arbitrio dell’autore, si lega, invece, allo stabreim dell’antico alto tedesco, dove lo stabreim, appunto la ripetizione, non appare opzionale, ma
necessaria, strutturale, spesso articolata nel Langzeile (verso lungo), e “sonorizzata” nella presenza, ancora,
necessaria di suoni bassi, squassanti. Altra condizione di raccordo
ideologico-letteraria è dunque la presenza costante di questa musicalità
arcaica, primordiale, legata a suoni bassi.
«Kart kars
ker
crin krus
kres
kruk
Christ cru
Christ cresc
cereast cereal
cru»[14]
Emilio Villa,
attingendo da Nietzsche, s’avvicina a ciò proprio a partire dagli studi del
filosofo sull’Origine della tragedia
greca, dove appare evidente che questa nasce e si struttura in base al pathos generato dalla musica, una musica
dionisiaca più che apollinea, fatta di suoni bassi e squassanti piuttosto che
da architetture apollinee della mente. In Dòdaro questa musicalità attinge a
Schopenhauer, radice nietzscheana ma anche freudiana, secondo cui la musica appare come quella forma d’arte che «ha
un influsso così potente nell’intimo dell’uomo, dove è da lui compresa così
pienamente e profondamente, come una lingua assolutamente universale»[15], tanto da
porre, nella sua analisi, la musica come rappresentazione del mondo – essa si
porrebbe nella stessa condizione in cui si troverebbero le altre arti verso le
idee –, di quella volontà universale della quale le idee sono l’oggettivazione:
«La musica è infatti un’immediata oggettivazione e una riproduzione
dell’intera volontà, così come lo è il mondo, anzi come lo sono le idee, il cui
fenomeno moltiplicato costituisce il mondo delle singole cose. La musica,
dunque, non è affatto come le altre arti, la riproduzione delle idee, bensì la
riproduzione della volontà stessa, di cui anche le idee sono oggettivazione.
Appunto per questo l’effetto della musica è tanto più potente e penetrante di quello
delle altre arti, poiché queste parlano soltanto dell’ombra, quella invece
dell’essenza. [...] Nei suoni più bassi dell’armonia, nel basso fondamentale,
io riconosco i gradi più bassi dell’oggettivazione della volontà, la natura
inorganica, la massa del pianeta. [...] Soltanto la melodia ha, dal principio
alla fine, una connessione pregnante e pienamente intenzionale. Essa narra, di
conseguenza, la storia della volontà illuminata dalla ragionevolezza»[16].
Altro elemento fondamentale che conduce ad un incontro le
due proposte sonore è possibile riscontrarlo a partire dal verso dell’Arte
poetica di Verlaine in cui il simbolista si erge a plinto della
contemporaneità, dalla musica tutte le
cose, andando a condensare la sonorità del verso che assume un ruolo privilegiato
rispetto alle dinamiche del senso, ed aprendo, anzi, alle sperimentazioni
sonore della poesia fonetica di Hugo Ball e del Dadaismo in genere. Una
legatura sonora scorre fra le linee di ricerca dei due autori.
7. Verso l’origine, il paradigma sonoro
L’elemento sonoro come paradigma attraverso cui esplicare la propria ricerca
dell’origine, appare come quell’elemento in cui nella scrittura villiana si
situa il luogo di realizzazione poetica della percezione, quel connubio
uomo-mondo, un j’y pense istintuale a
partire dal quale entrano in contatto l’uomo e il mondo in rapporti di
reciprocità ed in cui il pensiero nella sua massima esplicazione, ossia
l’originarietà, l’arcaico, il genius
ha realizzazione nel movimento autorale-amanuense che è appunto il raccordo con
il mondo. In Dòdaro, questa sonorità che appare legata all’intrauterino, al
prenatale, e che si ripresenta in anamnesi, in radice, come condizione dell’être-au-monde denota l’immanenza
dell’anima ancorandola alla cosa.
Dunque l’armonia dei contrari nella mescolanza intrauterina, nella krasis dei complementi appare come
immanenza-trascendenza in quanto universalità, ossia istanza individuale e collettiva,
in entrambe le proposte poetiche, imbevute di quella sonorità come nucleo o
tentativo di accesso all’esperienza primaria.