PRIMO PIANO
EMILIO VILLA – 2
‘Piazza Farnese e dintorni’


      
Pubblichiamo il primo capitolo di “Mosaico villiano”, il memoir pubblicato nel 2012 presso Fermenti dal 78enne pittore romano, che rievoca i vari passaggi della sua conoscenza ed amicizia col grande poeta e critico. Qui in particolare richiama una serata capitolina trascorsa in una trattoria al centro storico, in cui emerge l’irresistibile passione e competenza di Villa per il cibo e per il vino. Come se il pantagruelico mangiare fosse propedeutico ‘per affrontare il viaggio della conoscenza… per propiziarsi l’avventura del pensiero’.
      



      

 

 

di Renato Fascetti

 

 

Nel territorio che comprende all’incirca piazza Navona, il Pantheon, LargoArgentina , via Giulia e Campo de’ Fiori, i miei itinerari sia in bici che a piedi, a volte incrociavano quelli di Emilio, abitando lui in via Monterone, una traversa di Corso Vittorio, ed io in piazza San Salvatore in Campo di fianco al monte di Pietà.

Percorrevo quei luoghi nella piacevole atmosfera dell’ambiente vivace e spontaneo, “ruspante”, allora ancora

popolare con le botteghe degli artigiani, i bar, i vinai, le osterie, lo studio di Schifano al Vicolo delle Grotte, il vulcanico mercato di Campo de’ Fiori, il “pidocchietto” cinema Farnese, il repertorio da casellario giudiziario che ronzava intorno a piazza del Monte ed i turisti galvanizzati e piacevolmente rapiti da quell’aria di paese nobile e plebeo nel medesimo tempo. A volte si alzava un grido strozzato, un urlo: il solito scippo rudimentale fatto a piedi da un drogato in crisi di astinenza. A volte Emilio scompariva per qualche giorno ed al prossimo incontro accennava ad un viaggio a Milano, Parigi o in Germania dove, per rifornire la scarsella, aveva cercato di trattare, a volte con successo, la vendita di un quadro o altro materiale di sua competenza. Avevo per Emilio l’ammirazione e la soggezione per chi ti fa varcare la soglia più immediata della realtà e con osservazioni e commenti esuberanti ma concreti, ironici e dissacranti, apre ad ottiche inattese e sorprendenti, senza mai apparire come un intellettuale o un professore in cattedra.

Vedendolo da lontano provavo una certa qual titubanza se affibbiargli o meno la mia presenza, frenato dal dubbio di potergli arrecare noia o disturbo, consapevole delle mie limitate esperienze culturali e di vita vissuta. Devo riconoscere che le mie perplessità erano soltanto frutto delle mie ubbie e della mia timidezza.

Malgrado la differenza di età ed il diverso spessore di esperienze che ci distingueva, Emilio ebbe sempre nei miei confronti un rapporto affettuoso, cordiale, amichevole e vorrei aggiungere familiare. Penso che lo incuriosisse il fatto di non avergli mai parlato del mio lavoro di pittore, fino al giorno in cui fu lui stesso a chiedermi cosa diavolo combinassi a studio. Ma questa è un’altra pagina della nostra conoscenza.

Un giorno mi lasciai andare dicendo che avevo l’impressione di vivere una certa qual contraddizione rispetto all’idea dell’artista così come me l’ero sempre prefigurato.

Lavoravo allora per garantirmi un’autonomia economica e questa scelta mi rodeva internamente come se soffrissi di un vago senso di colpa nei confronti del duro e puro che rischia e si sacrifica solo per l’arte. Mentre accennavo ai miei dubbi ed al senso di inadeguatezza che mi creavano, Emilio mi osservava scuotendo penosamente il capo mentre una mezza smorfia si delineava sulle sue labbra come per dire “Ma senti un po’ quest’imbranato” (per non dire fesso, potrei aggiungere). Guardandomi cominciò:

“Ho l’impressione, caro mio, che sei fuori strada. Se pensi che vivere in una soffitta al freddo ed alla fame sia il

viatico per ricevere il marchio D.O.C. d’artista, allora stai pur certo che quei tempi, se mai ce ne furono, sono oramai tramontati. Il repertorio di sublimazioni, di tormenti esistenziali lasciali ai romanzi d’appendice, agli sceneggiati televisivi, ai polpettoni del cinema che sanno sfruttare abilmente e cinicamente l’inerzia e le frustrazioni della brava e buona borghesia velleitaria, che preferisce vivere il rischio ed il brivido per interposta persona, sgranocchiando pop corn davanti allo schermo. Chi vive oggi nel mondo dell’arte o pseudoarte ha di che proteggersi dal freddo e dalla fame, per tagliar corto. Bene o male, ognuno ha la sua piccola o grande rendita o un’attività che tiene gelosamente nascosta. La maggior parte insegna e solo una persona con disturbi

mentali insegue disperatamente un suo ideale, ma qui si entra nel campo della patologia. Ognuno ha il suo lavoro al nero”. Sentenziò e aggiunse poi:

“Quante cose ho scritto firmandole con uno pseudonimo! Quella serie di mostre sulla cultura e la religione degli antichi popoli del medio oriente chi credi le abbia scritte?

In questa società dove esiste soltanto la regola del profitto dobbiamo sopravvivere con ogni mezzo se non vogliamo essere schiacciati e sepolti dalla micidiale macchina consumistica. Ti costringono ad agire come dei cospiratori o guastatori se vogliamo salvaguardare le nostre scelte, difendere la nostra idea di cultura. Ogni mezzo è lecito, salvo la violenza”.

Sentivo in Emilio la persona che pur assumendosi tutta la responsabilità dei vizi e delle virtù della natura umana, non fletteva tuttavia nel ricercare i significati e le radici più profonde dell’avventura dell’umanità e quel giorno le sue parole furono il miglior tranquillante per le mie contorsioni mentali.

All’inizio della nostra conoscenza mi nasceva spontanea quella che consideravo una contraddizione tra la sua immagine di eccezionale poeta e critico e l’irresistibile magnetismo che il cibo rappresentava per lui. Mi riusciva ostico il suo trattare lo scibile alimentare alla stregua delle appassionate e lucide evocazioni dei suoi testi. Poi credetti di comprendere che il tutto doveva essere legato alle crudeli privazioni che la guerra aveva causato, alla fame ed alla povertà che aveva incontrato allontanandosi dal rassicurante ambiente del seminario: Il cibo divenne una linfa vitale, la sferzata edonistica e passionale che dava energia per una missione più profonda ed esaltante, come un carburante più ricco e propedeutico per affrontare il viaggio della conoscenza, Non riesco ad immaginare null’altro se non che il cibo rappresentasse un gradevole e gustoso sacrificio per propiziarsi l’avventura del pensiero.





Renato Fascetti, Ritratto di Emilio Villa, 1990, cm 61,5x61,5, tecnica mista


In quell’inizio serata percorrevo in bici via dei Giubbonari e svoltando per piazza Farnese mi sentii chiamare. Era Emilio, seduto con un’altra persona al tavolino del bar d’angolo sulla piazza. Assicurai la mia quarta bici alla ringhiera della fontana (le altre tre si erano sacrificate per rispetto delle abitudini locali) e mi avvicinai. Fece segno di accomodarmi. “è ora che ti riposi un po’” disse celiando. Mi presentò l’ospite che gli sedeva accanto e rimasi sorpreso nell’udire il nome di Leoncillo che non avevo mai conosciuto di persona.  La mia presenza interruppe la loro conversazione che riprese dopo qualche battuta iniziale. La voce dello scultore aveva un tono animoso, aspro: si lamentava di un giovane pittore italiano salito in pochissimo tempo ad una indiscussa notorietà. “Ti puoi sentire chissà chi” stava dicendo, “Ma non te ne puoi andare da New York senza pagare il conto dell’albergo, è una pessima figura; gli americani sono dei feroci puritani che non perdonano certi gesti che poi vanno a ricadere negativamente sugli altri italiani”. Emilio ascoltava assorto ed io immaginavo che, avendo della società americana una considerazione piuttosto elastica e diffidente, poteva vedere nel gesto, pur nella sua esecrabilità etica, un tiro birbone giocato allo sfrenato capitalismo statunitense. Insomma non lo sentivo così inviperito come Leoncillo che, in fondo, doveva provare per il giovane artista rampante una buona dose d’invidia. “Sì certo, non è molto corretto...” lasciò cadere Emilio, mentre volgeva lo sguardo all’angolo di destra di palazzo Famese che una enorme luna nascente aveva argentato nel cielo di un blu intenso. Una parte del fregio di Michelangelo si stagliava come una corona intarsiata e mentre Emilio cercava di deviare l’argomento su quella magica apparizione metafisica, Leoncillo continuava a borbottare le sue rampogne. Poi si alzò poco tranquillo, aveva un appuntamento per la serata e si allontanò verso Campo de’ Fiori. Emilio storse le labbra con una mezza smorfia di insoddisfazione. “Se la prende troppo per essere Leoncillo” mormorò, “Ma che cavolo gli frega se quello ha o non ha pagato il conto? vedi come certe insoddisfazioni nell’ombra tornano a mordere quando sono stuzzicate. Ma, a proposito, che devi fare stasera?” mi chiese. “ Niente di speciale” risposi.

Mi propose allora di farmi conoscere una trattoria quasi all’inizio di via Monserrato che portava lo stesso mio nome: “Da Renato”. “Ti faccio assaggiare una pasta al pomodoro crudo e basilico” mi disse con aria da cospiratore. “Pomodori veri eh! mica quelli tirati su ad acqua”. Accettai senza indugio dal momento che con Emilio eri sicuro di scovare sempre piatti semplici e genuini come le costatine al farro che mi fece gustare in una piccola trattoria in piazza Cardinal Merry Del Val a Trastevere.

“Vedi” mi diceva Emilio in quell’occasione, “Con un sacchetto di farro e la daga i romani sono arrivati fino in

Scozia”. Non so dove volesse arrivare Emilio con il suo farro ma certamente se, oltre al farro, i romani avessero avuto un po’ di costatine, sarebbero potuti arrivare fino all’Artico. Mangiare un piatto con Emilio è solo un eufemismo, ci si siede e si perde la nozione del tempo. Come al solito fu accolto da un abbraccio dell’oste e ci accomodammo ad uno degli ultimi tavoli rimasti liberi.

Gli spaghetti erano veramente speciali: cotti a puntino, il pomodoro rosso e verde tagliuzzato a piccoli spicchi aveva l’antico autentico sapore leggermente pungente che mescolato ad una generosa manciata di basilico, ad una punta di peperoncino e ad una benedizione finale di extravergine di antico frantoio, suscitava ondate di intensa commozione gastrica. Ero preoccupato per l’incolumità del traffico che si svolgeva tra la vecchia ghiacciaia, ancora di legno, e la cucina che l’occhio di Emilio seguiva con evidente disegno strategico. Braciole, bistecche, salsicce, coratelle, fegatini et similia erano controllati acutamente dall’occhio ghepardesco

di Emilio pronto a spiccare il balzo sul branco in movimento. Il primo mezzo litro di bianco di Colonna evaporò senza che ce ne fossimo accorti mentre Emilio con tono ipocritamente indifferente chiedeva a Renato cosa ci fosse di buono. “Quello che vede, professore, ma qui fra poco finisce tutto perché stasera abbiamo fatto il pieno”.

La notizia dovette preoccupare alquanto Emilio e mi sembra superfluo fare l’elenco completo di ciò che si alternò sul nostro tavolino di marmo. Un fegatino tanto per stuzzicare i succhi gastrici, un filetto, cicoria di campo ripassata, un assaggio di borlotti con cotica, carciofini sott’olio della rinomata ditta “Da Renato”, insalatina mista scrocchierella e poi l’elenco svanisce dietro il doveroso riserbo ed una morbida cortina di rilassatezza alcolica. Erano già trascorse un paio d’ore, ogni tanto 1’oste si avvicinava per assicurarsi che tutto filasse bene ed Emilio gli chiedeva informazioni alimentari come se si trattasse di valutare l’acquisto di azioni di borsa, con un tono di voce di assoluta competenza professionale.

In quel contesto pantagruelico si aprivano parentesi di vivacità culturale e nascevano racconti e considerazioni.

“Ti ho mai raccontato dei cannoni di Pascali?” mi chiese Emilio; e ad un mio cenno negativo riprese: “Allora Pascali mi dice che stava facendo una serie di lavori che, usando materiali diversi, nulla avevano a che fare con le armi, imitava cannoni, mortai, mitragliatrici ed altri strumenti di distruzione. Mi sembrò subito una scelta geniale!”. E qui devo assolutamente aprire una parentesi per mostrare un lato di Emilio ferocemente avverso ad ogni tipo di guerra. Mi trovavo una sera nella sua ultima dimora in via Manfredi, dove viveva con la sua compagna Nelda. Era venuto a fargli visita un amico, appena rientrato come inviato della R.A.I. dal Libano, dopo lo sconvolgente servizio di guerra. Era un ometto assolutamente anonimo, prossimo ad andare in pensione, che non avresti mai immaginato, vestito in tuta mimetica da parà e di vari ammennicoli tecnici pendenti dalla cintura, trasmettere da Beirut, con voce rotta dalla tensione emotiva, lo scenario di case sventrate, di rottami di auto fatte esplodere, di corpi carbonizzati e dilaniati. Raccontava ora del mattatoio di Beirut in modo quasi impersonale, imparziale, diciamo “politically correct”. Ebbe la sventura di esprimersi sulla guerra come di una fatalità, alla quale non era possibile porre rimedio, quasi una necessità.

Emilio si irrigidì, vidi che le vene del collo si facevano più marcate ed un rossore stava imporporando i lineamenti. Ero preoccupato, sbigottito dallo scatto rabbioso che seguì a questa trasformazione.

“Ma che stai dicendo?” ruggì. “Hai visto con i tuoi occhi cos’è la guerra; ma non ti rendi conto che se si pensa in questo modo non ci sarà mai fine alle stragi, alle violenze, alle atrocità ? Si legittima ogni tipo di sterminio, si autorizzano i genocidi. Non esiste una guerra purificatrice, essa è la dannata invenzione di menti folli, accecate da un macabro egoismo e da una demenzialità omicida frutto soltanto di schifosi interessi”. E via di questo passo mentre mi sembrava di vedere Emilio lottare disperatamente contro i quattro cavalieri dell’Apocalisse.

Sotto questa pioggia di improperi incontrollati il povero amico giornalista cercava di rimediare con parole balbettanti come: “Ma non volevo dire questo... forse non mi sono spiegato bene...”. Si fece un silenzio tombale mentre l’aria vibrava ancora della tensione de1 momento. Poi le acque si calmarono quando la tempesta emotiva cessò.

Quando Emilio mi parlò di Pascali posso immaginare la sua curiosità per l’irridere grottesco e dissacratorio degli strumenti di guerra dell’artista.





Pino Pascali, Natura morta (cannone semovente), 1965


Continuo così il racconto della visita allo studio. Emilio si divertì moltissimo di fronte a quell’arsenale burlesco e minaccioso al tempo stesso. “Bene, benissimo!” si complimentò. “Poi però devi fare una cosa”. “Che cosa?” chiese incuriosito Pascali. “Alla fine della mostra devi fare in modo che essa si disintegri, si autodistrugga, e che, anche se divertente, scompaia persino l’ombra della parodia della tragedia e la suggestione della violenza”. Pascali si guardò bene dal compiere questo sacrificio assolutorio ed Emilio confessò di aver perso molta della stima che aveva provato per l’artista. La serata proseguiva fra intingoli vari, fojette di bianco di Colonna ed il brusio delle conversazioni degli avventori. Data l’ora inoltrata alcuni commensali cominciarono a lasciare il locale facendo posto a una nuova comitiva in giacca e cravatta, che piuttosto elegante per il tipo di locale, si distingueva dagli altri avventori e che occupò tre tavolini di fianco all’entrata. Dalle loro conversazioni si capiva che non erano romani ma settentrionali. Emilio, defilato, ascoltava e osservava la scena con curioso interesse.

Per i nuovi avventori il resto di ciò che si trovava nella ghiacciaia di legno fu raso al suolo in un ultimo tripudio

di code alla vaccinara, trippe alla romana e altri generi di conforto esclusivamente capitolini. Uno del gruppo chiese all’oste Renato di portare del lambrusco. A quel punto Emilio ruppe gli indugi ed avvicinandosi al tavolo dei nuovi arrivati esclamò con voce sonora: “Se volete il miglior lambrusco allora dovete chiederlo a me!”. Le teste si girarono mentre l’oste rimaneva con il braccio proteso verso la mensola dei vini. Qualcuno osservava Emilio cercando di mettere a fuoco il personaggio che si era così generosamente offerto, e finalmente si udì un’esclamazione seguita da altre. “Professor Villa!”, “Emilio!”, “Ma che sorpresa!”.

Per farla breve, si trattava di conoscenti milanesi (fra i quali mi sembrò di udire anche un cognome di rango), che avevano deciso di trascorrere quell’ultima nottata in un locale popolare del quartiere prima del ritorno a Milano. Ci furono grandi saluti, sorrisi, scambi di affettuose battute. Emilio chiese loro di attendere dieci minuti perché avrebbe fatto bere loro il miglior lambrusco della terra. Si doveva però andarlo a prendere a casa sua, a via Monterone distante solo poco piu di cento metri da piazza Farnese. Mi propose arditamente di usare la bici, ma anche se mi sentivo onorato di portarlo sulla canna avevo dei seri dubbi sulla funzionalità e la sicurezza di questo nuovo tipo di risciò. Alla fine optammo ragionevolmente per un rapido spostamento a piedi che tanto veloce non fu data la precaria tenuta delle gambe illanguidite dal bianco di Colonna. Ad ogni modo ebbe esito positivo, tempi ragionevoli e potei partecipare come mascotte del gruppo ad una girandola di rimembranze che andavano dalla liberazione di Milano, dalle storie di via Brera, dalla cicatrice di Emilio frutto di una scaramuccia con repubblichini e tedeschi ed altri interessanti episodi, fra scoppi di risa e battute, il tutto allietato e benedetto dalle tre bottiglie di Lambrusco.

Avevamo fatto le ore piccole quando la comitiva prese la strada del ritorno in albergo promettendo di rivedersi presto al nord.

Il locale rimase vuoto mentre Emilio, le braccia allungate sul tavolo, guardava davanti a sé con i pensieri rivolti forse al lontano passato. Poi si scosse e, volgendo lentamente la testa come la luce di un faro, osservò la stanza ormai nuda con l’oste Renato che, mezzo addormentato, stava lentamente scivolando dalla sedia.

“Renato!” farfugliò Emilio, “Cos’altro c’è rimasto?”.  L’oste si tirò su pian pianino con il volto rassegnato ai modi del professore. Quella sera sembrava che un’invasione di cavallette avesse ripulito il locale. Avvicinandosi alla ghiacciaia con un passo da condannato a morte aprì tutti gli sportelli.

“Guardi pure professò, stasera se so magnato tutto, puro er cibborio”. La ghiacciaia era infatti linda e pulita come per una pulizia pasquale. Emilio roteò il suo fascio ottico da muro a muro.

Di fronte, sulla bianca parete di fondo, su una lunga mensola di marmo candido, faceva spicco poggiata su un

niveo piatto verginale, una forma sferica, tondeggiante, dall’acceso color rosso rubino. Nel candore della scena

sembrava l’apparizione di un favoloso gioiello da rajà. “E quello che cos’è?” domandò Emilio indicando sospettosamente il pesante rubino lontano. “A professò, è un pommidoro”.  Scampato al pogrom sembrava che il frutto invece di passare inosservato, volesse fieramente sfidare il fatale, crudele destino dei suoi compagni.

“Un pomodoro?” esclamò rapito Emilio: e nell’aria si sciolse un’ode pindarica sulle virtù del frutto che aveva

varcato l’oceano per allietare con i suoi sapori, i suoi colori, i suoi aromi, i sensi di noi occidentali.

L’oste si alzò oramai annichilito, condusse il piatto davanti ad Emilio che brandendo un coltello, a mo’ di sacerdote azteco, compì l’ultimo sacrificio al sugo della nottata.

Uscendo dal locale, dopo qualche metro, udimmo lo schianto infernale e liberatorio della saracinesca rabbiosamente abbassata. Muovendoci con cautela accompagnai Emilio che, canticchiando a bassa voce versi saffici intercalati a qualche parola di una scurrile ballata meneghina, sorprendentemente ebbe soltanto una sbandata nello scendere dal marciapiede di Corso Vittorio per attraversarlo. Era ancora incredibilmente in forma e vitale dopo quella massacrante corvée e ci salutammo caldamente affidando al destino la prossima occasione di incontro.

Tornai in piazza Farnese; fortunatamente la mia quarta bicicletta era ancora salva, ancorata alla ringhiera della fontana. Mi accomodai sul sellino e in un silenzio irreale rotto solo dallo sgocciolio argentino delle due fontane, mentre, come dice il poeta “le stelle cominciavano ad impallidire”, pedalando con leziose evoluzioni fra le quinte immobili del quartiere, mi diressi verso lo studio.

 

 

 

 




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