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di Marzio Pieri
Stanotte, poco prima del lume fiochissimo della stella di un’alba da valpadana
verace, sono rinato la 75.a volta. E che fatica. Ho scritto a una antica
studentessa che mi aveva mandato gli auguri: ‘ti auguro di vivere 100 anni ma
di evitare i 75’. Si è spostato ai 75 quell’anno climaterico che dettava
rime stupende ad antichi poeti barocchi? Sùbito di levata avevo trovato nella
cassetta delle lettere, di solito spoglia se non di fatture, balzelli o
ingratissime pubblicità, il mio improgrammato dono di
compleanno: un piccolo libro di versi di quello che io oramai non ho vincoli
nel ritenere il maggior poeta italiano fra noi, Nanni Cagnone. Anche
fisicamente un (piccolo) libro di molta bellezza. Tacere fra gli alberi, pubblicato dalle Edizioni
d’arte di Enrica Dorna (Torino 2014, novembre) con un
delizioso progetto di copertina dell’artista torinese Giulio Paolini, col
piccolo tocco prezioso (l’uovo di Colombo? io non l’avevo ancora visto) di
mettere in carminio la numerazione di pagina, in calce.
Stamani avevo fatto una delle rare mie
visite in libreria. Ne esco, per una volta, contento: anniversarii
o quasi anniversarii, qualche mostra ben fatta, un
certo bisogno di ripensare il secolo perduto (non escludendo che il cordone umbilicale debba alla fine dovere tagliarsi,
cento anni dopo, nel sangue d’Europa e del mondo), rifermentano quello che
sembrava composto in arche o casseforti ‘da aprirsi solo se un altro secolo, dopo
questo promettitore di sciagure, fra otto o nove decennii
verrà’. Così, rivedo sui banchi varie pubblicazioni kandinskiane,
la più preziosa qui da noi mi sembra la nuova edizione di Der Blaue Reiter, di Kandinskij-Else Lasker-Schueler
e Franz Marc, l’almanacco-palinsesto del meglio che avrebbe caratterizzato il
più alto cinquantennio della modernità. Ne sarebbe spuntato anche Klee. Il
grande visionario russo sarebbe morto a Parigi nel 1944, la illustre poetessa
tedesca a Gerusalemme nel 1945. Klee nell’anno di mia nascita, il 1940,
minacciato in Germania e sgradito nella federazione donde avea
tratto la nascita, a Berna. Franz Marc, il tenero pittore di animali-creature,
una specie di Serra dell’altro campo, era morto a Verdun nel 1916. Conoscere
Marc è essenziale. La limpidezza della sua figura morale non fa da ostacolo
alla sua severa e convinta adesione, da parte
germanica, a quel lustro di macelleria del quale egli non avrebbe aspettato la
fine. Tutti abbiamo letto con ammirata perplessità (o perplessa ammirazione)
le Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann. Era il
1918. Troppe poche visioni sanno rendere o chiedersi ragione dei torti e delle
ragioni e delle false attese e degli squilibrii che
menano due campi a lacerare quella povera tela di compassione cui Foscolo
avrebbe voluto alludere col velo delle Grazie. Non le riuscì a finire, non per
manco di tempo o caduta di ispirazione o impotenza di un lirico ben alto a
farsi epico. Non riusciva a darsi una ragione.
L’edizione odierna del Cavaliere
azzurro (per un editore romano che io non conoscevo, il Castelvecchi) non farà dimenticare la prima italiana, fatta
dal magnifico De Donato in anni ruggenti della editoria (e della società, che
pure sprecò le molte occasioni nobili in un gioco di cinismi e arrivismi che
non era punto nuovo e dunque da ultimo vinse). Del resto, un editore a me molto
vicino, l’Albertazzi de La Finestra, sta per uscire con una traduzione che si
promette letterariamente in forma dei Gedichte di
Stefan George, precedute di mese in mese dal supremo saggio di Friedrich Gundolf (celebre soprattutto per i suoi Shakespeare alla
luce del germanico Geist. Per il suo monumentale
Goethe, apparso in piena guerra – la prima, la seconda, o la terza
? –, parodiando il Fuehrer quando un pianista
celebre, richiesto da Quel Grande del programma del concerto la sera, gli ebbe
troppo evasivamente risposto: la Sonata op 31, e il Delittuoso Musicomane lo
folgorò: la prima, la seconda o la terza, ché come qualcuno ancora ricorda
quella raccolta di sonate ne contiene tre). Ai miei tempi George e peggio Gundolf (morto due anni prima dell’avvento al potere di
Hitler) erano vietati più delle pistole corte; e ancora c’è chi se ne libera
con due spallucce. Albertazzi mi ha intanto inviato a vedere le bozze del
George gundolfiano e io trovo pochi paragoni, in fatto di critica letteraria qui da noi, se non l’arduo Mallarmé di
Carlo Bo. Uscì nel 1945 a Milano, per le leggendarie edizioni Rosa&Ballo, di cui per mio vanto sono riuscito a
raccogliere parecchi volumi che animarono la cultura italiana in vista della
battaglia di liberazione. Questa ci fu e riuscì presto equivoca. E intanto,
culturalmente, si sbandava verso una cultura ad usum delphini, che pareva quella fascista cambiata di segno.
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Il Cavaliere Azzurro
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Ho visto anche, stamani, l’addensarsi di
libri nuovi o appena ritrovati sulla malattia psichica: un prezioso Karl Jaspers (La cura della mente, Filosofia della
psicopatologia), veggo ancora presso il Castelvecchi – l’originale è un articolo del 1912, l’anno
che nacque mio padre. Lui non arrivò ai 75. Chi ha molta vita la brucia prima
dei visi pallidi. Son poche pagine densissime, di fronte alla traduzione
einaudiana di un recente (2012) Starobinski, L’inchiostro
della malinconia. Qui si va sulle 600 pagine, in un percorso
caratteristicamente starobinskiano, da Omero e
Ippocrate alla De Stael, a Baudelaire, a Pierre-Jean Jouve. Ho pensato sùbito a Mimesis di
Auerbach, tanto prezioso per Pasolini, a orientarlo.
Fu il libro della nostra generazione, non mi stupirebbe che per quelle avvenire
potesse diventarlo questo inchiostro. Batte la
mezzanotte, sono stanco. Vorrei trattare di un altro libro, anch’esso molto
bello nella veste, e visto che lo pubblica Il Mulino, tanto scaduto nei passati
decennii a perseguir la speme del libro d’adozione
(alla università! che come primo compito avrebbe quello di spingere gli
iscritti a buttarsi nel mare, nell’oceano dei libri e imparare a nuotare finché
le membra si sciolgono e la luce sembra più splendida), mi rallegro che forse
abbia fine per la gloriosa casa bolognese il ripiegamento su grafiche
indegnamente cheap o cemeteriali. Qui a Reggio
vantano una antica pasticceria: ma dentro è buio, le macchine del caffè son
rugginose, le inservienti sonnolente, le paste dormono in mobili scuri, neri, sacristeriali. Ci passo davanti... e proseguo fino al
prossimo baretto, gestito da extracomunitarii o
marocchini, un caffè e una brioscia almeno in dolce luce. Ah il libro! Seducenti
immagini (Un viaggio nell’arte dall’Egitto
a Star Wars), di Camille
Paglia, che insegna a Filadelfia. è
un libro per stazioni, molto denso e molto unitario, e con scelte che invitano
a imbarcarsi: in numero di 29, da Nefertari all’Auriga
di Delfi, dal Laocoonte a Les Demoiselles
d’Avignon, da Donatello al Bernini, da La morte di Marat al Dittico
di Marylin. Ci voleva un ricambio al vecchio Gombrich.
Due ultime parole: ho preso la raccolta
degli articoli pubblicati da Giovanni Reale, storico della filosofia, sul
“Corriere della sera”; li cura un nome illustre, il teofilo
Armando Torno. Reale era stato messo in cattedra dallo stesso professore che
aveva favorito il mio ingresso almeno a pianterreno nell’università. Fu due
anni a Parma, nello stesso istituto dove insegnavo estetica. Cacciati dal
centro della città e dal palazzo degli antichi gesuiti dove si potevano ancora
ascoltare, nell’ombra, i passi di Daniello Bartoli,
prima i filosofi e poi gli italianisti (dei quali venni finalmente a far parte)
erano stati esiliati in una zona tristissima, lungo la ferrovia che corre verso
La Spezia, palazzoni d’abitazione grossolani affittati alla università, sì lo
so, pagandoli cari e senza avvenire, dice che il superdirigente
autoproclamatosi (e che umiliava i tremebondi rettori) lo aveva fatto per
impedire agli studenti di raunarsi in troppa massa al
centro. Boh. Una volta si sollevarono, vennero dentro come una fiumana, ero l’unico
professore (professorino) presente, per caso, l’ufficiale di picchetto di una
mattina sfortunata. Scesi loro incontro, mi volevano bene, si fermarono, seduto
sugli scalini li ascoltai e dissi le mie. Non ero di sinistra e lo
sapevano, Se ne andarono rassicurati e non spostarono una sedia. Naturalmente
le autorità non me ne furono grate. Avevano messo a soqquadro varii altri istituti, noi si poté parlare e chiarirci.
In quelle palazzine venne a insegnare
Reale; si faceva lezione in camere da letto, si ammucchiavano i libri nelle
vasche da bagno. Dalla finestra, sempre con un piccolo ritardo, mentre facevo
lezione, vedevo Reale scendere dal taxi, precipitarsi al primo ascensore
(questo non lo vedevo ma lo sentivo dal rumore degli ingranaggi). Faceva
lezione un poco più di mezz’ora e lo sentivo franare, prima di avere concluso
la mia, per risalire sul taxi che di nuovo lo aspettava dabbasso. Erano le
undici, alle due sarebbe stato per un’altra lezione alla Cattolica, dove ancora
teneva un incarico in attesa della chiamata da ordinario. Non voglio dire che
riduceva i compiti didattici al minimo, almeno a Parma (che anche quando si
chiamò per una legge stolida ‘Lettere’, restava un onesto Magistero, è dura e
anche mia moglie lo avrebbe provato introdurre alla filosofia antica chi non sa
né di greco né di latino). Voglio esaltare la sua quasi miracolosa energia.
Nella fortunata collezione di classici del pensiero da lui fondata e seguìta per l’arco di almeno tre decennii,
stamani ho visto che c’è un grosso volume degli scritti di Palmiro Togliatti.
So fin da ora che a leggerli saranno soltanto alcuni non comunisti. Reale amava
anche la storia dell’arte, da lui sagacemente riportata alla cultura e al
pensiero. La Scuola di Atene è un classico quasi d’obbligo, ma chi se ne aspettava
un Romanino? Eppure. “La Sistina dei poveri”. Era uno ‘della Cattolica’ e
personalmente mi trovai quasi sempre a dissentire dalle sue scelte, ma questo è
ovvio. Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie ma le foglie non sono mai
una simile all’altra.
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Il filosofo Giovanni Reale (1931-2014)
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Mi sia consentito donare ai miei troppi
lustri e decennii questo omaggio a un professore
italiano che, sono convinto, apprezzava più papa Ratzinger che non il buon
Francesco. Ratzi lo hanno affondato perché leggeva i
libri e voleva che i libri si leggessero. Non stava nell’ossimoro permanente e
non baciava i bambini. Non sto per i terrorismi di nessun genere (da bambino,
ricordo, mi ferì la monumentalizzazione scolastica e civica di quell’Oberdan
ch’era risalito a Trieste per dar morte all’imperatore Cecco Beppe in visita
ufficiale, io, forse per via di infantili manzoniani percorsi, dovetti dire a
me: oibò! vergogna, e non capivo proprio non capivo), piango le vittime di ogni
campo avverso sulla faccia della terra, mi ripugna l’ambiguità di quanti si straccerebbero
le vesti per un ‘porcamaronna’ scappato a un
calciatore intervistato negli spogliatoi e non voglion
pensare che il vernacoliere parigino è come se fosse
uscito con questo titolone: CRISTO HA EMPITO IL VANGELO DI STRONZATE. Je suis Le Vernaculier? Me ne guardi
la santa Genoveva. Sto per la libertà d’espressione se
uno è pronto a pagarla di persona. Ammetto che il grido Allah akbàr rintronato per le vie di una Parigi enigmaticamente
lasciatasi prendere di sorpresa mi è sembrato l’unico fatto ‘reale’ di una
storia già vista altre volte. Troppe volte per esserne io convinto. Né vi
spiegherò il perché del mio scommettere su Cagnone, poeta solitario, per le
future sorti, se ci saranno, della poesia. Il primo verso è: “Accidentalmente”.
Quanti participii nei versi perfettissimi di questo
intellettuale mai arresosi alla banalità, alla scadente Arcadia che ci attornia
da più di trent’anni. E signore supremo della lingua e dei distinguo morali,
sentimentali, ideologici, ironici. Insieme raffinato e anche alla mano, per
quelli che abbiano la dignità di mettersi in pelago con qualche senso del
dovere. Allo stesso modo un compositore riattiva tutte le forme, gli strumenti,
il pensiero sonoro del passato. Quanti Einaudi pianista ci vogliono per rifare
un Ravel, un Satie, un Cage, un Copland,
un Carter – non dico quello delle noccioline.
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