LUOGO COMUNE
STEFANO DOCIMO
(1945-2014)
Scene da una amicizia


      
Personalissime tranches di memoria sul poeta, narratore e critico romano, redattore delle Reti di Dedalus, morto il 31 dicembre scorso, andando col passo del gambero dal presente al passato. Una storia lunga trentasette anni senza mai perdersi di vista e intrecciando molteplici, empatici rapporti amicali, conviviali, culturali, letterari. Ma soprattutto la coscienza che se ne è andato un autore tra i più significativi della ricerca poetica degli ultimi decenni, però non adeguatamente valutato e apprezzato, anche per via della sua leggerezza discosta e non di rado nascosta, di frequente in crisi con la sua stessa scrittura. Un artista della contraddizione e dell’autocontraddizione.
      



      

di Marco Palladini

 

 

Harold Pinter disse per spiegare la struttura della sua commedia Tradimenti (Betrayal): “La memoria incomincia dal fondo”. Così, per rievocare l’arco quasi quarantennale della mia carissima amicizia con Stefano Docimo ho deciso di procedere col passo del gambero, andando all’indietro dall’oggi fino al nostro primo incontro, quando eravamo giovani e pieni di sogni, pulsioni e illusioni.

 

Inizio 2015 ► Stefano è morto da poche ore. Alle ore 20 del 31 dicembre. Non ha voluto transitare nel nuovo anno, la sua storia era già finita. La mattina dell’1 gennaio vado nella sala mortuaria dell’ultima clinica, presso Colle Oppio a Roma, dove è stato ricoverato. È una giornata fredda, ma tersa, illuminata da uno splendente sole invernale. Vedo il suo corpo, che fatico a riconoscere, insaccato in una tuta da ginnastica blu col cappuccio, i piedi infilati in un paio di scarpe da jogging. Come un atleta già pronto a percorrere i sentieri dell’aldilà. Sono scosso fino alle lacrime. Le mani di cera sono ricomposte in grembo. Poggio la mia mano destra sul dorso delle sue e recito mentalmente, come fosse una preghiera, i versi finali di una mia poesia che gli era piaciuta molto: “Non s’ammucchiano comunque le paranze / Lo scarduffato nostro sembiante molce / Quest’aria rimorta, il tema è stato svolto / E ci si addorme, il romore placando infine / Dei sibillini pensieri e indelicati”.

Sì, il rumore dei pensieri si arresta davanti al cadavere di una persona a cui si è voluto e con cui si è stati molto bene. Il dolore è come una lama fredda che ti penetra nelle ossa. Hai dentro una melanconia che assomiglia a un miele amaro. La parte inferiore del volto, smangiata dal tumore, è coperta dalle bende. Il biancore della fronte e gli occhi chiusi comunicano la sensazione di un sonno tranquillo. Ciao Stefano, fedele amico mio, ora riposa in pace. È il saluto che ripeto mentalmente il giorno prima dell’Epifania, gettando un mazzo di fiori gialli sulla bara inumata nella terra. Siamo nel cimitero romano di Prima Porta, ultimo approdo delle sue spoglie mortali. Ci sono tutti i congiunti della sua sparsa, eteroclita famiglia. E alcuni amici di una vita. I protagonisti di quella che lui chiamava l’amicizia alla francese, lo si è una volta e poi per sempre. Siamo affranti, attoniti, senza parole. La tomba è sul viale dei Cipressi all’altezza di una fermata dell’autobus che passa nel cimitero. Una bizzarria che lui avrebbe probabilmente apprezzato. Aveva una sensibilità particolare e piena di ironia per le distonie dell’esistenza, per quei dettagli incongrui che disvelano possibili altri sensi. Ora lui è sepolto all’altezza di una Bus Stop, partito per le vie dell’eternità.          

 

Metà 2013 – fine 2014 ► Fin dalla prima insorgenza del male che aveva aggredito Stefano ebbi un acuto e tetro presentimento. Che ebbi la malaccortezza di esternare, meritandomi gli aspri rimbrotti della moglie Ornella. Non volevo spargere pessimismo, ma subito la notizia datami da Docimo mi aveva ricordato la vicenda di un altro amico, il regista Giancarlo Nanni, colpito dal medesimo tumore e morto nel dicembre 2009, pure lui a 69 anni. Ho seguito passo passo la lunga e tormentata e sfortunata parabola della malattia di Stefano, e ho sinceramente ammirato la forza d’animo, lo stoicismo estremo con cui l’ha affrontata ed ha combattuto la sua battaglia contro ‘l’intruso’ sempre ripetendomi: “La malattia è una delle esperienze che facciamo nella nostra vita”. Dovendo obbligatoriamente ridurre il perimetro di azione della sua esistenza, Stefano si è aggrappato alla scrittura esprimendo in essa il suo potentissimo anelito alla vita. Oserei dire che mai Docimo è stato così tanto e così lucidamente scrittore come nel corso dei molti mesi trapassati seguendo l’odissea delle cure. Ci sentivamo spesso e lui mi comunicava l’ansia di sempre nuovi articoli da pubblicare sulle Reti di Dedalus. Come se da qualche parte oscuramente sentisse che non aveva più molto tempo e doveva, quindi, scrivere, scrivere, scrivere come vera assoluta ragione del suo vivere. Ed erano pezzi magnifici quelli che mi mandava, sempre tra letteratura e filosofia, in uno stile tangenziale, trasversale, decostruito, uno stile critico-creativo davvero magistrale che ogni volta leggevo con gioia e orgoglio perché arricchiva assai la rivista. Sto, infatti, ora pensando che è assolutamente necessario raccogliere tutti i suoi interventi sul Dedalo e pubblicarli in un libro o in un ebook. Ne avevamo parlato prima che la progressione del male gli togliesse anche la parola, è doveroso dare adesso forma a questa sua importantissima postrema produzione di scritti che serbavano un po’ tutti un’aria di incompiuto, di non finito, di qualcosa che rinviava ad altro ancora da pensare e da comporre. Ci sono poi i suoi testi più squisitamente letterari anche questi decisivi per profilare criticamente la sua vena di autore. Ecco allora, appunto, il Congedo d’autore (titolo non casuale) di pochi mesi fa:

 http://www.retididedalus.it/Archivi/2014/estate/LUOGO_COMUNE/2_inediti.htm

Tre pezzi di memoir che oscillano tra il 2003 e il 1989, e che richiamano idiosincrasie personali, ricordi esistenziali, luoghi, figli, amici e il suo rapporto sempre conflittuale, contrastato con la scrittura. Pezzi bellissimi che lui licenziava, però, con sufficienza, mai appagato. Mi ripeteva al telefono: “Insisto con i pezzi critici perché mi sembra che possano essere utili. I testi puramente creativi mi chiedo, invece, a chi servano e chi mai li leggerà”. Un autoscetticismo che nasceva, forse, dalla sensazione di avere avuto pochi riconoscimenti dalla critica più o meno ufficiale in rapporto alla assai alta qualità di ricerca della sua scrittura. Le sue ultime uscite su Dedalus sono per me memorabili. A partire dalla straordinaria conversazione con Gualberto Alvino in cui lui ha rievocato il tempo della sua conoscenza e frequentazione con Stefano D’Arrigo. Un testo da consegnare alle storie letterarie contemporanee per la capacità di farci rivivere la controversa personalità dell’autore di Horcynus Orca con un acuto sguardo ravvicinato, ma senza retorica o facili mitologie. E poi il testamentario componimento poetico, pubblicato a dicembre 2014, il cui incipit recita “Ti odio mellifluo che / appari sconnesso…”; e termina “… irretito per sempre / su base neurale / strabiliare per tempora nostra / per labirintiche glosse / et come forbice / in salmodiante mossa”. Un explicit elegante e sardonico degno di certe chiusure di versi di Cacciatore o Emilio Villa. Perché Stefano non ha mai cessato di ribadire la sua appartenenza all’avanguardia letteraria, epperò quella non inquadrata, un po’ anarchica, irregolare, autoironica. Faceva tutto seriamente Docimo, ma senza mai prendersi troppo sul serio. Lo animava una leggerezza di vivere, un occhio estraniato, una generosità amicale, una curiosità umana tali che non si poteva non volergli bene. Prima dell’estate mi aveva annunciato che aveva approntato un nuovo libro di poesie e lo aveva consegnato alle edizioni Robin, sperando che uscisse il prima possibile. Purtroppo non ha fatto in tempo a vederlo. Sarà, così, quando verrà edito il (primo, si spera) libro postumo suo. Lo aveva intitolato, mi disse, Corpo del testo assente, quasi divinando che potesse diventare il ‘testo del corpo assente’. Come per il Congedo d’autore adesso mi sembra che lui aveva preparato lucidamente e con cura la sua uscita di scena letteraria. Anche la sua intervista darrighiana ha un che di potentemente testamentario. Ora, rifletto, tocca a noi che restiamo di testimoniare il talento e la forza e l’unicità della sua scrittura.





Stefano Docimo a Parigi, 2012


Anni zero e primi anni dieci del XXI secolo ► Se ritorno indietro di oltre una decade gran parte dei primi anni 2000 me li rammento all’insegna di una frequentazione fondamentalmente conviviale. Stefano a partire dalla fine degli anni ’90 ha scelto una collocazione eminentemente privata. Non pubblica più, si sottrae in generale agli appuntamenti culturali, a letture e presentazioni. Ciò in parte si spiega con problemi e preoccupazioni sul fronte familiare, ma ancor più con una delle sue periodiche crisi inerenti la scrittura, che si accompagnavano a stati depressivi inerenti la sua condizione schizoide di scrittore e intellettuale da una parte e dall’altra di insegnante o maestro, come amava dire, di scuola media. Fin dai vent’anni Docimo ha oscillato tra una vocazione all’opera assoluta (il suo ur-modello dichiarato è sempre stato l’Ulisse di Joyce) e una incredulità sulla possibilità e plausibilità e congruità di un simile obiettivo. Anche la sua conoscenza con D’Arrigo ha agito più come disincentivo che come stimolo a dedicarsi alla stesura della ‘grande opera romanzesca’. Tanto forse era attirato da autori come il dublinese e il siciliano, quanto sotto sotto li reputava dei ‘mostri’ assolutamente da non imitare. Ché Stefano era di fondo un edonista, gli piaceva la vita, gli piaceva godersela con gli affetti e gli amici, i familiari e non avrebbe concepito l’idea di diventare uno scrittore monomaniaco, autorecluso nella propria casa all’inseguimento della ‘eternità letteraria’. Dunque in quegli anni ci vedevamo principalmente a Trevignano, ridente paese sulla riva del lago di Bracciano, dove con Ornella aveva acquistato una non grande, ma graziosa e confortevole abitazione con terrazza, dove si cenava in primavera e in estate, conversando a lungo e come sempre di tutto: libri, filosofia, politica, faccende personali, amici comuni. Lui si interessava ai tanti miei impegni multiartistici: teatro, letteratura, performance, scritture varie, e veniva sovente a vedere i miei lavori scenici. In quel tempo mi sembrava placato e complessivamente soddisfatto della sua vita. Lì a Trevignano si andava in un piccolo stabilimento balneare, dove si bivaccava al sole, leggendo giornali o libri e consumando gelati, mentre c’era chi armava delle barche a vela per farsi un giro sul lago. Per un periodo era diventata un’abitudine andare dopo cena ad una arena cinematografica che mi riportava la memoria di certe mie estati bambinesche-adolescenziali negli anni ’60 a Porto S. Stefano all’Argentario, dove c’era un’arena che proiettava i ‘musicarelli’ con Morandi, Little Tony, Rita Pavone, Rocky Roberts e Lola Falana o i film ‘peplum’ e naturalmente le commedie hollywoodiane con Doris Day, Cary Grant e Rock Hudson. A Trevignano non rammento bene che pellicole vedessimo, ricordo però un film di fantascienza a un certo punto quasi occultato da una inopinata nebbia serale calata sulla platea. L’umido del lago trasformò una tranquilla serata in una esperienza alla John Carpenter (do you remember Fog?).

Altro luogo dove lo raggiungevo era Monte Livata dove aveva preso una accogliente casetta, con un piccolo dehors, da cui si partiva per fare salubri passeggiate in montagna o escursioni nei dintorni, come quella al Santuario della SS. Trinità di Vallepietra, dalle parti del Monte Autore (nome ad hoc), il cui percorso di avvicinamento era crivellato di croci cristiane di ogni tipo, foggia e misura, che ci divertivamo a fotografare a go go.   

Quando nel 2006 incominciò l’avventura delle Reti di Dedalus, lo spinsi subito a ricominciare a scrivere in pubblico (in privato, in realtà non aveva mai smesso, i suoi inediti sono tantissimi). Ma la sua collaborazione nei primi anni fu sporadica, non troppo convinta. Anche se nel 2007 mi diede un testo poetico straordinario, Ribaldus, davvero degno di certi viluppi mistilingui di Emilio Villa:      

http://www.retididedalus.it/Archivi/2007/estate/Checkpoint_poetry/docimo.htm

Il cambio di passo ci fu, poi, alla fine del 2010 quando mi inviò un bellissimo “Diario d’autore”:

http://www.retididedalus.it/Archivi/2010/dicembre/PRIMO_PIANO/1_diario15.htm

Uno scritto narrativo o metanarrativo che confermava essere la vena autobiografica una dei propellenti principali e decisivi della sua migliore scrittura. Qui lui andava avanti e indietro tra l’infanzia e l’età adulta, proponendo quasi una iridescente parodia di Svevo, il cui Zeno Cosini incrociato con la maschera fiorentina di Stenterello, diventava Zero Stentini, nome alter-ego di Docimo, la cui scontraffatta coscienza liberava tracce e traccianti di scrittura in ogni direzione, effondendo una sarcastica autoanalisi per materiali spuri e divergenti, supponendo appunto il “proprio fare letterario… come una trappola o un magico nascondiglio dalla vita”. Quel dicembre 2010 è per me memorabile anche perché il giorno 30 moriva mia madre dopo una lunga malattia (Alzheimer) e il 31 ci furono i funerali. Quando tornai a casa, Stefano mi chiamò e mi convinse ad andare la sera da lui, nel suo appartamento al Flaminio, dove c’era una festicciola per l’ultimo dell’anno. Ero addolorato e abbattuto, andai un po’ di contraggenio, ma l’atmosfera familiare, il calore quieto e l’affetto partecipe delle persone mi confortò assai e mi fece sentire a casa. Il gesto di Stefano era stato fraterno e amabile, prova della sua grande sensibilità umana. Mai avrei immaginato che esattamente quattro anni più tardi avrei avuto alle 20.30 la notizia della sua morte. Il futuro è una terra incognita dove tutto è casuale e, forse, nulla lo è realmente. In ogni caso Docimo a partire da allora avviò una collaborazione assidua e preziosissima a Dedalus, intervenendo puntualmente anche alle mensili riunioni di redazione, sempre con una aria sardonica, ma attenta e pronto a proporre, a rilanciare la discussione, a incuriosirsi per i più giovani redattori e collaboratori. L’essere andato in pensione lo aveva sollevato dalle quotidiane ambasce di insegnante che molto lo assorbivano e gli aveva liberato energie intellettuali che aveva concentrato con grande slancio nello scrivere pezzi di rilevante impegno e ingegno, fortemente intrisi di riflessioni filosofiche in interazione con la letteratura andando da Merleau-Ponty a Žižek, da Marx a Badiou, a Foucault, elucubrando anche molto sulle derive concettuali ultime dell’idea di comunismo.

Io vado molto fiero di aver pubblicato all’inizio del 2013 in ebook nella collana Onyx Edizioni-Reti di Dedalus, il suo romanzo-capolavoro Il peto di Camone

( http://www.onyxebook.com/prodotto/452/ ). Che era la rielaborazione del libro tratto di scena (flugfly) che lui aveva editato nel 1986 per la collana di Dismisuratesti diretta da Gianni Fontana. Io conoscevo quel testo a cui Stefano aveva lavorato e rilavorato per anni fin dalle prime stesure tra fine dei ’70 e primi ’80 ed avevo insistito perché ripristinasse il titolo primigenio, Il peto di Camone appunto, che meglio restituiva quell’atmosfera mito-grottesca, quel segno da pastiche paradossale e indomabile da basso impero contemporaneo che lo distingueva e ne faceva un oggetto letterario eterodosso, disposto in una lingua circense-joyciana assolutamente controcorrente rispetto ai tempi attuali.





Docimo durante una performance poetica sul Ponte della Musica a Roma, settembre 2011


 Anni ’90 – XX secolo   Il decennio finale del Novecento lo rammemoro ricchissimo di iniziative, incontri, rassegne, letture e, per me, importanti spettacoli teatrali come la mia trilogia sadiana (Destinazione Sade tra il 1992 e il 1995). Ho casualmente ritrovato adesso un invito del 21 marzo 1992 al Teatro dell’Orologio dove era in programma una presentazione-performance del mio secondo libro in versi Autopia, “con interventi e letture incrociate di Simona Cigliana, Ivana Conte, Stefano Docimo, Enrico Frattaroli, Ugo Margio, Miro Renzaglia”. Nomi spuri tra teatro e letteratura, come ho sempre amato mischiare. E medito che oltre a Stefano anche Ugo oggi non c’è più (se ne è andato nell’aprile del 2009 a 62 anni), nonché Anna Di Biagio, l’editrice di Joyce&Co che mi aveva pubblicato il volume. La ‘camera verde’ della mia memoria è ormai gremita.

Docimo in quei primi anni ’90 ebbe un passaggio di vita apparentemente soltanto logistico, ma che si rivelò determinante per i suoi umori e abitudini. Lasciò la casa di Via dell’Assietta, 4 a Montesacro per trasferirsi a Via Sacchi al Flaminio. Una abitazione più ‘borghese’ per tornare a stare più vicino ai genitori. Avviandosi versi i cinquant’anni il conflitto giovanile con il padre napoletano, austero giudice della Corte dei Conti, si era stemperato ed era tempo di riposizionare il rapporto e riequilibrarlo in una dimensione più matura. Accadde però che pochi mesi dopo il suo trasloco il padre di Stefano improvvisamente morì, ciò che sembrò una beffa del destino e anche un profondo motivo di malinconia. Fu effettualmente l’abbandono definitivo della giovinezza, di quella spensieratezza e, quasi, irresponsabilità che erano pure associate alla casa di Via dell’Assietta che aveva dato ricetto al suo grande amore con la terza moglie Ornella, che era il luogo provvisto di accogliente giardino dove scorrazzavano i figli piccoli, nonché cani e gatti, che era il porto franco per tanti amici e per tante serate conviviali belle, allegre e festose. A Via dell’Assietta (che utilizzò come studio personale ancora per qualche anno) era come se continuasse ad abitare uno spirito sessantottino ribelle e anticonvenzionale, a Via Sacchi era come se il ’68 fosse morto e incominciasse un’epoca diversa.  

Quella soluzione di continuità storico-esistenzial-culturale la vedo, quindi, anche rappresentata dalle modalità con cui Stefano partecipò alle mie due intraprese antologiche di quel decennio. Al volume di Resistenze – Antologia di scritture polispoietiche (1992), Docimo contribuì con il mercuriale poemetto Santamaria, ancora pregno di spirito sessantottesco e anarco-ribelle che però si concludeva con i seguenti versi: “… è vero lasciava l’obeso ponte mollo dove piacque a lui / mostrarsi in / pubblico per equiparare le colpe dei padri / cadute sui / glabri figli / mentre leggeri come una piuma trapassavano / dal ponte mollo / alla via / flaminia”.  Il ‘ponte mollo’ è a Roma un modo ammiccante-gergale di chiamare Ponte Milvio, nei cui pressi, dalla parte di via Flaminia, giusto in quel tempo Stefano tornava a vivere. Legando nel testo poetico le ‘colpe’ paterne (sia quelle del proprio padre, che quelle sue, a sua volta genitore) sul trapassare generazionale dei figli (lui stesso e, adesso, i suoi tre figli) in un nodo conflittuale problematico senza evidenti soluzioni. Affidando la sua presentazione ‘metacritica’ a un testo acrostico sul suo nome firmato nel 1987 da Mario Lunetta.

Un lustro più tardi promossi e curai il volume Resistenze 2 – memorie random per il prossimo millennio (1997, con prefazione di Giorgio Patrizi), e Stefano ‘resisteva’ appunto a darmi dei testi, nel tempo intercorso aveva accumulato una certa stanchezza e un notevole disincanto. Io insistetti finché lui con una magistrale mossa del cavallo mi inviò un componimento iterato e moltiplicato in dieci tavole verbovisive con effetti di spaesamento e di vere e proprie cancellature alla Isgrò. Quasi una dichiarazione patente di sfiducia nella (sua) scrittura che si tramutava appunto in macchia visiva, in testo terremotato, in autocancellazione grafica. Resisteva, comunque, una monotraccia verbale in 13 versi che incominciava così con irridente rima baciata: “spherical dreamer, sfinge ausonica e spermatozoo in mutande / terribile ti fu la vita, trapassata a spray di tequila, in enfasi costante, …”. Con l’explicit che recitava: “ti sia lieta questa fine inerme, animoso space, spanking leader”. Ossia un leader veloce, trotterellante che si abbandona senza reagire alla fine, forse anche a una fine dello scrivere, della scribendi voluntas. Ricordo giusto che ad una delle presentazioni dell’antologia, Stefano dichiarò, apertis verbis, che non ci credeva più a quel tipo di militanza poetica, che lui si ritirava, che lasciava spazio ad altri che ancora volevano andare avanti. La crisi era esplosa e durò all’incirca un decennio. Stefano dopo di allora smise di pubblicare in rivista o antologia, cessò quasi del tutto di apparire in letture, festival, manifestazioni, lesinava anche la sua presenza alle presentazioni altrui. C’era stato come un forte ribaltamento di valori e di priorità nella sua vita, e il privato aveva ripreso il sopravvento. Lui che aveva sempre vissuto e percepito il suo lavoro di insegnante nella scuola media come un sacrificio, se non una condanna, ebbe allora uno slancio forte di passione e di impegno verso l’insegnamento, forse trovava nei suoi piccoli allievi un risarcimento a certe delusioni o disillusioni sia letterarie che politiche. Il post-’89, la caduta dei socialismi reali, la fine del Pci, il tramonto dell’ideologia comunista credo che avessero lasciato una traccia profonda (e depressiva) su di lui, che avessero dischiuso un vuoto di senso e di orientamento, che non poteva non avere ricadute pure sulla sua visione materialistica della scrittura. Eclissatosi il tempo dell’utopia, si eclissava anche il bisogno della scrittura in pubblico. Meglio ritirarsi pensò in una dimensione privata tra famiglia e pochi fedeli amici (quorum ego, nonostante tutto il mio, di contro, iperattivismo).          

      

Anni ’80 – XX secolo   Quel decennio nella mia memoria è come se si dividesse in due. Nella prima metà degli anni ’80 continuavamo a frequentarci e a leggerci i nostri testi inediti, mentre nel frattempo facevamo vite diverse. Lui insegnava, io mi ero tramutato in un critico teatrale, pressocché a tempo pieno. All’inizio della decade, di ritorno dal servizio militare, avevo in ogni caso cercato di dare vita (senza mezzi) ad una epifanica e fantasmatica rivista Ri Scontri – in busta (che spedivo appunto in una busta a sacchetto coi testi sciolti all’interno) assieme a Simona Cigliana e Alberto Giacchetti. Stefano aveva partecipato a qualche riunione a casa di Simona, poi si era defilato, giustamente poco convinto. Di fatto partorimmo faticosamente un numero unico (uscito nel dicembre 1985) che tuttora conservo come un incunabolo. Contiene, tra l’altro, un mio racconto Sturm und Abzucht – chiavica e tempesta (poi variamente riveduto e corretto) che in un contesto fantascientifico e fantapolitico comico-satirico svolgeva anche una autoparodia degli incontri praparatori della rivista. E c’era così anche una beffarda cripto-apparizione di Docimo così descritto: “Stefadedalo, turco-napoletano e joyciano pentito e dipsomane e assenteista cronico. Un bukoskista militante, anche di fatto per via di uno sbrego sul culo, che pare non c’entrasse con faccende gaye, ma piuttosto con la sua partecipazione alla guerra della Fistola Afasica”. Descrizione che, tra l’altro, faceva un derisorio riferimento ad un intervento chirurgico che aveva subito Stefano qualche anno prima per una fistola perianale.    





Nel frattempo, comunque, Docimo produceva testi in versi e in prosa in copiosa quantità e allo scoccare dei quarant’anni sentì l’esigenza di venire allo scoperto. Così nell’aprile del 1985 pubblicò, presso Il Ventaglio, il suo primo libro di poesia Ponti d’oro, con la prefazione di Mario Lunetta e la riproduzione in copertina di un bell’acquerello della moglie Ornella che si intitolava, neanche a farlo apposta, “Ponte Milvio”, luogo evidentemente mitopoietico e destinale della coppia. Rileggo la dedica che mi vergò e che oggi mi commuove: “A Marco Palladini, amico dell’interno-esterno, turlupinatore finissimo e interlocutore attento, questo libello dedica con immutato ardore il suo affezionatissimo Stefano Docimo”. Il ‘turlupinatore’ apprezzò assai e senza scherzi il volume e ne scrisse una recensione che uscì l’11 giugno 1985 sul quotidiano L’Umanità col titolo “Lo spartiacque del Sessantotto in frantumi”. Riproduco qui il mio articolo per intero:

 

“La sezione d’apertura del libro di esordio in versi di Stefano Docimo si intitola emblematicamente ‘1968’. Fatidica data spartiepoca in cui, come ha rammentato di recente su Paese Sera Renzo Paris, le razzenti pulsioni para-dannunziane di estetizzazione della politica e dell’ideologia aggredirono e emarginarono le tendenze alternative di politica estetico-letteraria, delegittimando le loro residue pretese circa l’autonomia dell’arte. Lo sa bene Docimo che si affacciò alla ribalta poetica, in quell’arco di tempo, proponendosi come autore verbovisivo sulle pagine della rivista ‘Marcatre’, diretta da Magdalo Mussio, ove si consumarono gli ultimi fuochi creativi della neoavanguardia, prima che essa fosse travolta dal vento dell’Est sessantottesco, dall’onda montante dell’italomaoismo. Anche chi, del resto, come Nanni Balestrini provò a fare lo spregiudicato ‘cavalcatore della tigre’. ci rimise le penne, finendo poi invischiato nei gorghi kafkiano-giudiziari degli anni di piombo.

Ai corifei sperimentalisti, comunque, non andò male: com’è noto, da Giuliani a Eco, da Sanguineti a Porta, a Arbasino, essi pervennero a una solida presa di potere all’interno dell’establishment culturale. Di loro, oggi, mi colpisce in negativo la memoria corta, la rimozione di quei motivi permanenti di radicale ricerca critico-formale che contrassegnarono la stagione della neoavanguardia ben oltre il giusto e normale esaurirsi della sua contingente carica propulsiva.Talché, ad esempio, mentre tuttora si celebrano i fasti di un romanzo furbescamente professorale come Il nome della rosa, si ignora letteralmente un interessantissimo incunabolo post-joyciano quale il Dottor Sottile, pubblicato l’anno scorso da Francesco Saba Sardi.

Tornando al libro di Docimo, trapela in quel primo comparto la coscienza ironico-dolente degli esiziali effetti prodotti dal prevalere sull’arma critica della critica in armi. Dal fragoroso impatto derivò un senso di vuoto, di obnubilamento, uno stato di sospensione cronica (‘... siamo pezzi da manuale museografico, / invecchiati senza crescere’), per la cui catarsi è necessitato un non breve periodo di ripensamento, di riorientamento, mentre intanto l’ultimo decennio scorreva dominato da autori innamorati quanto effimeri, e dalla rapida consunzione dei modelli di massa del rapporto col pubblico.

Ponti d’oro costituisce, allora, una meditata opera di riemersione letteraria, ove la neoconquista di uno spazio di scrittura si connota quale deposito di antiche vocazioni, esperienze, assorbimenti espressivi, e quale giacimento di mutate e più complesse tensioni, di fecondo, non scontato rimescolamento di traiettorie poetiche ‘liminari’.

I versi di Docimo, in prima istanza, mi sembra che evidenzino, sia pure tangenzialmente, un raccordo con i piani situazionali della ‘scuola romana’ degli anni ’70, per via dell’esposizione di minute scaglie del personale, da freddi rettili più tentati che tentatori, e della biograffitazione delle incrinature e degli iati di un Ego sempre differito, in fuga. Si intravvede ciò nei mascherati, teneri omaggi alla madre (‘Sulla nave Goethe’), nello stazionamento in paterni appartamenti, nei traslochi di case e di compagne, negli interscambi con i figli cui ‘approssimarci coevi’, nelle dubitative e civettuole autodenunce di parassitismo, nei trastulli fra giochi da tavolo e ebrezze alcooliche, nei sarcastici rispecchiamenti con junghiani fumanti e/o fumati.

La conduzione poetica è, qui, sempre sorniona, proclive a rapidi scarti, ai ritmi franti, agli addensamenti lessicali, omofonici e allitteranti (‘... si fa per dire / per indire e scandire...’), così in fondo opacizzando e devalutando le ‘tranches’ esistenziali frammezzo allo sfrigolare dei significanti.

Nella sezione ‘Fena’, il testo si rapprende attorno a una figura fantasmatica, variazione sapida di un classico femminino, su cui si distillano metafore topico-corporee che istigano il disegno della mappa capricciosa di una donna-città la quale sembra tirare le fila ‘... d’un mondo antropomorfico / sommerso dalla fuliggine e dalla bruma’. La materia poetica si secerne per movimenti e stacchi analogici e paralogici, lasciando trasparire la lezione tardo-ermetista (si pensa a Gatto e, per il gusto epigrammatico, a Sinisgalli), sino a esplorarsi, come osserva il prefatore Mario Lunetta, in divoranti sequenze paratattiche nelle composizioni di respiro più lungo, ‘Liebeshandel’ e ‘A Damaste’, dove le torsioni sintagmatiche si arronzano per cataloghini e stupidari flaubertiani, per nervosa parodia aulica e per saettanti iconismi puro Huysmans.

È, comunque, nel capitolo eponimo della raccolta che aggalla e si precisa l’identità celata o ‘forclusa’ del poeta, i ‘Ponti d’oro’ tradendo un legame fantastico-ombelicale con le vie ‘supertiberine’ della metropoli nativa: Roma. E quivi spontaneamente si impone l’ascendente nome di Giorgio Vigolo, della sua straordinaria adesione e disponibilità alla meditazione lirica nei confronti delle prismatiche visioni ora realistiche ora metafisiche nei confronti della Città Eterna. Docimo mi pare un vigoliano dopo-l’avanguardia, impossibilitato a corrispondere al plastico espressionismo, all’aristocratico tardoromanticismo del grande Giorgio, epperò come lui, sedotto dall’avvitarsi di itinerari immaginari, dalla traslazione, a partire dai candidi parapetti di marmorei ponti, verso allucinatori percorsi storico-esotici.

Di nuovo e di diverso c’è in Docimo la serena coscienza e la rappresentazione di una inarrestabile ‘crisi del paesaggio’. Si percepisce, così, il senso di un corrompimento, di un offuscamento della qualità magico-evocativa primaria dello stratificato, barocco orizzonte cittadino, sui cui territori si va per l’appunto apparecchiando ‘... la vasta tovaglia / d’una irreversibile macchia’”.





Dopo Ponti d’oro e il cospicuo apprezzamento riscosso nell’ambiente poetico capitolino della poesia d’ascendenza neoavanguardista, la presenza pubblica di Stefano subisce una prepotente accelerazione. Nel 1986 pubblica, come già rammentato, il romanzo tratto di scena (flugfly), sempre con una prefazione di Lunetta. Nel 1987 esce da Hetea La città di Liebeshandel, uno libro composito che mescola testi poetici, narrativi, parateatrali. Nella sua prefazione Raffaele Manica dice che il volume “… accoglie in sé i due archetipi del viaggio e dell’assedio, ma il gioco degli stili di Docimo ha l’intensità di un assalto”. È un libro secondo me molto importante, non adeguatamente recepito. “Liebeshandel” tra l’altro era il titolo di un lungo testo poetico di Ponti d’oro datato 1975. L’intertestualità e la diacronia sono sempre state delle mosse stilistiche predilette da Stefano. Che si getta in quegli anni in parallelo in una frenetica attività di organizzatore di kermesses poetiche. Ricordo le molteplici edizioni di una rassegna ai Magazzini Generali all’Ostiense, coordinata con Lunetta e Franco Cavallo che ebbe il suo momento apicale in una affollatissima festa-reading sulla terrazza del locale che si svolse, mi pare, nel 1989. Rammemoro pure gli incontri bilaterali tra due autori che poi organizzò presso la Biblioteca comunale di Via Ostiense, ripresi in video, che furono una sorta di antologia ‘live’ del meglio della scena poetica eterodossa romana e non soltanto.

Furono quelli gli anni di maggiore effusione sociale di Stefano, come provvisoria soluzione alle sue chiusure depressive. Rammento pure le tante serate a casa sua a Via dell’Assietta, serate festanti, scoppiettanti, molto piacevoli tra soggiorno e giardino, con i piatti squisiti preparati da Ornella, le abbondanti libagioni, le chiacchiere e le risate, le canzoni napoletane intonate con la chitarra da Achille Serrao, e i racconti dei suoi numerosi viaggi fatti da Gianni Toti, accompagnato dalla moglie ungherese Marinka. E c’erano ancora Lunetta e la consorte Pia, Maria Jatosti con Paolo Memmo, Ferdinando Falco, Giorgio Weiss, Vito Riviello e tanti altri ancora. Io allora lavoravo a Paese Sera, avevo pubblicato il mio primo libro di poesia Et ego in movimento (1987) con la prefazione di Franco Cordelli, stavo incominciando a scrivere per il teatro. Erano anni turbinosi, pieni di iniziative reciproche, più dissonanti che collimanti, invero, ma la nostra amicizia non venne mai meno. Era dispersa in un circuito poetico-comunitario che viveva un periodo affluente e felice, ma restava salda a perimetrare un affetto e una attenzione che hanno sempre connotato il cemento della nostra, effettuale fraternità.

 

Anni ’70 – XX secolo   Nei miei libri I Rossi e i Neri (con M. Renzaglia) e Non abbiamo potuto essere gentili (2007) ho abbondantemente raccontato e ripercorso i miei anni ’70, la mia strenua militanza politica nella cosiddetta sinistra extraparlamentare ed estremista di Avanguardia Operaia. Il dopo-militanza, un periodo doloroso, faticoso, confuso vide nel 1977 l’avvio di una collaborazione giornalistico-culturale con il giornale socialdemocratico L’Umanità. Fu proprio lì, nel giugno di quell’anno che conobbi Docimo. Il caposervizio cultura era niente meno che Diego Cugia: io ero stato indirizzato a lui da mio cugino Emanuele che era un suo amico. Mi recai in redazione con un articolo politico-filosofico a cui avevo lavorato lungamente, ma con molti dubbi e che, con mia sorpresa, Cugia decise di pubblicare col titolo “Il sogno socialista di Lukacs è sfumato nelle società dell’est”. In quella redazione c’era anche Enrico Rondoni, poi vicedirettore del Tg5 berlusconiano. Ma l’incontro fatale fu con Stefano che, già a tutta prima, non capii che ci facesse nei ranghi del quotidiano del Psdi. Aveva un’aria arruffata, ma bonaria e sorridente, esibiva un gran barbone da ‘compagno’ che spesso si accarezzava, indossava però un corretto abito blu completo e ‘professional’ su una camicia scozzese a quadretti bianchi e rossi. Incominciammo a parlare e scattò subito un’empatia, un cortocircuito a pelle: come se ci ri-conoscessimo diversi e comunisti in partibus infidelium. Quasi una agnizione, tal ché tornai a trovarlo più di una volta, pranzando assieme. Stefano che, peraltro, stava in aspettativa (pagata) dalla scuola, grazie ai meccanismi peculiari della ministerialità democristiana di allora, non durò a lungo nella redazione dell’Umanità. Vi lavorò qualche mese, giusto per licenziare articoli e articolesse di gran valore, tra cui un doppio paginone che incrociava Nietzsche e Pasolini, che mi parve illuminante. Poi non rammento che cosa combinò, fatto sta che lo mandarono via. Io, invece, continuai sempre più assiduamente a collaborare, continuando a sorprendermi sia della mia resistenza e sia della loro tolleranza (soprattutto del direttore Ruggero Puletti che, bontà sua, mi stimava).

Con Stefano l’amicizia divenne subito intensissima. Varie volte ricordo che si andava di giorno a mangiare a via del Boschetto, da Sabatino detto ‘er mentuccia’, con noi c’era già pure Ornella, che era entrata da poco nella sua vita. Ma soprattutto prese più avanti ad esaltarsi lungo intere nottate passate a casa sua a Via dell’Assietta, a parlare di tutto, ma soprattutto ad almanaccare di sogni e bisogni letterari. Poi lui all’alba mi riaccompagnava con la Dyane azzurra, perché io allora non avevo l’auto. Stefano allora beveva tanto, soprattutto whisky, ma lo reggeva bene, non l’ho mai visto veramente ubriaco, al più alticcio. La fase euforica dell’alcool gli scioglieva la favella e mi raccontava del suo esordio letterario alla fine degli anni ’60 come autore verbovisivo sulle pagine della bellissima rivista d’avanguardia “Marcatre” diretta da Magdalo Mussio. La sua pubblicazione più importante era stata nel ’69 e si intitolava Mixage Zero. Poi mentre la sua vita privata si svolgeva alquanto incasinata e turbolenta, cambiando tre mogli, facendo tre figli e passando da un trasloco all’altro, aveva partecipato nel 1975 alle letture di poesia alla galleria La Tartaruga organizzate da Elio Pagliarani e poi, proprio nel ’77, al Laboratorio di poesia diretto dall’autore della Ragazza Carla.

A volte con la mia fidanzata di allora, Susanna, nei fine settimana lo andavo a trovare a Vallelinda, una sorta di comprensorio residenziale sulla Flaminia, vicino a Castelnuovo di Porto dove lui insegnava, nella casa dei genitori di Ornella. Rammento le passeggiate tutti insieme a Villa Ada, con il cane di Ornella, Pippo, e la cagna di Susanna, Carlotta, che tentavano improbabili e comici accoppiamenti erotici (facendo una sorta di ‘sessantanove’ canino). Nell’estate del 1978 facemmo pure una simpatica vacanza assieme nella casa di campagna di Susanna, a Osimo nelle Marche. C’erano anche i due figli piccoli di Stefano, Leonardo e Giacomo, che chiamavamo Giacomino e che si era fissato col biberon, detto ‘bibo’, che lui la mattina, prima di andare al mare verso le spiagge di Sirolo o Numana, provvedeva accuratamente a nascondere. Poi regolarmente la sera lo rivoleva prima di andare a letto: solo che aveva dimenticato dove lo aveva occultato. Così, cominciava tutte le sere una collettiva caccia al tesoro per trovare il ‘bibo’ che assumeva talora le parvenze di un grottesco psicodramma, col bimbo disperato e piangente senza la sua ‘coperta di Linus’. Lepidezze estive da comitiva spensierata e scombiccherata, eppure erano gli ‘anni di fuoco’ della lotta armata, dell’assassinio di Aldo Moro. Quando ci rifletto mi pare di comprendere che i livelli di coscienza attraverso cui fluiscono le evocazioni di epoche passate sono molto diversi ed eterogenei, e che si poteva essere molto felici e divertiti e colmi di beatificante eros anche in tempi assai disgraziati e politicamente e socialmente duri come gli anni ’70. La realtà non è mai monodimensionale, è sempre multiforme e pluristratificata (i ‘mille piani’ di cui parlano Deleuze e Guattari), imprendibile e incomprensibile da un unico punto di vista (o svista).





Docimo nel 1977


Pure di questo parlavamo nelle nostre nottate alcooliche degli anni ’70 con Stefano che mi raccontava delle sue fughe sessantottesche da una situazione familiare che lo soffocava e ossessionava; del periodo che aveva trascorso nella baracca di Valentino Zeichen al Borghetto Flaminio, dove aveva pure lui fatto in un certo senso il barbone, mentre il poeta di Area di rigore disapprovava i suoi orientamenti letterari e lo rampognava: “A te Joyce t’ha rovinato il cervello”; di certa sua inclinazione all’escapismo un po’ alla Bukowski e per allergia alla vita borghese, mai però condotta sino in fondo; dell’intermittente, circospetto rapporto col suo ingombrante vicino di casa a Via dell’Assietta, ovvero Stefano D’Arrigo, l’autore magno e ispido dell’Horcynus Orca, splendidamente rievocato (come detto) lo scorso ottobre su Dedalus. Tra i più cari amici dell’adolescenza di Stefano c’era pure Bruno Spirito, nipote del filosofo Ugo. Docimo me ne parlava variamente e mi diede da leggere anche un interessante romanzo di Bruno intitolato Zeitnot. Poi accadde che lui incominciò ad avere rapporti anche abbastanza intensi con la Fondazione Ugo Spirito, che era però tutta animata e gestita da professori fascisti, dediti a magnificare acriticamente il teorico del corporativismo del regime mussoliniano. L’interesse di Stefano per il filosofo di La vita come ricerca, lo comprendevo poco e me ne tenevo a distanza, pur se ammettevo che la sua statura filosofica era notevole e non poteva essere ridotta alla sua condotta di firmatario del Manifesto degli intellettuali fascisti. La sua cotta per lo Spirito-pensiero durò per un po’, poi via via declinò e nel proseguio del nostro rapporto mi pare che non ne parlammo più.                           

Il clima fervido e pulsante e contraddittorio di quegli anni giovanili lo richiamai, quindi, tempo dopo in una poesia di Et ego in movimento quando feci una satirica e, se si vuole, ‘turlupinante’ sovrapposizione tra Docimo e il poeta Prosdocimo di Il Turco in Italia di Rossini:

 

“… un bel turco innamorato / un poeta bastonato”. In tal chiusa / Felice fosti siderato. In hoc / signo di Prosdocimo triaffamiliato / e babbus con tanto di ruolo didattico / e conforme. Come alla riffa intento / a berlingare abbindolare cartacei / ermafroditi e flatulenti condomini / scopofili del cetaceo di glossa / allogena anzi Alìgena. Lo tuo stigma / fu forse tra i presagi di Zaida / chiromante la zingara rampante / nonché zagnotta – quanta basta che / ce gusta –. Di lei il sospiroso / tormentone amoroso compulsavi con / fare di demiurgico blagueur. ’Na / ricca shakerata superalcoolica e / oplà Selim riciccia con la schiavotta / sputamaro Narciso deluso e / Fiorilla ciliegiona torna da don / Geronio testa ’e minchia  finito / becco nel pandemonio. / Sarà poi stato chilosà per / obbligatorio contravveleno a ’sto / modello oggimperante d’inciprignito / pappus che riprosdocimato sei come / el poet multigrafo e vocalaborioso / che rumina distilla agudezas / di san vanguardia già garrotata dai / meschinelli dell’ortobiblìa corsiva. / Sono – si dice – piroette / postreme prima della resa. / Ma di chi? è questo – concedete – / l’unico busillis degno d’interesse.

 

Ora che c’è stata la resa fatale di Stefano, l’unica cosa per me degna d’interesse è la lunga sequenza di ‘piroette postreme’ letterarie e critico-filosofiche che ci ha lasciato. Anche se la sua presenza umana di poeta della contraddizione e dell’autocontraddizione era ed è, per me, insostituibile e un’amicizia come la sua mi mancherà per il resto della vita.

                       

 

 

(gennaio 2015)




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