La fantasmagorica e unica scrittura d’arte villiana
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Una breve riflessione sulla solitaria e imprendibile traiettoria del poeta di Affori in veste di ‘critico taumaturgico ed artegonico’. Lui, che pure non si peritava di dire che “i critici sono la merda”, ha pubblicato una quantità di materiali di disamina verbale sulla produzione artistica contemporanea (in “Attributi dell’arte odierna”, Feltrinelli, 1970), che è anche una folgorante opera linguistica aperta, in cui si intrecciano e si rilanciano a vicenda posizione etica e visione estetica.
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di Luca Succhiarelli
Emilio Villa,
oltreché poeta biblista e traduttore, è stato un critico taumaturgico ed artegonico.
Sostenendo ciò si intende qui bonificare e destinare a nuovo uso il
summenzionato sostantivo indicante una precisa categoria umana e conseguente
sua forma mentis, nei confronti della quale la frustata villiana – «i critici sono la merda»[1] – suona
ancora come una sentenza emessa da un fantastico “Comitato di salute
artistica”. Egli ha il tono di voce di un istigatore giustamente intrattabile e
incoercibile, dato che la sua artegonia (l’originare l’arte) anticipa,
sollecita, sostiene, incarna – per definizione – il momento della creazione,
facendosi vita (anche – e soprattutto – altrui). Come lui stesso ricorda: «Non
dire mai “attività critica”. Ma entusiasmo, occhio, poesia»[2]. Non
deve pertanto stupire che la suddetta additata pratica venga vista da Villa
alla stregua di una noiosa, prevedibile, sterile formalità ministeriale e
definita – in altra sede (ovvero nel primo numero di «Appia Antica», del luglio
1959) – «apologetica e denigratoria, filologistica archivistica o storicistica;
sempre sprovveduta, comunque, squallida, impotente, impropria»[3].
Questo individuo incandescente, che ha
saputo far convivere e collaborare le straordinarie competenze linguistiche,
archeologiche, artistiche, poetiche e la sua strana hybris creativa
(intesa e come dismisura e come disobbedienza, ribellione), già negli anni ’30
e ’40 dedica testi a Cagli, Consagra, De Pisis, Lucio Fontana, Manzù, Amerigo
Tot, nonché agli esponenti di “Forma 1”. A siffatta fase unilaterale, quasi
olfattiva, segue un’altra bilaterale che produce risultati ancor più significativi
nel 1950, quando pubblica – in 64 esemplari – E ma dopo (nove
componimenti accompagnati da una litografia di Mirko).
A rappresentare lo spartiacque – per lui come per altri italiani, talvolta
pressoché ventenni o trentenni, che nell’immediato dopoguerra lasciano la
penisola tricolore per raggiungere il Brasile (si pensi ad Adolfo Celi e
Ruggero Jacobbi) – è però il biennio 1951-52, durante il quale Villa non solo
lavora, complice Pietro Maria Bardi, al Museo d’arte di San Paolo, ma collabora
ad «Habitat», fonda la rivista «O Nivel» («Il livello») e intensifica la
confidenza con le opere dei maggiori pittori internazionali.
Con il ritorno in Italia si moltiplicano le
pagine dedicate all’arte. È in prima linea nel difendere Informale ed Astrattismo,
mentre suoi scritti appaiono in svariati periodici (spesso tutt’altro che
regolari): «Arti visive», «Civiltà delle macchine», «Aujourd’hui. Art et
architecture», «Appia Antica». D’ora in avanti la distanza da certa ufficialità
cresce e il rapporto con la creatività degli artisti che frequenta si fa
copulativo. Il primo intervento su Alberto Burri è del 1953. Poco dopo, di
concerto con personalità affini, produce le prime “esoedizioni”: Cinque
invenzioni di Nuvolo e un poema di Emilio Villa (1954); 17 variazioni su
temi proposti per una pura ideologia fonetica (1955-1962), con lo stesso
Burri; Un Eden précox (1957) assieme a Gastone Novelli; 3 ideologie
da piazza del popolo / senza l’imprimatur (1958), nuovamente con Nuvolo. In
questi oggetti fuoriusciti (cioè “usciti da fuori”, non “usciti fuori da”) c’è
piena osmosi tra le parti: le parole si fanno concrete e la materia diventa
verbale; contenuto e forma – etica ed estetica – coincidono e rifuggono la
serialità e la “novità” stantia di tante collane editoriali che propinano
sempre il medesimo libro d’artista (o presunto tale), ma con titolo e autori
differenti.
L’idea di scrittura d’arte villiana (esempi
della quale son più volte stati antologizzati), non lontana dagli auspici di
Oscar Wilde, è già attiva in questi capolavori: si lascia intravedere nel
trasmigrare dell’una (pittura) nell’altra (poesia). Essa, forte di una «spalancata Alleanza»[4] già
solida nei primi anni Cinquanta, si fa sempre più tattile e procede
orizzontalmente rispetto al lavoro dell’artista da cui parte o al quale si
unisce per ripartire, per rilanciarsi e rilanciarlo; non è professorale né
analitica; non cerca di imporre una subordinazione o una gerarchia;
principalmente non vuole ostentare o vendere una chiave di comprensione utile
per diradare la nebbia. Invita semmai a procedere tentoni, a posare davvero il
piede a terra per rendersi conto del passo, a camminare insieme al quadro o
alla scultura, con essi in braccio o sotto la lingua. Si inizia così. Lo stato
d’animo creativo, massimamente quando non è dirottato con una sorta di «trapianto di voce»[5],
diventa un’occasione metacronologica di approfondimento, di penetrazione
verbale, di trasmigrazione e non di trasmutazione (difatti «c’è un nome solo»[6]
ed è il suo). Favete linguis! È un invito alla silenziosità rivolto al
soggetto affinché – lui sì – illuminato si dilegui: quindi Emilio Villa parla
l’opera, ma solo se è quest’ultima a compiere l’atto. Tra gli apoftegmi dei
padri del deserto c’è il seguente: «Raccontavano che il padre Agatone visse tre
anni con un sasso in bocca, finché non riuscì a praticare il silenzio»[7].
Similmente avviene nelle folgorazioni villiane: poche cartelle per volta, nelle
quali le dilatazioni semantiche forzano la morfologia e la parola diviene come
informe ed informata del suo carico sibillino, debordando alla maniera della
sostanza pittorica in certi quadri futuristi, laddove i colori – in crociata –
coinvolgono anche la “non arte” crociana, vale a dire la cornice. È un modo
straordinario, perché mai definitivo, di andarsene. I «Ferdinando Pasini hanno
già cominciato a ronzare intorno alla Villa Veneziani ed è tempo che io mi
ritiri»[8], scrive
Roberto Bazlen riferendosi all’interesse crescente per il “caso Svevo”,
sostenendo in altro luogo che la «grandezza può stare nella rinuncia»[9]. Ecco,
così se ne sono andate, come spinte da una sorta di pudore, molte delle pagine
raccolte negli Attributi dell’arte odierna (pubblicati da Feltrinelli
nel 1970). Partenze, schizzi, fogli sottoposti alle intemperie, consumati –
come ha scritto – «nella tasca di dietro dei calzoni scappando di qua e di là»[10],
filigrane di una «pagina annientata»[11] della
storia letteraria e artistica italiana, momenti poetici dedicati ai maggiori
artisti nazionali e non, ma senza «scelte di valore (in nessuno dei sensi
possibili)»[12],
ragion per cui troviamo – tra Duchamp, Rothko, De Kooning ed altri – anche la
«dolce ombra»[13]
di Gabriella Layatico, «figlia di una solitudine accanita»[14]. Sono
sassi – con su scritte poesie – gettati nel Tevere: non «l’esibizione
noiosamente didattica di un artista concettuale», scrive Nanni Cagnone, ma «un
rito, l’opera scarna e non veduta di un credente, di un intrepido amico del
chaos»[15].
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Emilio Villa, Klein Identitat
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L’incontro con un simile nabis non è
prevedibile. Non lo è stato Villa vivente o nei dieci anni successivi alla sua
morte, tanto meno lo sarà in futuro. Come afferma Primo Conti ricordando quel
Dino Campana autore dei Canti Orfici stampati nell’anno di nascita di
Villadrome, la possibilità di frequentarlo è «affidata al vento, proprio come
il profumo dei fiori che a un certo momento lo senti e poi non c’è più», è «un
dono»[16]
inaspettato. Può accadere, ad esempio, leggendo la seconda autobiografia di un
altro grande rimosso, ovverosia quel Carmelo Bene – dedicatario di una letania
villiana data alle stampe da Scheiwiller nel 1996 – che definì Villa
probabilmente «il più grande genio»[17] da lui
conosciuto, certamente il «più affilato critico d’arte del Novecento»[18]. Il
poeta di Affori – questa volta prendo in prestito le parole pronunciate da Italo
Tavolato per Weininger – resterà – c’è da augurarselo, visto l’uso che si fa di
tanta cultura – «dei pochi, dei solitari»[19].
[1] Cfr. Aldo Tagliaferri, Il
clandestino. Vita e opere di Emilio Villa, Roma, DeriveApprodi, 2004, p.
106.
[3] Cfr. Emilio Villa, Critica
d'arte 1946-1984, a cura di Aniello De Luca con uno scritto di Angelo
Trimarco, Napoli, Edizioni «La
Città del Sole», 2000, p. 87.
[4] E. Villa, Didascalia, in Attributi
dell'arte odierna. 1947/1967, Milano, Feltrinelli, 1970, p. 173.
[6] Cfr. Aldo Tagliaferri, Il
clandestino. Vita e opere di Emilio Villa, ed. cit., p. 137. Così Villa in
una lettera a Tagliaferri del giugno 1970: «I nomi che ci sono non sono scelte di valore (in nessuno dei
sensi possibili) ma solo cadute, casualità, irritazioni, impennate, scatti,
spari. Non c'entra la “storia dell'arte contemporanea”, e tanto meno la
critica. E non è “saggistica”. In questo magma c'è un nome solo, ed è il mio».
[7] Cfr. Vita e detti dei padri del
deserto, a cura di Luciana Mortari, Roma, Città Nuova Editrice, 2005, p.
115.
[8] Cfr. Manuela La Ferla, Diritto
al silenzio. Vita e scritti di Roberto Bazlen, Palermo, Sellerio, 1994, p.
33.
[9] Roberto Bazlen, Scritti,
Milano, Adelphi, 1984, p. 263.
[10] Cfr. Aldo Tagliaferri, Il
clandestino. Vita e opere di Emilio Villa, ed. cit., p. 183.
[13] E. Villa, Didascalia, in Attributi
dell'arte odierna. 1947/1967, ed. cit., p. 172.
[15] Nanni Cagnone, Cognizione di
Emilio Villa, in Emilio Villa poeta e scrittore, Milano, Mazzotta,
2008, p. 336.
[16] Cfr. Gabriel Cacho Millet, Dino
Campana fuorilegge, Palermo, Novecento, 1985, p. 163.
[17] Cfr. Carmelo Bene-Giancarlo Dotto, Vita
di Carmelo Bene, Milano, Bompiani, 1998, p. 301.
[19]
Italo Tavolato, L’anima di
Weininger, in «Lacerba», Anno I, n. 1, Firenze, 1 gennaio
1913, p. 5.
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