di Ugo Piscopo
Giovanni Macchia, per spiegare l’avvolgente e forte
suggestività della scrittura e dell’immaginario di Chateaubriand, diceva che
tutto dipendeva dal fatto che noi ce lo troviamo puntualmente accanto sui
sentieri del meraviglioso, assorto in una malinconica contemplazione della
morte, inquisita non come ce la prospettiamo ordinariamente quale estremo
confine o incidente dell’esistenza, ma come opportunità massima e preziosa per
entrare nei segreti intimi del tutto, per trasformarsi l’uomo in ombra
partecipe delle verità fondamentali ed eterne. E Diego Valeri, non uno dei
massimi poeti del Novecento, ma uno dei più delicati e sobri, fine intenditore
della civiltà di Francia, tanto da scrivere in proprio in francese con
riconoscimenti di alto profilo al di là delle Alpi, in un tracciato con
antologia degli autori francesi più significativi, affermava che Chateaubriand non è un ingegno critico alla De Staël, bensì
“un genio inventore e creatore”, una “figura morale nuova” nella letteratura e
nel suo tempo, di cui ha interpretato e implementato gli atteggiamenti più
genuini e più lievitanti, come la rivolta contro le convenzioni letterarie e la
rivalutazione degli appelli segreti e complessi della vita quotidiana di tutti.
Con Chateaubriand non possiamo non continuare a fare
i conti tuttora. Soprattutto oggi, sotto lo stimolo della ricerca dell’identità
nostra e della nostra Europa e d’impulso della necessità di trovare spiegazioni
in un’intelligenza immune da schematismi ermeneutici e da rigidità di
prospettive unidirezionali e banalmente costruttivistiche. Oltre tutto, sotto
la spinta drammatica degli insorgenti e dilaganti fondamentalismi, ci incalza
da vicino il dovere di riflettere sulla religione, come risorsa vitale e come
espressione della domanda di inclusività nella storia e nella civiltà umane.
In tale contesto, non si può non salutare come
opportuna la rilettura di Chateaubriand proposta da Einaudi nella collana dei
“Millenni”: Genio del Cristianesimo,
a cura di Mario Richter, Torino 2014, pp. 878, dove la religione, appunto, è la
questione centrale e divisiva.
Il denso, monumentale, elegante volume contiene,
oltre a una nuova traduzione italiana del testo francese, un’introduzione di
circa cento pagine, che da sole potrebbero costituire una guida utile e
intrigante all’approccio e allo studio di Chateaubriand nel suo complesso e di
quest’opera in particolare, un apparato della biografia dell’autore e della
cronologia delle opere, un orientamento essenzializzato e aggiornato della
bibliografia critico-saggistica, più di centocinquanta pagine di note
rilasciate dall’autore su Génie du
Christianisme e dintorni, cento pagine del curatore di dotte e pertinenti
glosse a margine del lavoro.
Nei fatti, l’operazione portata avanti da Mario
Richter è molto, molto di più di un invito alla rivisitazione chateaubrandiana
o di introduzione di qualche (sofistica) variante interpretativa e/o
linguistica del testo in questione: è, invece, una proposta seria, articolata,
lavorata di avviare finalmente un discorso nuovo ad altezza della sensibilità e
delle situazioni in movimento nella realtà del nostro tempo, e di
ricontestualizzare le vicende umane e intellettuali dell’autore in una fase
molto mossa e germinante del gusto e del pensiero nell’Europa sospesa tra la
saturazione delle certezze ottimistiche di marca illuministica, i ripiegamenti
neoclassici sui valori, sulle misure e sulle certezze della civiltà greco-latina,
le aspettative di cambiamenti radicali, quasi rivoluzionari, attraverso la
liberazione dalle maglie strette di una ragione autoritaria e dittatoriale
quale quella dei philosophes, come
più tardi è stato sottolineato dai francofortesi.
Tutto ciò si cala in concreto nei risultati
conseguiti. Il “millennio” einaudiano, infatti, si costituisce in maniera molto
convincente su un asse di serietà, di sobrietà e soprattutto di scientificità
praticato da un francesista di consolidata familiarità e di perfezionata
attrezzatura tecnica, quale è il curatore, che ha tenuto la cattedra di
letteratura francese presso l’Università di Padova per un trentennio, dove è
stato preceduto da quel Diego Valeri, a cui ci si è di proposito richiamati
sopra. Senza dire che a questo studioso si devono delle preziose curatele,
della puntuali e belle traduzioni, delle ricerche indirizzate in particolare
all’avvicinamento delle punte fra modernità e cultura francese di fine
Ottocento e del primo Novecento.
In questo caso, la serietà si allarga reticolarmente
nel discorso di fondo, che è quello di inquisire le vicende dell’autore e il
senso complessivo di Génie du
Christianisme come in un laboratorio laico, immune da precostituzioni e
disinfestato rigorosamente dei germi del panegirismo e dell’apologismo, per
poter osservare in assoluta autonomia tutto il complesso intreccio che lega
strettamente Chateaubriand a uno Zeitgeist
connotato da impazienza (feroce) nei confronti degli schemi e degli
scolasticismi, pronto a prestare cedevole ascolto ai richiami e agli echi delle
origini e a verificare i valori sul terreno accidentato e irrefutabile del
vissuto e della quotidianità, che sono sempre gli stessi e sempre nuovi,
fondamentalmente policordi e imprevedibili negli allacciamenti delle antitesi,
che richiedono quindi atteggiamenti flessibili, non esclusivi, creativi.
L’equanimità e l’obiettività dell’indagine giunge quasi sulle soglie della
deenfatizzazione e della demitizzazione della figura di Chateaubriand, quale ci
è stata consegnata dalle apologie del passato, per far venire fuori l’uomo, che
è in Chateaubriand, e che, in quanto tale, non può non essere al di là dei
limiti, degli interessi particolari, delle passioni, dei calcoli, come nel caso
degli intrecci di dialogo fra lo scrittore e Napoleone.
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François-René de Chateaubriand (1768-1848)
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Tanto rigore si fa garante della ricostruzione in
positivo delle audacie, degli scandagli nel mistero e nella funebrità, della
fondazione da parte di Chateaubriand di un nuovo umanesimo “insieme cattolico e
popolare, sintesi di ragione e fede, di storia e poesia” (p. XCI). E ad analogo
rigore è ispirata la versione del testo francese in italiano, estremamente
cauta e avveduta, che, intanto, si concede il piacere di raccontare ed esporre
con gradevolezza e levità, come nel seguente passo, dalle inflessioni
fabulatorie e dagli inattesi lampeggiamenti aforistici, dedicato alla natura
del mistero: “Nella vita non c’è nulla di bello, di dolce, di grande se non le
cose misteriose. I sentimenti più meravigliosi sono quelli che ci danno
un’agitazione un po’ confusa: il pudore, l’amore casto, l’amicizia virtuosa
sono pieni di segreti. Si direbbe che i cuori che si amano si capiscano senza
tante parole rimanendo soltanto socchiusi. L’innocenza, a sua volta, che non è
altro se non una santa ignoranza, non è forse il più santo dei misteri?
L’infanzia è così felice solo perché non sa nulla, la vecchiaia così miserabile
solo perché sa tutto; fortunatamente per essa, quando finiscono i misteri della
vita, cominciano quelli della morte” (p. 17).