PRIMO PIANO
EMILIO VILLA
E FRANCESCO SAVERIO DÒDARO
J’y pense. Ovvero i semi
del linguaggio


      
Una non ovvia, affilata ricognizione critica che accosta e incrocia le traiettorie di due radicali esponenti dei linguaggi di sperimentazione del Novecento italiano. L’autore-artista lombardo morto nel 2003 e l’84enne poeta, narratore, autore verbo-visivo e teorico culturale barese, sono riguardati come i ricercatori ad oltranza di una poetica dell’origine che si esplica attraverso il movimento sonoro della parola. Se nel primo tale percorso è teso fra il vuoto di Mallarmé e la sonorità di Nietzsche, nel secondo esso si muove sulle coordinate Verlaine-Freud-Lacan. Da un lato l’originarietà, l’arcaico, il ‘genius’ si realizza in un operare autorale-amanuense che è appunto il raccordo con il mondo. Dall’altro lato, invece, questa sonorità appare legata all’intrauterino, al prenatale, e si ripresenta in anamnesi, in radice, come condizione di un ‘essere al mondo’ che denota l’immanenza dell’anima ancorandola alla ‘cosa’.
      



      

 

 

di Francesco Aprile

 

 

1. Introduzione

 

Emilio Villa e Francesco Saverio Dòdaro, entrambi esponenti dei linguaggi di sperimentazione del Novecento italiano, appaiono accostabili, per qualità e densità dell'afflato poietico, attraverso una sterminata tensione che li accomuna nella continua ricerca dei semi del linguaggio. Una scrittura poetica, quella dei due autori, in cui il plurilinguismo appare, anche nella vivificazione di lingue “morte”, non più come strumento o gioco, inserimento, ma come approccio strutturale e sonoro, cadenza ritmica e modalità del pensiero, arpeggio testuale di intimità sonore che rimandano ai semi, alle origini del linguaggio.

 

2.Emilio Villa, cenni biografici

 

Emilio Villa (Affori, 1914 – Rieti, 2003), poeta, artista, intellettuale, critico, si è fatto promotore di una infaticabile operazione di ricerca linguistica. Sostenitore dei valori dell’avanguardia, anticipatore per certi versi di alcuni caratteri della neoavanguardia, entra in contatto, negli anni ’40 a Roma, con la poesia concreta di Carlo Belloli[1], poeta futurista, prima di trasferirsi a San Paolo, in Brasile, dove, dieci anni dopo l’esperienza dei poemi murali di Belloli, il gruppo Noigandres conierà la terminologia “poesia concreta” (Belloli, infatti, teorizzò il concetto di “poesia visuale” anticipando, però, il concretismo della parola poetica). Di ritorno dal Brasile è ancora a Roma, dove si dedica allo studio della filologia semitica e paleogreca, uno studio indicativo di una tensione e direzione linguistica consapevole. Ha inoltre rappresentato uno snodo cruciale per numerosi artisti, grazie alla sua attività critica, contribuendo in modo determinante a fare emergere artisti come Burri, Novelli, Debernardi, Francesconi e altri. Da Carmelo Bene a Rothko, da Duchamp a Matta, ha intrattenuto collaborazioni e stretti rapporti con alcuni dei più grandi artisti internazionali. Secondo prospettive avanguardistiche, ha diffuso i suoi testi per vie semiclandestine, conducendo un lavoro di protesta contro la dimensione facile e commerciale dell’editoria.

 

3.Francesco Saverio Dòdaro, cenni biografici

 

Francesco Saverio Dòdaro (Bari, 1930), è poeta, narratore, poeta verbo-visivo, teorico di movimenti artistico-culturali. Da ragazzo si interessa di teatro e pittura, fino ad essere sconvolto dalla frontiera metafisica di Morandi. Dunque fugge a Bologna, nell’immediato secondo dopoguerra. Di ritorno a Bari l’incontro con il poeta armeno Hrand Nazariantz lo segna al punto che – dopo un periodo intenso di avvicinamento e frequentazione con i Fiore, dunque il Meridionalismo, ed il lavoro presso l’ufficio stampa della Fiera del Levante – parte alla volta di Parigi, dove entra in contatto con gli esistenzialisti, per poi trasferirsi in via definitiva a Lecce negli anni ’50. Qui fonda nel 1976 il Movimento di Arte Genetica, con sede a Lecce, Genova e Toronto, caratterizzato da adesioni internazionali di ampio respiro (ruoteranno attorno alle attività ed alle riviste del movimento, fra gli altri, Jean-Luc Nancy, Bruno Munari, Eugenio Miccini, Giovanni Fontana, Rolando Mignani), e con il quale rintraccia l’origine del linguaggio nella mancanza ad essere per la separazione del soggetto dal complemento materno, annodando la ritmicità dei linguaggi umani all’archetipo del battito materno ascoltato in età fetale. Realizza e diffonde le sue opere attraverso edizioni semiclandestine, indipendenti, proponendo collane editoriali che scardinano il concetto di libro (romanzi in tre cartelle, romanzi su cartolina, romanzi da proiettare, narrativa di cento parole in store), lanciando segnali forti verso la mercificazione dell’editoria. Il suo linguaggio poetico si sviluppa sulle direttrici dei media, del ritmo e dell’etimologia della parola, quest’ultima è volta, appunto, ad indagare le origini del linguaggio. La sua posizione di autore e critico, sempre attento alle nuove proposte del territorio, lo pone come snodo e punto di riferimento per i linguaggi di ricerca nel Meridione, rappresentando un punto di partenza e maturazione per molti giovani artisti.

 

4.Emilio Villa, praeverbium


La proposta autorale di Emilio Villa è quella propria di un j’y pense, un ci penso praeverbium dettato dal suono della parola gestatrice. Un ci penso, ma innestato nell’istintualità del corpo che si muove, che entra in contatto, che si agita e lavora, testimonianza di un praeverbium kinetico, laddove l’apporto del corpo desiderante, pulsionale, agita poi l’azione poietica, testimoniando della materialità della scrittura. Un cumulo di linguaggi accomunati per accumulazione sonora, un alfabeto in movimento gestativo, l’esortazione desiderante della materia prima. Le ripetizioni sorvolano il testo, s’innestano in condizione necessitante alla parola. Le ripetizioni, nella pratica poetica di Emilio Villa, appaiono come un valore necessario alla dimensione più naturale della parola, dove questa appare in un continuo comporsi linguistico attraverso elementi minimi significanti, appunto, denotati dalla ripetizione come ossatura dei semi del linguaggio.

 

«all white you when future speak
all white with smell
all white legitimate confusion people
all white thoughts
all white singing
all is cause of movement of
all white herself and
[...]
e pigro segno delle sonore agonie il tardo
separare sé da sé e udir fina
marmorea onda e nebbie delle partizioni
straniere e dolce fiamma inglese o beduina.

[dia]thèmes sur l'air adhaesit anima, vivicafi secundum»

 

Le Diciassette variazioni su temi proposti per una pura ideologia fonetica, pubblicate nel 1955 e poi inserite nel volume Opere Poetiche I, Coliseum, 1989, mettono in evidenza il refrain villiano delle ripetizioni, la condizione di una strutturazione del testo che precede il testo in cui la parola appare nella sua sola funzione significante-sonora, restituita ad un linguaggio che torna indietro nel tempo, volgendo lo sguardo a trame pullulanti di una capacità discorsiva in divenire, ed ancora non strutturata, non formata, che ansimano nel loro formarsi, nel definirsi e disfarsi. Il pittore-scrittore villiano è amanuense. È colui che conduce l’opera attraverso il lavorio instancabile delle connessioni fra uomo-mondo, in questo senso l’amanuense scrittore-pittore è colto in ambiti di reciprocità in cui il movimento del corpo, la sua tensione, streben, è un continuo raccordo col mondo in un rapporto interno-esterno dove la parola si connota come tentativo di penetrare la res-extensa, scarnificando il testo, riducendolo alla materia prima, pura molecola di linguaggio nella vivificazione delle lingue morte. La scrittura è un vortice. La registrazione catastale del linguaggio villiano è un circolo immaginario perché immaginato come punto d’unione bi-univoco fra il j’y pense autorale e la stoffa del mondo. Una poetica dei semi del linguaggio riscontrabile nell’opera dell’autore attraverso il ricorso all’apprensione, l’appercezione come autocoscienza ed esperienza percettiva primaria che pone l’attore sociale in un raccordo primordiale, un canto dell’anthropos nell’attivazione delle dinamiche di essere e ragione restituiteci dal mondo. La scrittura come elemento del limite è una dissipazione della scrittura stessa, autocoscienza di una conoscenza autorale che non può non essere se non nello smagrirsi, nel depensarsi. Il linguaggio minimo è molecolare, ancorato al fondo di una unità dispersa che è accorpamento, unità degli opposti. Il fondo buio, è l’abisso generatore, ma è dentro questo, il chiaro. Dove questa unità degli opposti, dei diversi, degli indiscernibili, vede la voce, vox, connaturata ad una esponenzialità della sua espressione, in n variabili in movimento. La scrittura dissipata come azione, movimento quotidiano verso una matrice plurima di variabili che animano una coscienza diversa, nuova, perché in un luogo che è altro. L’inquadramento della poetica procede dunque in schemi d’azione in cui il movimento si disfa, si ritrae, torna e si disfa, ancora. La krasis, l’armonia nella mescolanza, come elemento di unità, come abbraccio fra l’autocoscienza conoscitiva e il movimento dello scrittore-amanuense.

 

Ègalement trout écrasé, massacré, tout, trou-krasis, trou crêtes [...] un tout un trou[2]

 

Un tutto, un foro, un movimento unificante della scrittura come mescolanza. La tensione verso il buio dell’origine ha come mezzo, come trasporto, il percorso verso la distruzione della conoscenza e come presupposto una conoscenza diversa, nuova. L’inserimento di elementi testuali che sovvertono l’ordine di lettura è il pervertimento della parola, sconsacrata e slegata dall’ordine strutturato della civiltà come fondamento archetipo.

 

 

Figura  SEQ Figura \* ARABIC -->1--> Emilio Villa, Traitée de pédèrasthie céleste, Colonnese Editore

 

 

L’inserimento di elementi testuali come pervertimento del testo, alterandone lo scorrimento dunque ponendosi come una frattura nell’attività conoscitiva nell’uso corrente, medio, della parola inscritta nell’ordine sociale che è fondato sul resto e cioè sulla negazione di quel percorso all’origine intrapreso da Villa.

 

 

Figura 2 Emilio Villa, hisse toi re d'amour da mou rire, Geiger 1975

 

 

La distorsione semiologica delle lingue, dei linguaggi da Villa introdotti e vivificati nella compenetrazione dialettica delle lingue differenti, ma corrispondenti per matrice iniziatica, scura e lucida al contempo, è strumento di deformazione e protesta che si concretizza in un progressivo abbandono della lingua italiana, a volte totale a volte parziale, di quell’Ytalya considerata come terra accademica e dunque come lingua della schiavitù. L’uso di lingue come latino, greco, semitico, francese, inglese, diventa preponderante nella pratica poetica, in un contesto letterario che si registra, come già detto, non come gioco o pratica fine a se stessa, ma alla base del modus operandi si pone una attualità e attualizzazione del pensare e del pensiero, un pensarci, un j’y pense della pratica poetica che vivifica, in una trance estrema del movimento corporeo, la pratica autorale e le lingue morte lungo una manualità come estensione della continua capacità creativa del mondo, un j’y pense ma percettivo, intuitivo istintuale della parola nuda e sonora in cui la conoscenza villiana appare da un lato legata al movimento percettivo e dall’altro ad una sua stessa automazione – non in quanto automatica – ma in quanto consapevolezza, ma e soprattutto come rifiuto della storia, pervertimento di questa intesa come strumento dell’errore, come mezzo del “resto”, della negazione originaria alla quale accede l’uomo nel processo sociale. La lingua smette di significare per lasciarsi dietro le cose e tornare ad essere lingua in quanto sistema di suoni, portando Villa quasi alla creazione di una lingua per la lingua.

La parola è l’accadimento mistico che s’appalesa sulla pagina. Un linguaggio che è cosa, sul foglio, ma che è colto nella tensione, duale, dell’immanenza e della trascendenza. È cosa immanente sulla pagina, staccata concettualmente dalla cosa o dal senso e dalle convenzioni, dunque, significative, torna come trascendenza della cosa perché suono, articolazione mnestica di un accadimento remoto e collettivo che trapassa nel personale e che di tanto in tanto si riaffaccia in superficie chiedendo spazio, nel verso. Il ritmo è il veicolo e la parola è in quanto ritmo. La parola-suono immanente trascende la parola stessa perché è proprio del suono quell’universalizzazione significante, ritmica e arcaica, che sostanzia l’uomo, colta nella dualità immanenza/trascendenza dove quest’ultima sa connotarsi come universalizzazione della prima. Ma è la natura dell’architettura significante che elude il significato, abbandonandolo, a farsi portatrice della dimensione della parola. Tale universalizzazione, a mezzo sonoro-significante della parola poetica, s’inserisce in chiave continuativa nella negazione della storia, esplicitandosi per un carattere atemporale della parole, in un trou primordiale e contemporaneo che caratterizza il linguaggio poetico per l’impossibilità d’afferrare l’arcaico, la pienezza di un movimento desiderante che di continuo sfugge agli sforzi di un regressus a mezzo poetico. Il nulla villiano dell’origine appare nella forma testuale della poetica detonato, più che nell’indifferenziato, nella differenza che, sonora, intercorre fra i termini scelti, esplicati sulla pagina di volta in volta. Le differenze fra parola e parola a volte minime ma essenziali, vanno a precisare l’azione, la struttura, dunque la preminenza di questa, del significante, sul resto, apportando in modo esplicito, esortativo, dichiaratorio, alla poetica quella dimensione dell’humus dell’unità fra i contrari, della diversità che nell’origine si rintraccia si ritrova si scopre s’unisce.

 

«haleine y ps y pour / pour une âme bien muette / my mu été / muette / parole / absente»[3]

 

Un continuo tornare, rifrarsi di contenuti rimossi dal personale lontano, personalissimo, l’infanzia, l’inconscio, la formazione di sé, del sé, che tornano e affiorano in maniera forte e decisa, come schegge, ecco l’apparire di frammenti, di parole scheggiate, slegate, slanciate, gettate sulla pagina e articolate su questa come fossero nel vuoto; la distribuzione del testo si nutre delle violazioni concrete di Belloli, sì, ma in linea di massima sfonda il muro del concretismo smagrendosi sul margine, sbiancandosi sulla scia del tempo che passa, con incursioni asemantiche, la parola è distribuita, calligrafa e calligrafata adornata sul vuoto di un coup, sul vuoto strutturale della pagina a partire da Mallarmé e «al contempo tallonava Joyce, che aveva nutrito la stessa ambizione durante la stesura di Finnegans Wake, intricatissimo congegno retorico concepito per far coincidere micro- e macro-cosmo, vita privata di Joyce e storia dell’umanità, in un’unica dedalica realtà linguistica»[4]. La scrittura villiana è elemento partecipato e partecipativo, complementare anche nella modulazione della sua espressione. È nella complementarietà che risulta, ad esempio, dall’innumerevole quantità di testi che l’autore scrive in partecipazione con altri artisti, pittori ecc, come ad esempio gli scritti su Burri o Capogrossi, in cui emerge chiara la compartecipazione che non termina nella semplice esegesi dell’opera pittorica, ma procede nell’esplicazione dell’idea letteraria e artistica di Villa.

 

«Da una nozione semplice di umana fiducia, che esordiva come atto perentorio, da uno scarto improvviso, nasceva la prima, e primaria, e persuasa tentazione di designificare decolorare deplatonizzare i confusissimi gerghi pittorici: e in tale modo, e tale scatto, che ancora nessuno, io penso, aveva tentato così rigoroso e stretto e solenne e puro e povero. […] Per un primo accostamento io e Cagli parlammo dell’aleph-taurus; Matta e io parlammo dell’io-je. Comunque, in questo senso, quello di Capogrossi è stato il tentativo più acuto, più toccante. Ritrovare in imo, in intumo homine, un segno di grado iniziativo, un praesagium allo stato di pura molecola. Ritrovare il praeverbium scabro, prezioso, secco, dove l’intera mente confluisce, con meraviglie e inganni e di dove il nucleo si coglie»[5]

 

Questa partecipazione da intendersi come possibilità è l’approccio dialogico e dialettico dell’autore, rappresentando la percezione autorale quel luogo che incarna l’incontro, dunque il possibile, che nel dialogo accresce ponendoci davanti ad una serie di condotte simboliche che pur non appartenendoci permettono lo scavo e l’analisi ben oltre l’esegesi dell’opera dell’Altro. Ciò che emerge dallo scritto su Capogrossi, e più in generale dagli scritti del Villa critico, è quella dualità che caratterizza l’intento interpretativo del poeta che se da un lato penetra nell’opera pittorica, dall’altro procede all’esplicazione del suo processo poetico.

 

5.Francesco Saverio Dòdaro, matà


Nel 1976 Francesco Saverio Dòdaro fonda il Movimento di Arte Genetica. Con tale movimento rintraccia la ritmicità, la musicalità dell’opera d’arte, e del linguaggio in genere, nel battito del cuore materno ascoltato in età fetale, considerando il linguaggio come processo di lutto per la separazione del soggetto dal complemento materno. La poetica dòdariana è il ritmo di un frammento disperso, di una serie di frammenti prima platonici, poi rimbaudiani, colti ancora nell'effervescenza Freud-Lacan-Kristeva. Se c'è una tensione, uno sforzo, anche qui, uno streben, è quello dell'esistente oltre il vuoto, un al di là che connota l'esistenza, altrove di ricordanze archetipiche. L'esigenza primaria dell'esistente articolata nella rappresentazione lacaniana del fantasma, dell'espressione di quel resto di godimento frammentato, di quel resto che resta nell'ingresso nella struttura. Dòdaro analizza, con piglio da filologo, le lingue antiche registrando la sua poetica sulle coordinate del duale che denota uno stacco considerevole fra le lingue arcaiche e la nostra contemporaneità. La presenza, in tali lingue, del duale, affiancata a tutta una serie di immagini ricorrenti, la grande madre, la musicalità, rimandano ad un tempo personale e collettivo, inscritto nella memoria di ognuno. L'arte come linguaggio del lutto è la lettura dòdariana di un linguaggio che ha come origine un drastico e radicale processo di lutto che connota l'esistente affermandone l'esistenza lungo un tracciato che è quello della mancanza, una manque à être che ha nell'al di là di ogni manifestazione quella spinta, pulsionale, dell'esistente a manifestarsi in quanto esistenza nel tentativo linguistico di una congiunzione all'Altro, in quanto ogni spinta in avanti ha come motore la forza attrattiva del passato. Il linguaggio è una congiunzione.

 

Il linguaggio è una congiunzione, il linguaggio è una «e»
Una «e» che suona il «violin»
Il linguaggio è il mio immaginario, che balla davanti al «miroir»,
Il linguaggio è il mio gemello. La mia yem che canta in nome del padre, del figliuolo e di «mater dulcissima» L’esistenza è oltre il filo del telefono pronto, il mio compleanno? Io il desiderio
Pronto l’antropiano? La punta del dito segna il ritmo del churinga
in nome del padre, del figliuolo e del ritmo dolcissimo pipistrellus
- pipistrellus non ostacolare l’oscillar dell’infelice
cot-deaths, cot-deaths
L’onde sull’albero. E fu fatto l’albero
L’onde su lithos. E fu fatto lithos
L’onde sull’es. E fu fatto l’es. E parlò – in nome del padre, del figliuolo e della Lingua Dulcissima
La notte alla stazione, binario 7°, binario morto, il freddo ed i cani, per il serrone, fra le bitte e le traudie, 15 maggio…
No. Non so dove esisto -
Diciamo Parigi, 15 maggio 1979
Ed è l’eco… Dulcissima -

 

Le fasi freudiane della sessualità infantile sono lette da Dòdaro nell'ottica di una radice che rimanderebbe alla pienezza del godimento dell'esperienza primaria, all'unità duale madre-bambino. Dunque a partire dalla fase anale, passando per quella orale, ciucciare il dito, allattare al seno, lo sperma, la fase genitale, risultano inscritte in quella mancanza, primaria perché fondante, che si esplicita in una continua tensione volta alla rifondazione della coppia, della dualità dispersa, in quanto lo stato intrauterino farebbe riferimento ad ambiente liquido e non gassoso. Un ritorno alla pienezza come Dualità, come rifondazione della coppia, allontanandosi, dunque, dal regressus ferencziano. Lo strumento etimologico, come in Emilio Villa, connota il discorso poetico. L'analisi condotta da Dòdaro, avviata negli anni '50 (dopo una brevissima parentesi pittorica, quattro anni) e protrattasi fino agli anni '70 con la fondazione nel 1976 del movimento di Arte Genetica, e che in realtà prosegue arrivando inesaurita ad oggi, verte sulla ricerca etimologica affiancata dallo strumento psicoanalitico che irrobustisce il percorso di ricerca. Scavare etimologicamente sulla parola “seno” comporta imbattersi in una serie di testimonianze che di volta in volta riportano la parola al concetto di felicità passando attraverso il ventre materno e la capacità generatrice, creatrice della donna annodando il tutto alla figura archetipica della grande madre e all’unità duale fondativa. Il seno è quella felicità intesa come ricongiungimento dei frammenti, un ritorno al ciò che è stato, un tentativo di ripristinare l'unità duale; infatti felicità da Phyo (Fèo) e dalla radice Bhu, essere, feto, femmina, felice. Come Emilio Villa, lavorerà sulle lingue morte, producendo una vivificazione costante dei linguaggi, un approccio sonoro alla parola che trasuda il ciò che è stato, l’esistenza, l’essenza della radice ha l’articolazione sonora della creazione linguistica, del pianto primordiale, del dolore, dell’eco della gestazione. Ha lavorato sul greco e sul latino, sui geroglifici egizi e sul pensiero dell’antico Egitto – Il libro dei morti – il sanscrito, le antiche lingue slave, i ceppi germanici. Il ceppo unico del linguaggio, la tensione dell’esistente alla rifondazione della coppia, della dualità primigenia ha radice maternale (Sanscrito ed avestico: matar; armeno: mayr; greco: meter; antico irlandese: mathir; antico slavo: mati; antico tedesco: muotar. Ancora, il fango “moor”, la fanghiglia “moder”, il mare “meer”, la madre “mutter”).

 

Mater externata. Mater et virgo maculata. Pulvis puella atque mater.
- Madre e signora dell’acqua -
Le sorgenti neummaniane. Il grande fiume dell’inconscio. Tra le vallate della storia, il respiro del mitologema, l’oscurità della notte primordiale. Sulla barca pleromatica. Alla vela dell’uroboro che genera, produce, divora, e sul verso il cerchio vuoto cinese wu chi. L’albero è indifferenziato. […]
Nei geroglifici egiziani cuore = pensiero, anima, principio spirituale. Dall’antico Libro: Mio cuore, mia madre, mio cuore, mia madre! Mio cuore delle trasformazioni.[6]

 

Elemento di raccordo fra le poetiche dei due autori, oltre lo strumento etimologico, appare in quella doppia via già analizzata in Villa. La produzione di Dòdaro si esplicita parallelamente in una stesura critica in cui l’autore delinea, simbioticamente all’opera degli autori trattati, il proprio pensiero, la propria ricerca, prodigandosi in una serie di testi al contempo critici e poetici, con un forte piglio saggistico, in cui l’analisi svetta ancorandosi alla ripetizione sonora del verso. Ciò appare evidente nel caso sopracitato, ossia l’analisi dell’opera di Luciano Caruso e torna, fra gli altri, nel testo che segue:

 

Dodici haiku. Dodici punti di rilevamento. H 4800. H 4432. H 4953. L’estensione morfologica dei fenomeni dell’inconscio. Dodici isobate. Dodici linee della glossa poietica.
Dodici isoglosse. Del dolore universale: il neummaniano «Weltschmerz». […]
Dodici isoglosse. Le parole dei processi di lutto.
Sulla carta della nostra solitudine. Fiabescamente.[7]

 

Attraverso l'opera di Thass-Thienemann, Dòdaro parte all'analisi delle antiche lingue slave dove è possibile rintracciare la parola vuoto come contrario di incinta, dunque la separazione, la lacerazione, la mancanza, che nello scavo etimologico risulta ascrivibile al trauma della nascita, la separazione e dissipazione dell'unità duale, la perdita dell'uno-tutto. Ancora sulla parola felicità, che in un componimento attribuito a Petrarca incontra sul piano semantico il ventre, “ventre materno”, mentre per Giacomo da Lentini (1250) risulta essere “intimità della coscienza”. Una poetica del ventre, una sonorità del battito materno, è ciò che contraddistingue l'agire poietico di Dòdaro. Nel 1983 realizza l'opera verbo-visiva “Mar/e Amniotico”, che oggi si trova presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze - Libri e pagine d'artista, in cui la “e” appare ancora una volta come una congiunzione esistenziale, una legatura dell'anima immanente, annidata ai serbatoi mnestici della trazione passata come motrice futura, ai deserti dell'Alterità che nel duale appaiono colti in un tentativo di rifondazione. Nel 1979, invece, realizza l’installazione “Matram psicofisica”, in cui attraverso la curvatura del metro per la misurazione dell’uomo di Le Corbusier disposto in posizione fetale, realizza una sfera lignea di diametro 1,12 metri, inserendovi all’interno un metronomo sulle frequenze del cuore, ricreando l’ambiente intrauterino, pre-natale, che ai visitatori provocava, nell’atto dell’accostare l’orecchio, stordimenti, mancanze, malesseri, debolezze.

Giovanni Invitto, docente presso l’Università del Salento, scrive in «La zucca di Cenerentola. L’errore pedagogico» di Giovanna Bruco, che «La tesi di fondo è che la vita psichica si forma alla nascita e che la realtà mentale umana si sviluppa su basi biologiche e non spirituali. Nella nascita ha sede la stessa formazione delle immagini inconsce non oniriche come fulcro dell’attività pensante umana. Ne scaturisce un nuovo concetto di anima, assorbito da un altrettanto nuovo concetto di mentale, “che altro non è che l’evoluzione della vitalità del feto, che dal suo primo rapporto con il liquido amniotico sviluppa la carica libidica originaria nel rapporto affettivo coi propri simili fino a raggiungere quel pensiero verbale che caratterizza la peculiarità della specie umana distinguendola dal regno animale.” [...] In colloqui epistolari con l’Autrice, le dicevo che questa tesi a me ricorda un movimento culturale/artistico degli anni Settanta-Ottanta, chiamato Ghen. Francesco Saverio Dòdaro fondò nel ’76 il Movimento Genetico, rintracciando la ritmicità amniotica nell’opera d’arte e annodando la condizione poetica ai mourning process. Da questo l’arte diviene il linguaggio del lutto, per la seperazione, per la perdita maternale, e per il distacco dal liquido materno». Nel numero di Ghen, giornale modulare a cura del movimento di Arte Genetica, del giugno 1978, Francesco Saverio Dòdaro affronta il discorso di quelli che lui definisce Link, i legami maternali, attraverso quelle che individua come le tre manifestazioni storiche più importanti nell’uomo: arte, religio e vita sessuale. Ciò di cui si serve è un’attenta analisi filosofica e etimologica attraverso lo strumento linguistico, storico e antropologico degli studi che sui termini aveva portato a termine il filologo Émile Benveniste ne Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee.

Partendo da un’analisi comparativa di queste tre manifestazioni individua il seme, attraverso lo sviluppo dialettico e le matrici nodali, per cui secondo lo stesso Dòdaro è il legame, il link, quel senso primario che le accomuna. L'etimologico Pianigiani mette in evidenza come la strada seguita da Dòdaro, via Benveniste e non solo, sia da tenere in considerazione e, anzi, sembra porsi come conferma del legame maternale, della giunzione che quella pulsione, poi desiderio, si pone nel linguaggio come ritorno, espressione e tentativo di riabbracciare la pienezza. La parola arte, dal latino Àr-tem, dalla radice Ar (la stessa individuata da Dòdaro) che nel sanscrito e nell'avestico (zendo) assume i significati di mettere in moto, muoversi verso qualcosa o qualcuno, aderire, attaccare, si connota come manifestazione umana del tenere insieme (da qui l'individuazione, anche, del linguaggio come rifondazione della coppia). Per quanto concerne l’analisi della religio è interessante seguire il percorso proposto da Benveniste che in avestico trova l’aggettivo sūra – aggettivo della stessa famiglia di Spənta, appellativo usato per le sette divinità che presiedono alla vita materiale e morale dell’uomo – identificato con forte, ma che significa anche gonfiarsi, dal verbo Sū- accrescersi, che implica forza, ma anche prosperità. Un rapporto simile è possibile individuarlo col greco Kueîn (essere incinta, portare nel proprio seno) e Kûros (forza, sovranità).

 

«Tanto in indoiranico che in greco, il senso evolve da rigonfiamento a forza o prosperità. Questa forza definita dall’aggettivo avestico sūra è forza di pienezza, di rigonfiamento. Infine, Spənta caratterizza la nozione o l’essere provvisto di questa virtù, che è sviluppo interno, crescita e potenza. Tra il greco kueo essere incinta e kúrios sovrano, tra l’avestico sūra forte e Spənta , sono così ristabilite le relazioni che, a poco a poco, precisano l’origine singolare della nozione di sacro. [...] Possiamo presumere, benché il termine slavo corrispondente non sia noto se non come traduzione di una nozione cristiana, che la nozione originale dell’antico slavo Svetu fosse carica di rappresentazioni naturiste. Gli Slavi hanno conservato dopo la conversione molte vestigia di nozioni pagane. In canzoni popolari impregnate di un folklore preistorico, Svetu si riferisce a parole o esseri dotati di una potenza soprannaturale. [...] Il carattere santo e sacro si definisce così in una nozione di forza esuberante e fecondante, capace di portare alla vita, di far sorgere i prodotti della natura»[8].

 

Inoltre, la nozione di Sacro è scritto secondo l'analisi etimologica di Ottorino Pianigiani che dal latino Sac-ru(m) «dalla radice indoeuropea Sac-, Sak-, Sag-, attaccare, aderire [...] Ma potrebbe con altri riferirsi anche alla radice del sanscrito Sac-ate, seguire, accompagnare»[9] rivela, insieme all'origine, più recente, di Religione «da un supposto verbo Relìgere composto della particella Re- che accenna a una frequenza e Légere [...] altri da Re-Ligàre unire insieme»[10] la tendenza, già svelata in precedenza, dell'origine del sacro, di questo concetto in relazione al ritorno, al tenere insieme, al legare, al legame, nei casi precedenti si è visto come nei termini più antichi risulti più forte la tendenza al rappresentare il legame con la madre, tanto che la significazione profonda è la madre[11]. La terza manifestazione, l’attività sessuale, presa in parte in esame nei precedenti capitoli, necessita dell’aggiunta dei concetti espressi da Ferenczi – in cui il coito è visto come soddisfazione dell’istinto in virtù di un ritorno alla madre (Regressus ad Uterum) e il sonno, assieme al coito, rappresenta una ripetizione delle forme di esistenza intrauterina.

In “Riflessioni per Ugo Carrega”, contenuta in Disperate del XX secolo (edita nella collana di scritture sperimentali curata da Dòdaro nel 1989 per le Edizioni Il Laboratorio, Parabita, Le, ed in cui furono pubblicati Carrega e Caruso), scriveva Dòdaro, accordandosi indagando su quei ceppi linguistici che si articolano lungo tutto lo scibile umano, che «Ho voluto trovare il seme di tutte le parole custodite in tutte le biblioteche; MATE […] Ho voluto capire la pietas. La pietà. Michelangelo. Il pietoso Khristòs (unto): PUER. Pietoso spostamento, capovolgimento. Con pietoso atto ho sostituito il pietoso Mashiah (unto) con il pietoso PUER. Ed ho ritrovato la tua voce: MATE».

 

 

 

 

«Pronto? Pronto, sì. L’infanzia, l’innocenza: la guerra di dipendenza (non di indipendenza). La naca. La madonna.
Pronto? Pronto, sì. Ma il pianto del settenario iacoponico è il dolore del figlio! Capisci, del figlio, per la perdita del complemento lacaniano, sembiante, anche, della carne tragicamente perduta. Del figlio, non della madre!
[…]
Allô, oui. C’est peut-être l’enfance qui approche le plus de la «vraie vie». Oui.
[…]
Dal silenzio di quattromila anni, nel grande oceano negativo, piangendo.
[…]
Pronto? Pronto, sì. Quest’estate l’acqua ha irrigato i tuoi boschi di vetro. Quest’estate le rose sono nere. Quest’estate io parto» [12]

 

Plurilinguismo. Ripetizioni. L’anafora, dal serbatoio dello stabreim, bussa con forza, con sicurezza, a battere il ritmo. Una condizione poietica annidata al Tam-Tam paleolitico, nell’incavo segreto dell’origine. 

 

«Vendita promozionale. Le cento pecore di Nunzio. Le cento fiche. Le cento lune della paura. Nella zona di San Pio ieri è sorto un Comitato di protesta. Max Mara, Rocco Barocco, Ferré e Missoni. Ancora Missoni. Missoni. M. La “m” è la lettera più grande: 18 unità. Cento pecore. Cento pecore ed un bambino. [...] Fichi e freddo. Pastore. Vastar. Vastra. Vasto. Vastità. il re della Murgia. Un secchio di resti per il cane. [...] Vendita promozionale. I gelsomini della Murgia. Le mimose del Serrone. Le stelle della notte di natale. Dal 15 al 30 gennaio. Comunicazione al Sindaco del 20 dicembre. Domani, 20 dicembre, bombarderemo la città. L'Adriatico s'incendia. Le rose dell'Adriatico. Dalle macerie una mano parla. Un cumulo di pietre. Sette piani di pietre»[13].

 

L’approccio dòdariano alla parola si nutre dell’oralità, del suono, dunque delle radici etimologiche e sonore, una vastità di timbri legati ad un tempo remoto e capaci di compenetrazione dei tessuti temporali, producendosi su criteri di universalizzazione significante. L’ambito dell’origine è proposto in questa prassi poietica nel filtro della comunicazione mass-mediale. Il linguaggio dell’origine veicolato attraverso modalità tipiche della comunicazione di massa. La pressione del mondo sull’esistente appare deducibile attraverso le collane editoriali progettate, ideate da Dòdaro: «Ghen arte» (Lecce, 1978) giornale modulare del movimento di Arte Genetica che vede il modulo come unità di misura del pensiero, «Violazioni estetiche» (Lecce, 1981), «Scritture» (Parabita, 1989), «Spagine. Scritture infinite» (Caprarica di Lecce, 1989) una collana spaginata di nuove scritture, formato poster, «Compact Type. Nuova narrativa» (Caprarica di Lecce, 1990) romanzi in tre cartelle, «Diapoesitive. Scritture per gli schermi» (Caprarica di Lecce, 1990) narrazioni poetiche, verbo-visive, da proiettare, la città è il libro, «Mail Fiction» (Caprarica di Lecce, 1991) romanzi su cartolina, «Wall Word» (Lecce, 1992) romanzi da muro che attingono alle violazioni concrete di Carlo Belloli ed alle esperienze della comunicazione pubblicitaria, «New Page. Narrativa, Teatro, Poesia, Scavi, in store» (Lecce, 2009) romanzi di cento parole, teatro in cento parole, saggistica e poesia, applicati su crowner, pannelli cartonati, da esporre nelle vetrine dei negozi, in store. Dunque una ricerca dell’origine che entra nei flussi della quotidianità guardando all’Altro, attuando una frattura nel sistema editoriale, guardando ad una rifondazione dell’ anthropos attraverso il linguaggio poetico. La dicotomia congiunzione-mancanza è una delle caratteristiche fondamentali della poetica di Dòdaro.

 

 

 

 

La riduzione del linguaggio ad elementi minimi significanti che appaiono significati all'interno di una contestualizzazione che li restituisce al lettore al di là del loro senso nell'uso quotidiano, ancorandoli ad una comprensione extra-letteraria, ad un linguaggio dei corpi come movimento significante della percezione dell'altro. Il linguaggio è consumato. La radice sonora si schiude a nuova alba lungo l'orizzonte di un percorso in cui il segno è ad un tempo simbolico e pre-simbolico, lucidità e marasma. Lo svalutamento delle relazioni umane si registra nella necessità di una denuncia da percorrere attraverso elementi di un detournament poietico, a partire dalla grammatica letteraria di Dòdaro che vede la parola a stretto contatto, in un continuo scambio, con le evoluzioni dei new-media.

 

 

6.La parola come entità percettiva, la relazione dell’incontro


La parola come entità percettiva attualizzata attraverso il movimento del corpo percipiente e la sua sonorità torna sulla pagina in quanto strumento sonoro. L’incontro Villa-Dòdaro, l’assonanza, la giustapposizione fra la differenza delle posizioni, seppur accostabili, si realizza, dunque, sulle direttrici che vertono da un lato sulla ricerca dell’origine del linguaggio, che appare come momento di sviluppo, dunque in divenire piuttosto che dogma e staticità, e l’esplicazione dell’origine attraverso il movimento sonoro della parola. Se Emilio Villa è teso fra il vuoto di Mallarmé e la sonorità di Nietzsche, Dòdaro si muove sulle coordinate Verlaine-Freud-Lacan. Da un lato le due esperienze coincidono sull’uso smodato della ripetizione che non appare, quest’uso smodato e fondante, figlio della lingua italiana, in cui la ripetizione è soggetta all’arbitrio dell’autore, si lega, invece, allo stabreim dell’antico alto tedesco, dove lo stabreim, appunto la ripetizione, non appare opzionale, ma necessaria, strutturale, spesso articolata nel Langzeile (verso lungo), e “sonorizzata” nella presenza, ancora, necessaria di suoni bassi, squassanti. Altra condizione di raccordo ideologico-letteraria è dunque la presenza costante di questa musicalità arcaica, primordiale, legata a suoni bassi.

 

«Kart                           kars
            ker
crin                  krus
            kres
                        kruk
            Christ              cru
Christ                          cresc
cereast                         cereal
                        cru»[14]

 

 

 

Emilio Villa, attingendo da Nietzsche, s’avvicina a ciò proprio a partire dagli studi del filosofo sull’Origine della tragedia greca, dove appare evidente che questa nasce e si struttura in base al pathos generato dalla musica, una musica dionisiaca più che apollinea, fatta di suoni bassi e squassanti piuttosto che da architetture apollinee della mente. In Dòdaro questa musicalità attinge a Schopenhauer, radice nietzscheana ma anche freudiana, secondo cui la musica appare come quella forma d’arte che «ha un influsso così potente nell’intimo dell’uomo, dove è da lui compresa così pienamente e profondamente, come una lingua assolutamente universale»[15], tanto da porre, nella sua analisi, la musica come rappresentazione del mondo – essa si porrebbe nella stessa condizione in cui si troverebbero le altre arti verso le idee , di quella volontà universale della quale le idee sono l’oggettivazione:

 

«La musica è infatti un’immediata oggettivazione e una riproduzione dell’intera volontà, così come lo è il mondo, anzi come lo sono le idee, il cui fenomeno moltiplicato costituisce il mondo delle singole cose. La musica, dunque, non è affatto come le altre arti, la riproduzione delle idee, bensì la riproduzione della volontà stessa, di cui anche le idee sono oggettivazione. Appunto per questo l’effetto della musica è tanto più potente e penetrante di quello delle altre arti, poiché queste parlano soltanto dell’ombra, quella invece dell’essenza. [...] Nei suoni più bassi dell’armonia, nel basso fondamentale, io riconosco i gradi più bassi dell’oggettivazione della volontà, la natura inorganica, la massa del pianeta. [...] Soltanto la melodia ha, dal principio alla fine, una connessione pregnante e pienamente intenzionale. Essa narra, di conseguenza, la storia della volontà illuminata dalla ragionevolezza»[16].

 

Altro elemento fondamentale che conduce ad un incontro le due proposte sonore è possibile riscontrarlo a partire dal verso dell’Arte poetica di Verlaine in cui il simbolista si erge a plinto della contemporaneità, dalla musica tutte le cose, andando a condensare la sonorità del verso che assume un ruolo privilegiato rispetto alle dinamiche del senso, ed aprendo, anzi, alle sperimentazioni sonore della poesia fonetica di Hugo Ball e del Dadaismo in genere. Una legatura sonora scorre fra le linee di ricerca dei due autori.

 

7. Verso l’origine, il paradigma sonoro


L’elemento sonoro come paradigma attraverso cui esplicare la propria ricerca dell’origine, appare come quell’elemento in cui nella scrittura villiana si situa il luogo di realizzazione poetica della percezione, quel connubio uomo-mondo, un j’y pense istintuale a partire dal quale entrano in contatto l’uomo e il mondo in rapporti di reciprocità ed in cui il pensiero nella sua massima esplicazione, ossia l’originarietà, l’arcaico, il genius ha realizzazione nel movimento autorale-amanuense che è appunto il raccordo con il mondo. In Dòdaro, questa sonorità che appare legata all’intrauterino, al prenatale, e che si ripresenta in anamnesi, in radice, come condizione dell’être-au-monde denota l’immanenza dell’anima ancorandola alla cosa. Dunque l’armonia dei contrari nella mescolanza intrauterina, nella krasis dei complementi appare come immanenza-trascendenza in quanto universalità, ossia istanza individuale e collettiva, in entrambe le proposte poetiche, imbevute di quella sonorità come nucleo o tentativo di accesso all’esperienza primaria.

 

 

 

 



[1] Il poeta futurista, infatti, pubblica nel 1943 le sue “Parole per la guerra” e nel 1944 “Testi-poemi murali”; nel 1945 si laurea a Roma e in quello stesso periodo lo svizzero Gomringer studia nella capitale, il brasiliano Cordeiro, ma anche Emilio Villa, soggiornano a Roma e i due entreranno in contatto fino a quando Emilio Villa non arriverà in Brasile nel 1950, e nel ’51 ci sarà la prima esposizione di Belloli in Brasile, mentre fra il ’52-’53 avverrà la fondazione del Gruppo Noigandres che entrerà in contatto, in quegli stessi anni, con Cordeiro.

[2] Villa E., Attributi dell’arte odierna, Milano, Feltrinelli, 1970, p. 103

[3] Villa E., hisse toi re d’amour da mou rire, Torino, Geiger, 1975

[4] Tagliaferri A., Prolegomeni villiani, in Emilio Villa. La scrittura della Sibilla (a cura di Daniele Poletti), [dia·foria

[5] Villa E., Attributi dell’arte odierna, Milano, Feltrinelli, 1970, pp. 17, 18

[6] Dòdaro F. S., La letterarietà di Luciano Caruso, in «Pòiesis. Ricerca poetica in Italia» (Eugenio Giannì, a cura di), 1986, pp. 259, 261

[7] Dòdaro F. S., nota introduttiva a Coriano E., A tre deserti dall’ombra dell’ultimo sorriso meccanico, Lecce, Conte Editore, 1995, Premio Venezia Poesia 1996

[8] Benveniste, É., Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee. Potere, diritto, religione, Volume II, Torino, Einaudi, 2001, pp. 422, 423

[9] Pianigiani, O., Vocabolario etimologico della lingua italiana, versione web, www.etimo.it

[10] Ivi

[11] Dòdaro, F., S., Link, in «Ghen», giornale modulare a cura del movimento di Arte Genetica, Lecce 1978

[12] Dòdaro F. S., Dichiarazione d’innocenza, in «Locandine Letterarie», n°1 - (a cura di F. S. Dòdaro – Maurizio Nocera), Lecce, Il Raggio Verde, 2005

[13] Dòdaro F. S., Sconcetti di luna, in «Compact Type. Nuova Narrativa», Caprarica di Lecce, Edizioni Pensionante De' Saraceni, 1990

[14] Villa E., Zodiaco, p. 161
Caratterizzato dalla forte presenza di suoni gutturali, richiami alla carne, dunque al desiderio, una spinta sonora desiderante, pulsionale

[15] Schopenhauer, A., Il mondo come volontà e rappresentazione, Roma, Newton & Compton, 2011, p. 284

[16] Ibidem, pp. 286, 287, 288




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