di Mario Lunetta
Emilio
Villa (Affori 1914- Rieti 2003) costituisce una delle rimozioni più pesanti dal
tabulato principe della nostra poesia novecentesca, nel quale, tanto per dirne
un’altra, ancora si stenta a far entrare coi dovuti onori un autore della
statura di Cacciatore, mentre si gabella per poeta grande un lirico gracile e
garbato come Penna. In proposito, tra l’altro, tocca i vertici dell’umorismo
involontario una notazione di Pasolini contenuta in una lettera a Gianfranco
Contini, che commenta l’antologia di quest’ultimo Letteratura dell’Italia unita 1861-1968 alla quale si rinfacciano
certe esclusioni (Noventa, Volponi, Leonetti, Fortini, Morante, Bassani):
“Ma Sandro Penna? Non è il più grande poeta del Novecento letterario italiano?
Più grande di Ungaretti, di Montale e forse di Saba?”.
Pur
non essendo un ungarettiano o un sabiano accanito, credo sia il caso di non
insistere troppo nel sottolineare la foga fanatica di un’empatia che, al di là
del singolo Pasolini, è tuttora il sintomo di una sindrome culturale tutta risolta
nella concezione della poesia come idillio
(magari amaro) e come elegia (magari
crudele): insomma in una visione assolutamente contemplativa, auratica, petrarchesca
della scrittura poetica. La vecchia arcadia italiana “ringiovanisce” a ogni
generazione. Ma, infine , de hoc satis.
Invece,
per radicale contrasto, eccoci a fare i conti (riporti compresi) con Emilio
Villa, finalmente antologizzato con ampiezza e robusta rappresentatività a cura
di AldoTagliaferri (Opere poetiche, I, Coliseum, Milano 1989)
cui va il merito di aver cominciato con grande serietà filologica a
ricostituire il corpus poetico
disperatamente disseminato e per sua inclinazione quasi insofferente di ogni
disciplina di genere e di statuto, ridisegnando così la fisionomia organica di
un autore che, operando in una sorta di irridente semiclandestinità,
si presenta, più che come un plurilinguista genetico, come un poeta plurale,
ferocemente magmatico, transformale e dedito allo
sconfinamento permanente: qualcosa di inclassificabile, un monstrum che è bene tenere lì, ai margini del parco beneducato della
Lirica Italiana Verace, non troppo in vista
e comunque a distanza di sicurezza, onde evitare fastidi e contagi possibili di
varia anarchia. Si veda in proposito quanto scrive Mario Diacono in villalogos, presentazione
al catalogo della recente mostra villiana di Roma a
cura di Piero Varroni:
“Dopo
la fine, nel 1945, di una guerra dalla quale si era sempre dichiarato
disertore, Emilio Villa ha vissuto come scrittore in una condizione di
progressiva alienazione dalla cultura italiana (dalla cultura europea tout court, forse) verso la quale
assunse una pratica e un pensiero non soltanto conflittuali ma apertamente
avversari, che si manifestarono anche nella sua separazione dal libro quale
prodotto (corrotto e corruttivo) di una società dalla quale si trovava
estraniato, da cui si dichiarava formalmente indipendente. In uno delle centinaia
di frammenti di scrittura che ha lasciato inediti scriveva, ‘Tutta la nostra partecipazione alla vita del
mondo si realizza nella nostra azione poetica’. Non ha considerato mai la
politica italiana o mondiale degna di più che un passeggero sarcasmo; da funambolo
della parola, scende metodicamente dal sublime al comico/parodico per poi
ritornarvi, e questo metodo di scrittura negativa lo applica tanto alla sfera
del politico-sociale quanto a quella della lingua letteraria: ‘questa brutta brutta
lingua brutta come il peccato e come la morte è così brutta e biotta che,
guarda, buttala via, buttala, butta che è così brutta che io la butto’. Potrebbe
riferirsi a quella materna, l’italiano, ma insieme a ogni lingua stabile,
inabile a trasformarsi in linguaggio ulteriore, in ‘azione poetica’; a
qualsiasi lingua insomma che tenda ad atrofizzarsi in libri di consumo, che non
si tuffi dalla visione del mitico nell’ingorgo del multisenso,
dei detriti urbani, delle acrobazie semantiche per risalire a una superficie
percorsa da fantasmagorie verbali. Non solo la lingua, la letteratura stessa è
destinata a un’analoga destabilizzazione: ‘io,
che ho inventato la poesia distrutta’, ‘il
solo che ha buttato via il meglio che ha fatto’ (allusione probabile ai
testi scritti sui sassi lavorati con Amerigo Tot e gettati nel Tevere)”.
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Collage Villa
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Vivendo
a Firenze, Milano, São Paulo e Roma il lombardo Villa
ha redatto le sue scritture con la fierezza in qualche modo eroica di chi, non
ambendo a carriere qualsivoglia di poeta laureato, ha fatto della trasversalità,
la cifra dei suoi linguaggi: studioso di filologia semitica e paleogreca, traduttore superbo dell’Odissea (Guanda, 1964) e dell’Antico Testamento, critico e teorico
d’arte (Attributi dell’arte odierna, Feltrinelli
1970), poeta in italiano, in vernacolo milanese, in latino, in francese, in portoghese,
friggendo tutto in un crogiuolo folenghiano ed esperantico di respiro profondo
e di inusitata carica intellettuale. La sua poesia, così, è nutrita di elementi
di straordinaria ricchezza e di provenienza svariata: una poesia eteroclita,
per così dire, capace tuttavia di far precipitare l’intero ventaglio delle sue
pulsioni e suggestioni in una soluzione di magnifica densità e coerenza. Villa,
insomma, procede in apparenza secondo itinerari che somigliano al capriccio di
un nomade famelico; in realtà, seguendo un suo tracciato complesso nutrito
anche di autocancellazioni, e comunque imperterritamente deciso a mettere in
discussione, sempre, tutti gli
obiettivi raggiunti; a riproporsi senza tregua – quasi come una sorta di nostrano
Pessoa ‘selvaggio’ (eteronimo nei linguaggi, non nelle identità) – in esplorazioni
di audacia veramente europea, in sportiva e sprezzante solitudine, fin dalle
esperienze “blandamente ermetiche” (Tagliaferri)
degli anni Trenta- Quaranta. Eppure, osserva esattamente il critico, malgrado
la prepotente presenza del Soggetto e le accensioni (molto lombarde e portiane)
del privato, “ciò non basta a sorreggere il tentativo di individuare nessi
sostanziali tra queste poesie (quelle della raccolta Oramai, nd.r.) e quelle improntate all’ermetismo
italiano degli anni Trenta”. È negli anni Cinquanta che Villa si impegna in un
radicale lavoro di messa a fuoco della sua poetica “plurale” e del suo polifonico
controllo linguistico. L’insieme delle sue esperienze di studioso delle lingue
antiche, di poeta e di critico d’arte si organizza con esplosiva energia
secondo una precisione centrifuga che sposa passione filologica e gusto del
parlato plebeo in una tessitura robusta, imprevedibile, violentemente
straniata. È dai rapporti con la cultura letteraria brasiliana di punta e con
la riflessione sui modelli costituiti da Pound, Joyce
e Cummings, che Villa è spinto a una sperimentazione
in direzione della poesia visiva e sonora, e a evidenziare con nettezza
“isolante” i segmenti semantici o i nodi fonetici nel campo bianco della pagina.
Si può dunque parlare di un Villa antesignano honoris causa della neoavanguardia italiana? L’assegnazione del
titolo, secondo Tagliaferri, sotto certi profili è
ragionevole, ma anche vaga ed ambigua, perché “se è vero che, già nella provincia
italiana della cosiddetta era fascista, egli ha fatto del suo meglio per non
perdere di vista le innovazioni succedutesi sullo scenario europeo e poi, in un
clima culturale più disteso, si è impossessato di slancio di ogni novità e di
ogni lingua a portata di mano e di orecchio, è vero anche che egli ha tenuto le
distanze, sempre, da ogni avanguardia ufficiale, esposta al rischio della
normalizzazione e dell’omologazione con i codici della critica accademica
(essendo noto che quest’ultima ha saputo accortamente assimilare e
addomesticare le ‘rivoluzioni’ letterarie fin dai tempi in cui le provocazioni
erano battezzate da personalità creative e combattive come Marinetti e Breton)”.
Risulta
in proposito estremamente interessante e tempestiva un’attestazione che
troviamo nel romanzo di Balestrini (L’editore,
Bompiani), in cui si dice che Emilio Villa è “il più grande poeta italiano
degli anni ’40 altro che Montale”: quasi a riaprire bruscamente la “pratica
Villa” proprio dall’interno di quella neoavanguardia che a suo tempo non ha
certo spezzato molte lance per riconoscere nell’autore di Heurarium un precursore (magari
involontario). Non scriveva forse Ruggero Jacobbi
nel 1975, in un numero della rivista “Uomini e Idee” dedicata al poeta
lombardo, che “in Villa ha inizio la nuova poesia d’avanguardia in Italia. Il
suo accanito sperimentare si estende per quarant’anni, dal 1935 ad oggi, ed ha
invaso i territori della metrica, del bi e trilinguismo, del grafismo, dell’invenzione
lessicale: tutto un oceano di esperienza poetica, una mappa del delirio contemporaneo,
del nostro permanere tra gli oggetti e poi, mortalmente, tra le parole, come in
un caos che dobbiamo assumere allo stesso livello e riesprimere
con la stessa vertigine”?
E
del resto dispiace l’incomprensione che nella stessa occasione dichiarò per lui
uno che avrebbe avuto il dovere di capirlo come Sinisgalli:
“Come poeta mi riusciva indigesto, specie quando portò a maturazione il suo
sistema composito, la sua lingua di Babele. Non ce la faccio a stargli dietro per
più di una di diecina di lasse; quell’empito confuso, eruttivo, oracolare mi dà
alla testa. Il suo liquore è troppo forte per il mio stomaco e le mie meningi”.
Ma
tant’è. Oggi tornano a parlare i testi di Villa nella loro completezza, per
merito di Cecilia Bello Minciacchi (Emilio Villa, L’opera poetica, L’orma editore, 2014),
e non per via di segmenti, di plaquettes alla macchia, di pattuglie disperse di strofe o
di versi. Tornano invece a parlare di discorso organico e profondo di un poeta
dalla cui opera “non antologizzabile” emana potentemente la necessità,
biologica e retorica, di un sistema totale, da costruire nel rapporto tra il
magma ribollente e il dettaglio gelido. Perché, come voleva un poeta che lo
capiva e l’amava, Adriano Spatola, “il luogo d’incontro della morte e della
rinascita della poesia è oggi in questa cultura che mostra le sue grosse venature
di curiosità retoriche, una certa gelosa e morbosa curiosità da amante tradita
ma per nulla sconfitta: ritrovare lo strumento che serve a squadrare la pietra
per la piramide”.