LETTERATURE MONDO
CHATEAUBRIAND
Il fondatore di un nuovo umanesimo tra storia e poesia

      
Einaudi ha pubblicato una nuova traduzione di “Genio del Cristianesimo” con la peritissima curatela critica di Mario Richter. Centinaia di pagine di note e di dotte glosse per penetrare nello spirito di un’opera capitale dove brilla un’intelligenza più inclusiva della vicenda umana e del meraviglioso della vita. Continuare a fare i conti con lo scrittore francese è un perdurante stimolo della ricerca dell’identità nostra e della nostra Europa.
      




   

 

di Ugo Piscopo 

 

 

Giovanni Macchia, per spiegare l’avvolgente e forte suggestività della scrittura e dell’immaginario di Chateaubriand, diceva che tutto dipendeva dal fatto che noi ce lo troviamo puntualmente accanto sui sentieri del meraviglioso, assorto in una malinconica contemplazione della morte, inquisita non come ce la prospettiamo ordinariamente quale estremo confine o incidente dell’esistenza, ma come opportunità massima e preziosa per entrare nei segreti intimi del tutto, per trasformarsi l’uomo in ombra partecipe delle verità fondamentali ed eterne. E Diego Valeri, non uno dei massimi poeti del Novecento, ma uno dei più delicati e sobri, fine intenditore della civiltà di Francia, tanto da scrivere in proprio in francese con riconoscimenti di alto profilo al di là delle Alpi, in un tracciato con antologia degli autori francesi più significativi, affermava che Chateaubriand  non è un ingegno critico alla De Staël, bensì “un genio inventore e creatore”, una “figura morale nuova” nella letteratura e nel suo tempo, di cui ha interpretato e implementato gli atteggiamenti più genuini e più lievitanti, come la rivolta contro le convenzioni letterarie e la rivalutazione degli appelli segreti e complessi della vita quotidiana di tutti.

Con Chateaubriand non possiamo non continuare a fare i conti tuttora. Soprattutto oggi, sotto lo stimolo della ricerca dell’identità nostra e della nostra Europa e d’impulso della necessità di trovare spiegazioni in un’intelligenza immune da schematismi ermeneutici e da rigidità di prospettive unidirezionali e banalmente costruttivistiche. Oltre tutto, sotto la spinta drammatica degli insorgenti e dilaganti fondamentalismi, ci incalza da vicino il dovere di riflettere sulla religione, come risorsa vitale e come espressione della domanda di inclusività nella storia e nella civiltà umane.

In tale contesto, non si può non salutare come opportuna la rilettura di Chateaubriand proposta da Einaudi nella collana dei “Millenni”: Genio del Cristianesimo, a cura di Mario Richter, Torino 2014, pp. 878, dove la religione, appunto, è la questione centrale e divisiva.





Il denso, monumentale, elegante volume contiene, oltre a una nuova traduzione italiana del testo francese, un’introduzione di circa cento pagine, che da sole potrebbero costituire una guida utile e intrigante all’approccio e allo studio di Chateaubriand nel suo complesso e di quest’opera in particolare, un apparato della biografia dell’autore e della cronologia delle opere, un orientamento essenzializzato e aggiornato della bibliografia critico-saggistica, più di centocinquanta pagine di note rilasciate dall’autore su Génie du Christianisme e dintorni, cento pagine del curatore di dotte e pertinenti glosse a margine del lavoro.

Nei fatti, l’operazione portata avanti da Mario Richter è molto, molto di più di un invito alla rivisitazione chateaubrandiana o di introduzione di qualche (sofistica) variante interpretativa e/o linguistica del testo in questione: è, invece, una proposta seria, articolata, lavorata di avviare finalmente un discorso nuovo ad altezza della sensibilità e delle situazioni in movimento nella realtà del nostro tempo, e di ricontestualizzare le vicende umane e intellettuali dell’autore in una fase molto mossa e germinante del gusto e del pensiero nell’Europa sospesa tra la saturazione delle certezze ottimistiche di marca illuministica, i ripiegamenti neoclassici sui valori, sulle misure e sulle certezze della civiltà greco-latina, le aspettative di cambiamenti radicali, quasi rivoluzionari, attraverso la liberazione dalle maglie strette di una ragione autoritaria e dittatoriale quale quella dei philosophes, come più tardi è stato sottolineato dai francofortesi.

Tutto ciò si cala in concreto nei risultati conseguiti. Il “millennio” einaudiano, infatti, si costituisce in maniera molto convincente su un asse di serietà, di sobrietà e soprattutto di scientificità praticato da un francesista di consolidata familiarità e di perfezionata attrezzatura tecnica, quale è il curatore, che ha tenuto la cattedra di letteratura francese presso l’Università di Padova per un trentennio, dove è stato preceduto da quel Diego Valeri, a cui ci si è di proposito richiamati sopra. Senza dire che a questo studioso si devono delle preziose curatele, della puntuali e belle traduzioni, delle ricerche indirizzate in particolare all’avvicinamento delle punte fra modernità e cultura francese di fine Ottocento e del primo Novecento.

In questo caso, la serietà si allarga reticolarmente nel discorso di fondo, che è quello di inquisire le vicende dell’autore e il senso complessivo di Génie du Christianisme come in un laboratorio laico, immune da precostituzioni e disinfestato rigorosamente dei germi del panegirismo e dell’apologismo, per poter osservare in assoluta autonomia tutto il complesso intreccio che lega strettamente Chateaubriand a uno Zeitgeist connotato da impazienza (feroce) nei confronti degli schemi e degli scolasticismi, pronto a prestare cedevole ascolto ai richiami e agli echi delle origini e a verificare i valori sul terreno accidentato e irrefutabile del vissuto e della quotidianità, che sono sempre gli stessi e sempre nuovi, fondamentalmente policordi e imprevedibili negli allacciamenti delle antitesi, che richiedono quindi atteggiamenti flessibili, non esclusivi, creativi. L’equanimità e l’obiettività dell’indagine giunge quasi sulle soglie della deenfatizzazione e della demitizzazione della figura di Chateaubriand, quale ci è stata consegnata dalle apologie del passato, per far venire fuori l’uomo, che è in Chateaubriand, e che, in quanto tale, non può non essere al di là dei limiti, degli interessi particolari, delle passioni, dei calcoli, come nel caso degli intrecci di dialogo fra lo scrittore e Napoleone.





François-René de Chateaubriand (1768-1848)


Tanto rigore si fa garante della ricostruzione in positivo delle audacie, degli scandagli nel mistero e nella funebrità, della fondazione da parte di Chateaubriand di un nuovo umanesimo “insieme cattolico e popolare, sintesi di ragione e fede, di storia e poesia” (p. XCI). E ad analogo rigore è ispirata la versione del testo francese in italiano, estremamente cauta e avveduta, che, intanto, si concede il piacere di raccontare ed esporre con gradevolezza e levità, come nel seguente passo, dalle inflessioni fabulatorie e dagli inattesi lampeggiamenti aforistici, dedicato alla natura del mistero: “Nella vita non c’è nulla di bello, di dolce, di grande se non le cose misteriose. I sentimenti più meravigliosi sono quelli che ci danno un’agitazione un po’ confusa: il pudore, l’amore casto, l’amicizia virtuosa sono pieni di segreti. Si direbbe che i cuori che si amano si capiscano senza tante parole rimanendo soltanto socchiusi. L’innocenza, a sua volta, che non è altro se non una santa ignoranza, non è forse il più santo dei misteri? L’infanzia è così felice solo perché non sa nulla, la vecchiaia così miserabile solo perché sa tutto; fortunatamente per essa, quando finiscono i misteri della vita, cominciano quelli della morte” (p. 17).   

 

   




Scarica in formato pdf  


   
Sommario
Letterature Mondo

Il contatore dei visitatori Shiny Stat è attivo da dicembre 2006