di Renato
Fascetti
Nel territorio che comprende all’incirca
piazza Navona, il Pantheon, LargoArgentina , via Giulia e Campo de’ Fiori, i miei itinerari sia in
bici che a piedi, a volte incrociavano quelli di Emilio, abitando lui in via
Monterone, una traversa di Corso Vittorio, ed io in piazza San Salvatore in
Campo di fianco al monte di Pietà.
Percorrevo quei luoghi nella
piacevole atmosfera dell’ambiente vivace e spontaneo, “ruspante”, allora ancora
popolare con le
botteghe degli artigiani, i bar, i vinai, le osterie, lo studio di Schifano al
Vicolo delle Grotte, il vulcanico mercato di Campo de’ Fiori, il “pidocchietto”
cinema Farnese, il repertorio da casellario giudiziario che ronzava intorno a piazza
del Monte ed i turisti galvanizzati e piacevolmente rapiti da quell’aria di
paese nobile e plebeo nel medesimo tempo. A volte si alzava un grido strozzato,
un urlo: il solito scippo rudimentale fatto a piedi da un drogato in crisi di
astinenza. A volte Emilio scompariva per qualche giorno ed al prossimo incontro
accennava ad un viaggio a Milano, Parigi o in Germania dove, per rifornire la
scarsella, aveva cercato di trattare, a volte con successo, la vendita di un
quadro o altro materiale di sua competenza. Avevo per Emilio l’ammirazione e la
soggezione per chi ti fa varcare la soglia più immediata della realtà e con
osservazioni e commenti esuberanti ma concreti, ironici e dissacranti, apre ad
ottiche inattese e sorprendenti, senza mai apparire come un intellettuale o un
professore in cattedra.
Vedendolo da lontano provavo una
certa qual titubanza se affibbiargli o meno la mia presenza, frenato dal dubbio
di potergli arrecare noia o disturbo, consapevole delle mie limitate esperienze
culturali e di vita vissuta. Devo riconoscere che le
mie perplessità erano soltanto frutto delle mie ubbie e della mia timidezza.
Malgrado la differenza di età ed il
diverso spessore di esperienze che ci distingueva, Emilio ebbe sempre nei miei confronti
un rapporto affettuoso, cordiale, amichevole e vorrei aggiungere familiare.
Penso che lo incuriosisse il fatto di non avergli mai parlato del mio lavoro di
pittore, fino al giorno in cui fu lui stesso a chiedermi cosa diavolo combinassi
a studio. Ma questa è un’altra pagina della nostra conoscenza.
Un giorno mi lasciai andare dicendo
che avevo l’impressione di vivere una certa qual contraddizione rispetto all’idea
dell’artista così come me l’ero sempre prefigurato.
Lavoravo allora per garantirmi un’autonomia
economica e questa scelta mi rodeva internamente come se soffrissi di un vago
senso di colpa nei confronti del duro e puro che rischia e si sacrifica solo
per l’arte. Mentre accennavo ai miei dubbi ed al senso di inadeguatezza che mi
creavano, Emilio mi osservava scuotendo penosamente il capo mentre una mezza
smorfia si delineava sulle sue labbra come per dire “Ma senti un po’ quest’imbranato”
(per non dire fesso, potrei aggiungere). Guardandomi cominciò:
“Ho l’impressione, caro mio, che
sei fuori strada. Se pensi che vivere in una soffitta al freddo ed alla fame
sia il
viatico per
ricevere il marchio D.O.C. d’artista, allora stai pur certo che quei tempi, se
mai ce ne furono, sono oramai tramontati. Il repertorio di sublimazioni, di
tormenti esistenziali lasciali ai romanzi d’appendice, agli sceneggiati televisivi,
ai polpettoni del cinema che sanno sfruttare abilmente e cinicamente l’inerzia
e le frustrazioni della brava e buona borghesia velleitaria, che preferisce
vivere il rischio ed il brivido per interposta persona, sgranocchiando pop corn davanti allo schermo. Chi vive oggi nel mondo dell’arte
o pseudoarte ha di che proteggersi dal freddo e dalla
fame, per tagliar corto. Bene o male, ognuno ha la sua piccola o grande rendita
o un’attività che tiene gelosamente nascosta. La maggior parte insegna e solo
una persona con disturbi
mentali insegue
disperatamente un suo ideale, ma qui si entra nel campo della patologia. Ognuno
ha il suo lavoro al nero”. Sentenziò e aggiunse poi:
“Quante cose ho scritto firmandole
con uno pseudonimo! Quella serie di mostre sulla cultura e la religione degli
antichi popoli del medio oriente chi credi le abbia scritte?
In questa società dove esiste soltanto
la regola del profitto dobbiamo sopravvivere con ogni mezzo se non vogliamo essere
schiacciati e sepolti dalla micidiale macchina consumistica. Ti costringono ad
agire come dei cospiratori o guastatori se vogliamo salvaguardare le nostre scelte,
difendere la nostra idea di cultura. Ogni mezzo è lecito, salvo la violenza”.
Sentivo in Emilio la persona che
pur assumendosi tutta la responsabilità dei vizi e delle virtù della natura umana,
non fletteva tuttavia nel ricercare i significati e le radici più profonde
dell’avventura dell’umanità e quel giorno le sue parole furono il miglior
tranquillante per le mie contorsioni mentali.
All’inizio della nostra conoscenza
mi nasceva spontanea quella che consideravo una contraddizione tra la sua immagine
di eccezionale poeta e critico e l’irresistibile magnetismo che il cibo
rappresentava per lui. Mi riusciva ostico il suo trattare lo scibile alimentare
alla stregua delle appassionate e lucide evocazioni dei suoi testi. Poi
credetti di comprendere che il tutto doveva essere legato alle crudeli
privazioni che la guerra aveva causato, alla fame ed alla povertà che aveva
incontrato allontanandosi dal rassicurante ambiente del seminario: Il cibo
divenne una linfa vitale, la sferzata edonistica e passionale che dava energia
per una missione più profonda ed esaltante, come un carburante più ricco e propedeutico
per affrontare il viaggio della conoscenza, Non riesco ad immaginare null’altro
se non che il cibo rappresentasse un gradevole e gustoso sacrificio per
propiziarsi l’avventura del pensiero.
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Renato Fascetti, Ritratto di Emilio Villa, 1990, cm 61,5x61,5, tecnica mista
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In quell’inizio serata percorrevo in
bici via dei Giubbonari e svoltando per piazza Farnese
mi sentii chiamare. Era Emilio, seduto con un’altra persona al tavolino del bar
d’angolo sulla piazza. Assicurai la mia quarta bici alla ringhiera della fontana
(le altre tre si erano sacrificate per rispetto delle abitudini locali) e mi
avvicinai. Fece segno di accomodarmi. “è
ora che ti riposi un po’” disse celiando. Mi presentò l’ospite che gli
sedeva accanto e rimasi sorpreso nell’udire il nome di Leoncillo che non avevo
mai conosciuto di persona. La mia presenza
interruppe la loro conversazione che riprese dopo qualche battuta iniziale. La
voce dello scultore aveva un tono animoso, aspro: si lamentava di un giovane pittore
italiano salito in pochissimo tempo ad una indiscussa notorietà. “Ti puoi
sentire chissà chi” stava dicendo, “Ma non te ne puoi andare da New York senza
pagare il conto dell’albergo, è una pessima figura; gli americani sono dei feroci
puritani che non perdonano certi gesti che poi vanno a ricadere negativamente
sugli altri italiani”. Emilio ascoltava assorto ed io immaginavo che, avendo
della società americana una considerazione piuttosto elastica e diffidente, poteva
vedere nel gesto, pur nella sua esecrabilità etica, un tiro birbone giocato
allo sfrenato capitalismo statunitense. Insomma non lo sentivo così inviperito
come Leoncillo che, in fondo, doveva provare per il giovane artista rampante una
buona dose d’invidia. “Sì certo, non è molto corretto...” lasciò cadere Emilio,
mentre volgeva lo sguardo all’angolo di destra di palazzo Famese
che una enorme luna nascente aveva argentato nel cielo di un blu intenso. Una
parte del fregio di Michelangelo si stagliava come una corona intarsiata e mentre
Emilio cercava di deviare l’argomento su quella magica apparizione metafisica, Leoncillo
continuava a borbottare le sue rampogne. Poi si alzò poco tranquillo, aveva un
appuntamento per la serata e si allontanò verso Campo de’ Fiori. Emilio storse
le labbra con una mezza smorfia di insoddisfazione. “Se la prende troppo per
essere Leoncillo” mormorò, “Ma che cavolo gli frega se quello ha o non ha
pagato il conto? vedi come certe insoddisfazioni nell’ombra tornano a mordere quando
sono stuzzicate. Ma, a proposito, che devi fare stasera?” mi chiese. “ Niente di speciale” risposi.
Mi propose allora di farmi
conoscere una trattoria quasi all’inizio di via Monserrato che portava lo
stesso mio nome: “Da Renato”. “Ti faccio assaggiare una pasta al pomodoro crudo
e basilico” mi disse con aria da cospiratore. “Pomodori veri eh! mica quelli
tirati su ad acqua”. Accettai senza indugio dal momento che con Emilio eri
sicuro di scovare sempre piatti semplici e genuini come le costatine al farro che
mi fece gustare in una piccola trattoria in piazza Cardinal Merry
Del Val a Trastevere.
“Vedi” mi diceva Emilio in
quell’occasione, “Con un sacchetto di farro e la daga i romani sono arrivati
fino in
Scozia”. Non so dove volesse arrivare
Emilio con il suo farro ma certamente se, oltre al farro, i romani avessero avuto
un po’ di costatine, sarebbero potuti arrivare fino all’Artico. Mangiare un
piatto con Emilio è solo un eufemismo, ci si siede e si perde la nozione del
tempo. Come al solito fu accolto da un abbraccio dell’oste e ci accomodammo ad
uno degli ultimi tavoli rimasti liberi.
Gli spaghetti erano veramente
speciali: cotti a puntino, il pomodoro rosso e verde tagliuzzato a piccoli
spicchi aveva l’antico autentico sapore leggermente pungente che mescolato ad
una generosa manciata di basilico, ad una punta di peperoncino e ad una benedizione
finale di extravergine di antico frantoio, suscitava ondate di intensa
commozione gastrica. Ero preoccupato per l’incolumità del traffico che si
svolgeva tra la vecchia ghiacciaia, ancora di legno, e la cucina che l’occhio
di Emilio seguiva con evidente disegno strategico. Braciole, bistecche, salsicce,
coratelle, fegatini et similia erano controllati acutamente
dall’occhio ghepardesco
di Emilio
pronto a spiccare il balzo sul branco in movimento. Il primo mezzo litro di
bianco di Colonna evaporò senza che ce ne fossimo accorti mentre Emilio con
tono ipocritamente indifferente chiedeva a Renato cosa ci fosse di buono. “Quello
che vede, professore, ma qui fra poco finisce tutto perché stasera abbiamo
fatto il pieno”.
La notizia dovette preoccupare
alquanto Emilio e mi sembra superfluo fare l’elenco completo di ciò che si
alternò sul nostro tavolino di marmo. Un fegatino tanto per stuzzicare i succhi
gastrici, un filetto, cicoria di campo ripassata, un assaggio
di borlotti con cotica, carciofini sott’olio della rinomata ditta “Da Renato”, insalatina
mista scrocchierella e poi l’elenco svanisce dietro
il doveroso riserbo ed una morbida cortina di rilassatezza alcolica. Erano già
trascorse un paio d’ore, ogni tanto 1’oste si avvicinava per assicurarsi che tutto
filasse bene ed Emilio gli chiedeva informazioni alimentari come se si
trattasse di valutare l’acquisto di azioni di borsa, con un tono di voce di
assoluta competenza professionale.
In quel contesto pantagruelico si
aprivano parentesi di vivacità culturale e nascevano racconti e considerazioni.
“Ti ho mai raccontato dei cannoni di
Pascali?” mi chiese Emilio; e ad un mio cenno negativo
riprese: “Allora Pascali mi dice che stava facendo
una serie di lavori che, usando materiali diversi, nulla avevano a che fare con
le armi, imitava cannoni, mortai, mitragliatrici ed altri strumenti di distruzione.
Mi sembrò subito una scelta geniale!”. E qui devo assolutamente aprire una
parentesi per mostrare un lato di Emilio ferocemente avverso ad ogni tipo di
guerra. Mi trovavo una sera nella sua ultima dimora in via Manfredi, dove viveva
con la sua compagna Nelda. Era venuto a fargli visita un amico, appena rientrato
come inviato della R.A.I. dal Libano, dopo lo sconvolgente servizio di guerra.
Era un ometto assolutamente anonimo, prossimo ad andare in pensione, che non
avresti mai immaginato, vestito in tuta mimetica da parà e di vari ammennicoli
tecnici pendenti dalla cintura, trasmettere da Beirut, con voce rotta dalla
tensione emotiva, lo scenario di case sventrate, di rottami di auto fatte esplodere,
di corpi carbonizzati e dilaniati. Raccontava ora del mattatoio di Beirut in
modo quasi impersonale, imparziale, diciamo “politically
correct”. Ebbe la sventura di esprimersi sulla guerra
come di una fatalità, alla quale non era possibile porre rimedio, quasi una necessità.
Emilio si irrigidì, vidi che le
vene del collo si facevano più marcate ed un rossore stava imporporando i
lineamenti. Ero preoccupato, sbigottito dallo scatto rabbioso che seguì a questa
trasformazione.
“Ma che stai dicendo?” ruggì. “Hai
visto con i tuoi occhi cos’è la guerra; ma non ti rendi conto che se si pensa
in questo modo non ci sarà mai fine alle stragi, alle violenze, alle atrocità ? Si legittima ogni tipo di sterminio, si autorizzano
i genocidi. Non esiste una guerra purificatrice, essa è la dannata invenzione di
menti folli, accecate da un macabro egoismo e da una demenzialità omicida
frutto soltanto di schifosi interessi”. E via di questo passo mentre mi
sembrava di vedere Emilio lottare disperatamente contro i quattro cavalieri
dell’Apocalisse.
Sotto questa pioggia di improperi
incontrollati il povero amico giornalista cercava di rimediare con parole
balbettanti come: “Ma non volevo dire questo... forse non mi sono spiegato
bene...”. Si fece un silenzio tombale mentre l’aria vibrava ancora della
tensione de1 momento. Poi le acque si calmarono quando la tempesta emotiva
cessò.
Quando Emilio mi parlò di Pascali posso immaginare la sua curiosità per l’irridere
grottesco e dissacratorio degli strumenti di guerra dell’artista.
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Pino Pascali, Natura morta (cannone semovente), 1965
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Continuo così il racconto della
visita allo studio. Emilio si divertì moltissimo di fronte a quell’arsenale
burlesco e minaccioso al tempo stesso. “Bene, benissimo!” si complimentò. “Poi
però devi fare una cosa”. “Che cosa?” chiese incuriosito Pascali.
“Alla fine della mostra devi fare in modo che essa si disintegri, si
autodistrugga, e che, anche se divertente, scompaia persino l’ombra della
parodia della tragedia e la suggestione della violenza”. Pascali
si guardò bene dal compiere questo sacrificio assolutorio ed Emilio confessò di
aver perso molta della stima che aveva provato per l’artista. La serata
proseguiva fra intingoli vari, fojette di bianco di
Colonna ed il brusio delle conversazioni degli avventori. Data l’ora inoltrata
alcuni commensali cominciarono a lasciare il locale facendo posto a una nuova
comitiva in giacca e cravatta, che piuttosto elegante per il tipo di locale, si
distingueva dagli altri avventori e che occupò tre tavolini di fianco all’entrata.
Dalle loro conversazioni si capiva che non erano romani ma settentrionali.
Emilio, defilato, ascoltava e osservava la scena con curioso interesse.
Per i nuovi avventori il resto di
ciò che si trovava nella ghiacciaia di legno fu raso al suolo in un ultimo
tripudio
di code alla
vaccinara, trippe alla romana e altri generi di conforto esclusivamente capitolini.
Uno del gruppo chiese all’oste Renato di portare del lambrusco. A quel punto
Emilio ruppe gli indugi ed avvicinandosi al tavolo dei nuovi arrivati esclamò
con voce sonora: “Se volete il miglior lambrusco allora dovete chiederlo a me!”.
Le teste si girarono mentre l’oste rimaneva con il braccio proteso verso la
mensola dei vini. Qualcuno osservava Emilio cercando di mettere a fuoco il
personaggio che si era così generosamente offerto, e finalmente si udì
un’esclamazione seguita da altre. “Professor Villa!”, “Emilio!”, “Ma che
sorpresa!”.
Per farla breve, si trattava di
conoscenti milanesi (fra i quali mi sembrò di udire anche un cognome di rango),
che avevano deciso di trascorrere quell’ultima nottata in un locale popolare
del quartiere prima del ritorno a Milano. Ci furono grandi saluti, sorrisi,
scambi di affettuose battute. Emilio chiese loro di attendere dieci minuti
perché avrebbe fatto bere loro il miglior lambrusco della terra. Si doveva però
andarlo a prendere a casa sua, a via Monterone
distante solo poco piu di cento metri da piazza
Farnese. Mi propose arditamente di usare la bici, ma anche se mi sentivo
onorato di portarlo sulla canna avevo dei seri dubbi sulla funzionalità e la
sicurezza di questo nuovo tipo di risciò. Alla fine optammo ragionevolmente per
un rapido spostamento a piedi che tanto veloce non fu data la precaria tenuta
delle gambe illanguidite dal bianco di Colonna. Ad ogni modo ebbe esito
positivo, tempi ragionevoli e potei partecipare come mascotte del gruppo ad una
girandola di rimembranze che andavano dalla liberazione di Milano, dalle storie
di via Brera, dalla cicatrice di Emilio frutto di una scaramuccia con repubblichini
e tedeschi ed altri interessanti episodi, fra scoppi di risa e battute, il
tutto allietato e benedetto dalle tre bottiglie di Lambrusco.
Avevamo fatto le ore piccole quando
la comitiva prese la strada del ritorno in albergo promettendo di rivedersi presto
al nord.
Il locale rimase vuoto mentre
Emilio, le braccia allungate sul tavolo, guardava davanti a sé con i pensieri
rivolti forse al lontano passato. Poi si scosse e, volgendo lentamente la testa
come la luce di un faro, osservò la stanza ormai nuda con l’oste Renato che,
mezzo addormentato, stava lentamente scivolando dalla sedia.
“Renato!” farfugliò Emilio, “Cos’altro
c’è rimasto?”. L’oste si tirò su pian
pianino con il volto rassegnato ai modi del professore. Quella sera sembrava
che un’invasione di cavallette avesse ripulito il locale. Avvicinandosi alla
ghiacciaia con un passo da condannato a morte aprì tutti gli sportelli.
“Guardi pure professò, stasera se so
magnato tutto, puro er cibborio”.
La ghiacciaia era infatti linda e pulita come per una pulizia pasquale. Emilio
roteò il suo fascio ottico da muro a muro.
Di fronte, sulla bianca parete di
fondo, su una lunga mensola di marmo candido, faceva spicco poggiata su un
niveo piatto
verginale, una forma sferica, tondeggiante, dall’acceso color rosso rubino. Nel
candore della scena
sembrava l’apparizione
di un favoloso gioiello da rajà. “E quello che
cos’è?” domandò Emilio indicando sospettosamente il pesante rubino lontano. “A
professò, è un pommidoro”. Scampato al pogrom sembrava che il frutto invece
di passare inosservato, volesse fieramente sfidare il fatale, crudele destino
dei suoi compagni.
“Un pomodoro?” esclamò rapito
Emilio: e nell’aria si sciolse un’ode pindarica sulle virtù del frutto che
aveva
varcato l’oceano
per allietare con i suoi sapori, i suoi colori, i suoi aromi, i sensi di noi
occidentali.
L’oste si alzò oramai annichilito,
condusse il piatto davanti ad Emilio che brandendo un coltello, a mo’ di sacerdote
azteco, compì l’ultimo sacrificio al sugo della nottata.
Uscendo dal locale, dopo qualche
metro, udimmo lo schianto infernale e liberatorio della saracinesca
rabbiosamente abbassata. Muovendoci con cautela accompagnai Emilio che,
canticchiando a bassa voce versi saffici intercalati a qualche parola di una
scurrile ballata meneghina, sorprendentemente ebbe soltanto una sbandata nello
scendere dal marciapiede di Corso Vittorio per attraversarlo. Era ancora incredibilmente
in forma e vitale dopo quella massacrante corvée e ci salutammo caldamente affidando
al destino la prossima occasione di incontro.
Tornai in piazza Farnese;
fortunatamente la mia quarta bicicletta era ancora salva, ancorata alla
ringhiera della fontana. Mi accomodai sul sellino e in un silenzio irreale rotto
solo dallo sgocciolio argentino delle due fontane, mentre, come dice il poeta “le
stelle cominciavano ad impallidire”, pedalando con leziose evoluzioni fra le
quinte immobili del quartiere, mi diressi verso lo studio.