LUOGO COMUNE
DOPO LA STRAGE DI PARIGI
Contro lo scontro.
Essere o non essere Charlie
non è il problema


      
Dubbi, riflessioni e domande non ovvi e anche dissonanti sulla scia dei sanguinosi attacchi degli islamisti radicali nel cuore della Francia. Formulati da un giovane scrittore e docente universitario romano che vive e lavora oltralpe a Montpellier. Che contesta l’unanimismo e il richiamo d’obbligo a ‘la Nation’ e ai valori della ‘République’ e sottolinea i gravi squilibri socio-economici che generano nel sottoproletariato allocato nelle banlieues il brodo di coltura per gli attentati terroristici.
      



      

di Daniele Comberiati

 

 

Inizio a scrivere queste righe la mattina dell’undici gennaio, a poche ore dalla manifestazione nazionale di Parigi “contro il terrore” (così l’hanno definita i media) che anche qui a Montpellier inizierà alle quindici. Sono attesi un milione e mezzo di persone e cinquanta capi di stato. Renzi – figurarsi se si faceva mancare l’occasione – ci andrà, così come Sarkozy. L’unica a non essere invitata alla festa è stata Marine Le Pen; che ha gridato allo scandalo, ma neanche troppo alla fine. Sa benissimo che è in una posizione di forza: il FN è ad oggi l’unico partito anti-sistema (e seppur volesse entrarci, nel sistema, ormai sono gli altri, dai socialisti all’UMP, ad averlo escluso), quindi ogni errore che da questo momento in poi faranno governo e opposizione saranno voti guadagnati. Bella mossa proprio, quella della strana coppia SarkHollande: dalla villa di Marine si ode un ghigno, del tipo: ci vediamo alle presidenziali del 2017. Dopo quello che è successo (e quello che, temo, succederà) è la sua grande occasione. Ora o mai più.

È (anche) per questi motivi che ho deciso di non partecipare alla manifestazione di oggi. Devo dire che ci ho pensato, soprattutto all’indomani dell’uccisione delle otto persone nella sede di Charlie Hebdo. Ho provato a spiegarlo a mio figlio di sei anni, convinto che quasi tutto si possa dire ai bambini, se si trova il modo. Però il modo non l’ho trovato proprio, questa volta, e il discorso, tristemente, è un po’ rimasto in sospeso. Le bandiere della sua scuola erano a lutto, ma in classe non hanno affrontato l’argomento. Forse è giusto, si dirà, come spiegare un avvenimento del genere a bambini di prima elementare? E però televisioni, radio, giornali, adulti ne parlano continuamente, e non certo in fascia protetta. Davvero pensiamo che i bambini non si accorgano di niente? Ho saputo che la risposta di altre scuole è stata quella di far cantare ai bambini a squarciagola la Marsigliese: meglio non dire niente allora…

Ci ho pensato, dicevo, il mercoledì. Poi ho seguito con ansia gli avvenimenti del venerdì (bella figura ci hanno fatto intelligence e teste di cuoio francesi, ascoltare per tempo quello che avevano da dire i servizi segreti algerini proprio no, eh?), giornata nella quale anche a Montpellier c’è stato un caso “simile”, prontamente ripreso dall’ineffabile televisione italiana (per carità, non aumentiamo il panico. Ma qualche giornalista conosce la storia di Orson Welles e della sua lettura radiofonica della Guerra dei mondi?). Nulla a che vedere con i fatti di Parigi: un signore ha rubato in una gioielleria e ha deciso di tenere per alcune ore degli ostaggi, strategia vintage ma che oggi in Francia sembra tornata di moda. Per fortuna, in questo caso, tutto si è risolto nel migliore dei modi. Piccola consolazione, ma sempre meglio di niente…





La manifestazione di Parigi dell'11 gennaio scorso, con la prima fila composta dai leader politici internazionali e, al centro, il presidente francese Hollande


Ma non è solo per la mia incapacità di capire tutto (e di spiegare) che ho deciso di non andare alla manifestazione della domenica. Un po’, lo ammetto, è stata anche una questione di sensazioni: che ci sto a fare in una piazza (virtuale quanto si vuole, ma pur sempre piazza) con Renzi e Sarkozy? Quando vedo che prendere una causa, un partito, una difesa risulta facile e automatico per tutti, sono portato istintivamente a pormi dei dubbi. Se seguo il giochino del “noi” e del “loro” al quale i giornali francesi e in genere occidentali sembrano abbonati in questi giorni, non posso fare a meno di domandarmi: “loro” sono davvero così cattivi? E “noi” siamo davvero tutti buoni? E poi: chi sono “loro”? Io faccio davvero parte del “noi”? Queste domande, nel mio piccolo, mi hanno fatto riflettere circa il ruolo, in questi casi, dell’intellettuale (ma forse sarebbe meglio dire: del cittadino): non sarebbe il caso di fare appello, oltre all’emozione e al giusto sdegno per quello che è successo, anche alla ragione e alla conoscenza? Davvero il nostro dolore e la nostra rabbia sono così intensi di impedirci di pensare e di vedere? I miei, francamente, no. Condanno quello che è successo a Charlie Hebdo, ci mancherebbe, morti e familiari hanno la mia massima solidarietà e gli assassini il mio disprezzo. Ma non mi basta per capire questa situazione.

Ho letto recentemente un articolo molto interessante – non a caso uscito qualche giorno dopo il massacro parigino, quasi un monito per me: prima di parlare e scrivere a caldo non sarebbe male contare fino a dieci – di Jamila Mascat su Nazione Indiana (http://www.nazioneindiana.com/2015/01/10/peggio-per-tutti-di-charlie-hebdo-della-republique-e-dellapocalisse/). Fra le altre cose, descrive brevemente la storia di Charlie Hebdo, soprattutto le polemiche degli ultimi anni. In particolare l’articolo si sofferma sulle relazioni ambigue del vecchio direttore del giornale con l’establishment di Sarkozy e sulla sua carriera nell’universo mediatico francese. Ma è un’altra questione ad interessarmi: è possibile, nonostante tutto, parlare dei contenuti del giornale? La tragedia che è appena accaduta lo rende automaticamente libero? Io francamente non riesco a collegare i due campi, che mi sembrano assolutamente lontani. A qualcuno, seriamente, fanno ridere le vignette di Charlie Hebdo? Che cosa c’è di divertente o di dissacrante di una battuta scontata di Maometto sulle ragazzine di nove anni o su un crocifisso nel sedere di Dio? Vedessi le stesse scene in un film dei fratelli Vanzina penserei al solito umorismo becero dei cinepanettoni italiani, e lo ammetto senza vergogna: a me Charlie Hebdo non ha mai fatto ridere. Trovavo la sua ironia, le poche volte che l’ho letto, non dissacrante ma facile, non provocatoria ma semplicemente di una esibita volgarità.

Nel blog Il corsaro bianco (https://corsarobianco.wordpress.com) l’autore ha scritto che probabilmente ci troviamo di fronte a una questione, neanche tanto nascosta, di conflitto generazionale e ha analizzato le uccisioni anche come un complesso edipico. È stato fra i primi (penso anche all’articolo di Rino Genovese su Le parole e le cose http://www.leparoleelecose.it/?p=17388) a legare le rivolte del 2005 nelle banlieue ai più recenti fatti di cronaca. Chi sono infatti gli autori degli omicidi? Dove vivono, da dove vengono? L’immensa massa proveniente dalle periferie urbane (una folla scarsamente scolarizzata, precaria, emarginata anche etnicamente) è ancora una volta esclusa dal discorso pubblico. La sinistra l’ha abbandonata ormai da tempo: i soggetti in questione non capivano né i precetti del marxismo-leninismo (quando vivevo a Bobigny, in banlieue parigina, ho visto personalmente membri di Lutte ouvrière provare a dare volantini agli abitanti del quartiere, che puntualmente rifiutavano. Credo di non aver mai provato tanto imbarazzo…), né i vantaggi del liberalismo, visto che in questo caso dovevano assolutamente mantenere la posizione economica e sociale che occupano. E non andategli a parlare di decrescita: da che cosa dovrebbero iniziare a farla, questa decrescita? È questa folla di emarginati il problema della Francia e dell’Europa, non sono i terroristi. Finché non si risolve la questione della loro dignità economica, culturale e sociale (che poi è anche la nostra dignità: possiamo davvero rimanere gli unici carnivori impenitenti quando i poveri erbivori muoiono di fame? E poi che ci mangiamo? Ci sbraniamo fra noi?), non si risolve il problema principale.





Un'altra immagine della manifestazione nella capitale francese


E qui mi lego anche all’altra problematica della manifestazione, che non era solo una marcia contro il terrorismo, ma anche una marcia in difesa della République e dei suoi valori universali. Qui bisogna fare una distinzione fra valori universali e valori reali. Sembrerà banale, ma secondo me non ha senso una manifestazione in difesa di libertà, uguaglianza e fraternità. Nella loro accezione generale, sono oggi termini che hanno perso senso. Di quale libertà si parla? Di quale uguaglianza? Non mi interessa sfilare in favore della fraternité, voglio capire con chi e per quale motivo dovrei fraternizzare. Solo se sono d’accordo con queste condizioni sento di fare la cosa giusta. Altrimenti, mi sembra solo di seguire la massa verso un ideale che “dovrebbe” essere quello giusto. È un populismo facile, come scagliarsi contro la “casta”. Per carità, è sacrosanto: ma come ci è arrivata la “casta” fin là? Quali sono le modalità con cui governa?

Cerchiamo di analizzarla da vicino, questa libertà della République, dove dalla settimana successiva alla strage di Charlie Hebdo centoventimila agenti sparsi in tutto il paese cercano di rassicurare la popolazione spaventata, praticamente un assetto di guerra. E d’altronde bastava farsi un giro nelle stazioni dei treni o delle metropolitane parigine, ben prima del sette gennaio, per vedere militari con il mitra in mano intenti a percorrere lentamente i pochi metri quadri di quegli spazi affollati. Su e giù, su e giù, sempre in coppia come i carabinieri. Quante volte ci sono passato accanto con i miei figli? Quante volte ho avuto paura e mi sono chiesto: e se uno di questi spara? E se uno di questi fa una strage? Una paura insensata, si potrebbe obiettare, sono lì per proteggerci. Eppure dopo le ultime prove di efficacia di polizia e esercito francesi qualche dubbio potrebbe anche essere legittimo… e che Repubblica è quella tenuta insieme da un dispiegamento mai visto di forze di sicurezza? È questa la libertà che si difende? Perché un’idiosincrasia non può non saltare agli occhi: si scende in piazza a difendere i valori della Francia, poi si prende la metropolitana e si passa accanto a militari armati. Nello stesso giorno, nello stesso luogo. C’è qualcosa in tutto questo che non quadra.

Sul valore della fraternité, francamente, non credo ci sia moltissimo da dire. La distanza fra la borghesia e il nuovo sottoproletariato in Francia è enorme, se possibile ancora più evidente che in Italia. A partire dal luogo in cui si abita (Parigi o non Parigi, banlieue o non banlieue), fino a come ci si veste e a quello che si mangia. E non aiuta certo (e qui entra in gioco l’égalité) la struttura scolastica. In Francia la scuola è automaticamente associata al luogo in cui si vive: il comune, a partire dall’indirizzo di residenza, stampa il foglio di iscrizione. Teoricamente dovrebbe essere una garanzia di uguaglianza: nessuna famiglia può scegliersi la propria scuola, è l’ente comunale (dunque, in senso lato, lo Stato) che decide per lei. La realtà però, anche in questo caso, è ben diversa: i quartieri ricchi hanno scuole pubbliche decenti, quelli più poveri e delle banlieue scuole pessime e sovraffollate. E nessuna famiglia può modificare lo stato delle cose: è il comune stesso a garantirne il perpetuarsi della divisione sociale (una dérogation in effetti è possibile chiederla, per un massimo di due volte, ma non è facile ottenerla, anche perché le scuole buone sono le prime a essere complete). Quale uguaglianza è possibile con queste premesse?





La testata satirica Charlie Hebdo atrocemente colpita dai terroristi islamici


Senza considerare che il sistema francese è altamente competitivo fin dalla scuola materna, dove i bambini sono continuamente sotto pressione rispetto agli obiettivi che devono raggiungere. Nelle pagelle, a partire dalle medie, non viene indicato solo il voto del ragazzo, ma anche quello del peggiore e del migliore della classe. Ho l’impressione a volte che le innovazioni degli anni Sessanta e Settanta sulla pedagogia qui siano passate inosservate. Sembrerà inutile o fuori luogo discutere della struttura della scuola dell’obbligo dopo un fatto atroce come quello di Charlie Hebdo, eppure è da qui che nascono le contraddizioni della società francese. Manca inoltre, e qui concludo, un discorso comune capace di fare una vera e propria autocritica, al di là del mito intoccabile della République. Non mancano gli intellettuali critici, certo, gli scrittori impegnati e originali. Molti di loro (non tutti per fortuna), però, a ben guardare, non hanno il coraggio di infrangere il mito della Nazione, che rimane là, ideale da giustificare o da raggiungere, panacea ultima di mali che esso stesso ha creato.

Un collega al quale esprimevo i miei dubbi sulla manifestazione dell’undici gennaio mi ha detto: se non ti piace la République perché vivi in Francia?

Ma perché, scusate? È vietato vivere in un paese che non ci piace o di cui critichiamo alcuni aspetti? Dobbiamo vivere solo dove siamo contenti e assuefatti? O il fatto che il mio lavoro qui sia stato apprezzato mi obbliga ad una perpetua acquiescenza?

Per la cronaca: fra i tanti cori scanditi al corteo c’erano anche Vive la France e Bravo la police (ma perché poi? Al di là della questione etica e politica, dal punto di vista strategico-militare l’azione della polizia è stata aberrante). Mi chiedo se abbiano cantato anche i cinquanta capi di stato presenti. I miei dubbi sulla partecipazione alla manifestazione si sono infine dissolti.

 




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