LUOGO COMUNE
NOTA D’AUTORE
Ecco la poesia… ‘Accidentalmente’


      
Partendo dal proprio settantacinquesimo compleanno, fluide riflessioni su varie pubblicazioni recenti a cominciare dall’ultimo libro “Tacere fra gli alberi” di Nanni Cagnone, reputato ‘il maggior poeta italiano fra noi’. Proseguendo con una nuova edizione del “Cavaliere azzurro” di Kandinskij-Else Lasker-Schueler e Franz Marc; con una traduzione delle “Poesie” di Stefan George; con un prezioso volume filosofico di Karl Jaspers sulla malattia psichica; e con la raccolta degli articoli pubblicati da Giovanni Reale, storico della filosofia, sul “Corriere della sera”, anche ricordando le sue sbrigative lezioni all’Università di Parma presso la facoltà di Lettere.
      



      

di Marzio Pieri

 

 

Stanotte, poco prima del lume fiochissimo della stella di un’alba da valpadana verace, sono rinato la 75.a volta. E che fatica. Ho scritto a una antica studentessa che mi aveva mandato gli auguri: ‘ti auguro di vivere 100 anni ma di evitare i 75’. Si è spostato ai 75 quell’anno climaterico che dettava rime stupende ad antichi poeti barocchi? Sùbito di levata avevo trovato nella cassetta delle lettere, di solito spoglia se non di fatture, balzelli o ingratissime pubblicità, il mio improgrammato dono di compleanno: un piccolo libro di versi di quello che io oramai non ho vincoli nel ritenere il maggior poeta italiano fra noi, Nanni Cagnone. Anche fisicamente un (piccolo) libro di molta bellezza. Tacere fra gli alberi, pubblicato dalle Edizioni d’arte di Enrica Dorna (Torino 2014, novembre) con un delizioso progetto di copertina dell’artista torinese Giulio Paolini, col piccolo tocco prezioso (l’uovo di Colombo? io non l’avevo ancora visto) di mettere in carminio la numerazione di pagina, in calce.

Stamani avevo fatto una delle rare mie visite in libreria. Ne esco, per una volta, contento: anniversarii o quasi anniversarii, qualche mostra ben fatta, un certo bisogno di ripensare il secolo perduto (non escludendo che il cordone umbilicale debba alla fine dovere tagliarsi, cento anni dopo, nel sangue d’Europa e del mondo), rifermentano quello che sembrava composto in arche o casseforti ‘da aprirsi solo se un altro secolo, dopo questo promettitore di sciagure, fra otto o nove decennii verrà’. Così, rivedo sui banchi varie pubblicazioni kandinskiane, la più preziosa qui da noi mi sembra la nuova edizione di Der Blaue Reiter, di Kandinskij-Else Lasker-Schueler e Franz Marc, l’almanacco-palinsesto del meglio che avrebbe caratterizzato il più alto cinquantennio della modernità. Ne sarebbe spuntato anche Klee. Il grande visionario russo sarebbe morto a Parigi nel 1944, la illustre poetessa tedesca a Gerusalemme nel 1945. Klee nell’anno di mia nascita, il 1940, minacciato in Germania e sgradito nella federazione donde avea tratto la nascita, a Berna. Franz Marc, il tenero pittore di animali-creature, una specie di Serra dell’altro campo, era morto a Verdun nel 1916. Conoscere Marc è essenziale. La limpidezza della sua figura morale non fa da ostacolo alla sua severa e convinta adesione,  da parte germanica, a quel lustro di macelleria del quale egli non avrebbe aspettato la fine. Tutti abbiamo letto con ammirata perplessità (o perplessa ammirazione) le Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann. Era il 1918. Troppe poche visioni sanno rendere o chiedersi ragione dei torti e delle ragioni e delle false attese e degli squilibrii che menano due campi a lacerare quella povera tela di compassione cui Foscolo avrebbe voluto alludere col velo delle Grazie. Non le riuscì a finire, non per manco di tempo o caduta di ispirazione o impotenza di un lirico ben alto a farsi epico. Non riusciva a darsi una ragione.

L’edizione odierna del Cavaliere azzurro (per un editore romano che io non conoscevo, il Castelvecchi) non farà dimenticare la prima italiana, fatta dal magnifico De Donato in anni ruggenti della editoria (e della società, che pure sprecò le molte occasioni nobili in un gioco di cinismi e arrivismi che non era punto nuovo e dunque da ultimo vinse). Del resto, un editore a me molto vicino, l’Albertazzi de La Finestra, sta per uscire con una traduzione che si promette letterariamente in forma dei Gedichte di Stefan George, precedute di mese in mese dal supremo saggio di Friedrich Gundolf (celebre soprattutto per i suoi Shakespeare alla luce del germanico Geist. Per il suo monumentale Goethe, apparso in piena guerra – la prima, la seconda, o la terza ? –, parodiando il Fuehrer quando un pianista celebre, richiesto da Quel Grande del programma del concerto la sera, gli ebbe troppo evasivamente risposto: la Sonata op 31, e il Delittuoso Musicomane lo folgorò: la prima, la seconda o la terza, ché come qualcuno ancora ricorda quella raccolta di sonate ne contiene tre). Ai miei tempi George e peggio Gundolf (morto due anni prima dell’avvento al potere di Hitler) erano vietati più delle pistole corte; e ancora c’è chi se ne libera con due spallucce. Albertazzi mi ha intanto inviato a vedere le bozze del George gundolfiano e io trovo pochi paragoni, in  fatto di critica letteraria qui da noi, se non l’arduo Mallarmé di Carlo Bo. Uscì nel 1945 a Milano, per le leggendarie edizioni Rosa&Ballo, di cui per mio vanto sono riuscito a raccogliere parecchi volumi che animarono la cultura italiana in vista della battaglia di liberazione. Questa ci fu e riuscì presto equivoca. E intanto, culturalmente, si sbandava verso una cultura ad usum delphini, che pareva quella fascista cambiata di segno.





Il Cavaliere Azzurro


Ho visto anche, stamani, l’addensarsi di libri nuovi o appena ritrovati sulla malattia psichica: un prezioso Karl Jaspers (La cura della mente, Filosofia della psicopatologia), veggo ancora presso il Castelvecchi – l’originale è un articolo del 1912, l’anno che nacque mio padre. Lui non arrivò ai 75. Chi ha molta vita la brucia prima dei visi pallidi. Son poche pagine densissime, di fronte alla traduzione einaudiana di un recente (2012) Starobinski, L’inchiostro della malinconia. Qui si va sulle 600 pagine, in un percorso caratteristicamente starobinskiano, da Omero e Ippocrate alla De Stael, a Baudelaire, a Pierre-Jean Jouve. Ho pensato sùbito a Mimesis di Auerbach, tanto prezioso per Pasolini, a orientarlo. Fu il libro della nostra generazione, non mi stupirebbe che per quelle avvenire potesse diventarlo questo inchiostro. Batte la mezzanotte, sono stanco. Vorrei trattare di un altro libro, anch’esso molto bello nella veste, e visto che lo pubblica Il Mulino, tanto scaduto nei passati decennii a perseguir la speme del libro d’adozione (alla università! che come primo compito avrebbe quello di spingere gli iscritti a buttarsi nel mare, nell’oceano dei libri e imparare a nuotare finché le membra si sciolgono e la luce sembra più splendida), mi rallegro che forse abbia fine per la gloriosa casa bolognese il ripiegamento su grafiche indegnamente cheap o cemeteriali. Qui a Reggio vantano una antica pasticceria: ma dentro è buio, le macchine del caffè son rugginose, le inservienti sonnolente, le paste dormono in mobili scuri, neri, sacristeriali. Ci passo davanti... e proseguo fino al prossimo baretto, gestito da extracomunitarii o marocchini, un caffè e una brioscia almeno in dolce luce. Ah il libro! Seducenti immagini (Un viaggio nell’arte  dall’Egitto a Star Wars), di Camille Paglia, che insegna a Filadelfia. è un libro per stazioni, molto denso e molto unitario, e con scelte che invitano a imbarcarsi: in numero di 29, da Nefertari all’Auriga di Delfi, dal Laocoonte a Les Demoiselles d’Avignon, da Donatello al Bernini, da La morte di Marat al Dittico di Marylin. Ci voleva un ricambio al vecchio Gombrich.

Due ultime parole: ho preso la raccolta degli articoli pubblicati da Giovanni Reale, storico della filosofia, sul “Corriere della sera”; li cura un nome illustre, il teofilo Armando Torno. Reale era stato messo in cattedra dallo stesso professore che aveva favorito il mio ingresso almeno a pianterreno nell’università. Fu due anni a Parma, nello stesso istituto dove insegnavo estetica. Cacciati dal centro della città e dal palazzo degli antichi gesuiti dove si potevano ancora ascoltare, nell’ombra, i passi di Daniello Bartoli, prima i filosofi e poi gli italianisti (dei quali venni finalmente a far parte) erano stati esiliati in una zona tristissima, lungo la ferrovia che corre verso La Spezia, palazzoni d’abitazione grossolani affittati alla università, sì lo so, pagandoli cari e senza avvenire, dice che il superdirigente autoproclamatosi (e che umiliava i tremebondi rettori) lo aveva fatto per impedire agli studenti di raunarsi in troppa massa al centro. Boh. Una volta si sollevarono, vennero dentro come una fiumana, ero l’unico professore (professorino) presente, per caso, l’ufficiale di picchetto di una mattina sfortunata. Scesi loro incontro, mi volevano bene, si fermarono, seduto sugli scalini li ascoltai e dissi le mie. Non ero di sinistra e lo sapevano, Se ne andarono rassicurati e non spostarono una sedia. Naturalmente le autorità non me ne furono grate.  Avevano messo a soqquadro varii altri istituti, noi si poté parlare e chiarirci.

In quelle palazzine venne a insegnare Reale; si faceva lezione in camere da letto, si ammucchiavano i libri nelle vasche da bagno. Dalla finestra, sempre con un piccolo ritardo, mentre facevo lezione, vedevo Reale scendere dal taxi, precipitarsi al primo ascensore (questo non lo vedevo ma lo sentivo dal rumore degli ingranaggi). Faceva lezione un poco più di mezz’ora e lo sentivo franare, prima di avere concluso la mia, per risalire sul taxi che di nuovo lo aspettava dabbasso. Erano le undici, alle due sarebbe stato per un’altra lezione alla Cattolica, dove ancora teneva un incarico in attesa della chiamata da ordinario. Non voglio dire che riduceva i compiti didattici al minimo, almeno a Parma (che anche quando si chiamò per una legge stolida ‘Lettere’, restava un onesto Magistero, è dura e anche mia moglie lo avrebbe provato introdurre alla filosofia antica chi non sa né di greco né di latino). Voglio esaltare la sua quasi miracolosa energia. Nella fortunata collezione di classici del pensiero da lui fondata e seguìta per l’arco di almeno tre decennii, stamani ho visto che c’è un grosso volume degli scritti di Palmiro Togliatti. So fin da ora che a leggerli saranno soltanto alcuni non comunisti. Reale amava anche la storia dell’arte, da lui sagacemente riportata alla cultura e al pensiero. La Scuola di Atene è un classico quasi d’obbligo, ma chi se ne aspettava un Romanino? Eppure. “La Sistina dei poveri”. Era uno ‘della Cattolica’ e personalmente mi trovai quasi sempre a dissentire dalle sue scelte, ma questo è ovvio. Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie ma le foglie non sono mai una simile all’altra.





Il filosofo Giovanni Reale (1931-2014)


Mi sia consentito donare ai miei troppi lustri e decennii questo omaggio a un professore italiano che, sono convinto, apprezzava più papa Ratzinger che non il buon Francesco. Ratzi lo hanno affondato perché leggeva i libri e voleva che i libri si leggessero. Non stava nell’ossimoro permanente e non baciava i bambini. Non sto per i terrorismi di nessun genere (da bambino, ricordo, mi ferì la monumentalizzazione scolastica e civica di quell’Oberdan ch’era risalito a Trieste per dar morte all’imperatore Cecco Beppe in visita ufficiale, io, forse per via di infantili manzoniani percorsi, dovetti dire a me: oibò! vergogna, e non capivo proprio non capivo), piango le vittime di ogni campo avverso sulla faccia della terra, mi ripugna l’ambiguità di quanti si straccerebbero le vesti per un ‘porcamaronna’ scappato a un calciatore intervistato negli spogliatoi e non voglion pensare che il vernacoliere parigino è come se fosse uscito con questo titolone: CRISTO HA EMPITO IL VANGELO DI STRONZATE. Je suis Le Vernaculier? Me ne guardi la santa Genoveva. Sto per la libertà d’espressione se uno è pronto a pagarla di persona. Ammetto che il grido Allah akbàr rintronato per le vie di una Parigi enigmaticamente lasciatasi prendere di sorpresa mi è sembrato l’unico fatto ‘reale’ di una storia già vista altre volte. Troppe volte per esserne io convinto. Né vi spiegherò il perché del mio scommettere su Cagnone, poeta solitario, per le future sorti, se ci saranno, della poesia. Il primo verso è: “Accidentalmente”. Quanti participii nei versi perfettissimi di questo intellettuale mai arresosi alla banalità, alla scadente Arcadia che ci attornia da più di trent’anni. E signore supremo della lingua e dei distinguo morali, sentimentali, ideologici, ironici. Insieme raffinato e anche alla mano, per quelli che abbiano la dignità di mettersi in pelago con qualche senso del dovere. Allo stesso modo un compositore riattiva tutte le forme, gli strumenti, il pensiero sonoro del passato. Quanti Einaudi pianista ci vogliono per rifare un Ravel, un Satie, un Cage, un Copland, un Carter – non dico quello delle noccioline.

 

 

 

 




Scarica in formato pdf  


      
Sommario Luogo Comune

Il contatore dei visitatori Shiny Stat è attivo da dicembre 2006