di Enzo Natta
Jules Michelet
auspicava qualcosa che consentisse al passato di risorgere e di ritornare sulla
scena, come d’incanto. In questo modo la storia avrebbe potuto riproporsi agli
occhi di tutti. Se lo studioso parigino (autore di una monumentale Storia di Francia) fosse
vissuto per un’altra ventina d'anni avrebbe visto soddisfatta la sua attesa
dall’invenzione dei fratelli Lumière.
Il sogno di
Michelet avrebbe assai presto trovato sostegno e attuazione nelle dichiarazioni
di D. W. Griffith ai tempi di Intolerance (“Il cinema garantisce più
coscienza storica di quanto possano suggerirne mesi e mesi di studio”) e successivamente
di John Ford (“Non c’è nulla di più vero del vero ricostruito”). Due battute
che meglio di molte altre mettono a fuoco il dibattuto rapporto fra il cinema e
la storia.
Già la
fotografia aveva contribuito a rendere più familiare la storia e a tratteggiarne il volto, ma con l’avvento
delle immagini in movimento il traghetto fra le due rive – la storia e la sua
visibilità – aveva trovato un
collegamento stabile e soddisfacente. Il passato poteva prendere forma,
modellarsi e mostrarsi in pubblico. Ripreso dal vivo o ricostruito che fosse.
Che fra le due
sponde si fosse creata una specie di simbiosi è testimoniato, per esempio, dal
primo film italiano proiettato in pubblico, ovvero La presa di Roma di
Filoteo Alberini. L’ingresso nel cinema da parte della storia non poteva essere
più trionfale e significativo nello stesso tempo. Contestualmente ha inizio un
processo storiografico di ricerca e di indagine, di catalogazione e di studi
teorici che trova il suo pioniere in Boleslaw Matuszewski, origini polacche,
operatore sul campo, primo a teorizzare l’uso del cinema come fonte inedita
della storia, ideatore delle cineteche e della conservazione dei film in
archivi pubblici.
Da queste
premesse parte l’interessante, corposo e circostanziato Cinema e Storia –
Interferenze/Confluenze di Tiziana Maria Di Blasio (Roma, Viella, 2014, pp.
315. € 27,00), che si presenta vantando referenze di tutto rispetto quale può
essere una prefazione di Jacques Le Goff.
Fin dalle prime
battute Tiziana Maria Di Blasio, docente presso l’Università Gregoriana, si premunisce mettendo le mani avanti con l’intento
di sgombrare il campo da reciproche diffidenze fra i due soggetti, e lo fa
chiamando a testimoniare studiosi del calibro di Pierre Sorlin e Marc Ferro, ai
quali si deve un primo e organico approccio metodologico all’argomento. Sorlin
e Ferro fanno da rompighiaccio consentendo all’autrice di procedere con metodo
e per gradi ricucendo gli interventi successivi in una visione globale che,
proprio attraverso le traduzioni dei loro testi, consente al dibattito di
riprendere quota anche in Italia con un’indagine più appropriata rispetto ai
pur validi contributi dei decenni precedenti grazie agli scritti di Pietro
Pintus, Gianni Rondolino, Mino Argentieri e Gianfranco Gori.
Questa ricca
parte introduttiva trova il suo suggello in un’intervista a Jacques Le Goff
della stessa Di Blasio in cui si parla di storia e memoria, di storia e cinema,
di storia e immaginario. Un intreccio in cui
la scienza e la critica razionale si fondono con l’arte, con lo spettacolo, con la
finzione, generando una nuova combinazione di memoria.
Se le premesse
impostano il problema, le parti successive contribuiscono a prospettarne e a
favorirne la soluzione. “Il visibile della storia” e “Storicità dello sguardo
d’autore attraverso i generi” rappresentano i due blocchi sui quali si impernia
e si struttura l’opera nella sua integrità. Nel primo si esamina a fondo la
questione semiologica che segna il passaggio dal cinematografo al cinema, dalla
realtà al linguaggio, ovvero dal mostrare (il film documentario dei Lumière) al
narrare (il film di finzione di Méliès). Pagine di vivo interesse, in questo
avvio, sono quelle dedicate a Boleslaw Matuszewski e al suo impegno perché al
documento cinematografico fosse riconosciuto il potere di testimoniare gli
avvenimenti storici assai meglio e con maggiore obiettività della
scrittura.
Matuszewski non
esita a definire il cinema documento certo della storia, così evidente da poter
essere considerato come fonte privilegiata, “Biblia pauperum” delle vicende
storiche, la cui funzione educativa e didattica, soprattutto per un pubblico
non erudito, non può essere messa in discussione.
Ma che cosa
succede quando “la leggenda cavalca la storia”, come si chiedeva Cecil B. De
Mille? Il patriarca hollywoodiano del
film biblico rispondeva alla domanda in uno scritto apparso sulla rivista
“Cinema” nel 1936, dove, dopo aver premesso che quando si vuole portare sullo
schermo la storia nessuno può impedire all’artista di “seguire il solitario
sentiero della verità”, dimostrava di avere un’ottima conoscenza della
letteratura e della cultura italiana usando queste parole: “L’Italia
soprattutto possiede il magistrale trattato di Alessandro Manzoni sui componimenti
misti di storia e invenzione”. Nel trattato Del romanzo storico Manzoni
scriveva infatti fra l’altro che “nel romanzo storico il soggetto principale è
tutto dell’autore, tutto poetico, perché meramente verosimile”.
Della stessa
questione si era fatto interprete anche Godard ai tempi di La Cinese,
allorché ricordava come nella filmografia di Méliès figurino pure attualità
ricostruite tipo L’affaire Dreyfus (sul processo all’ufficiale ebreo
accusato di spionaggio) e Le sacre d’Eduard VII (sull’incoronazione del
re d’Inghilterra) che anticipano i cinegiornali, ma che invece di riprenderli
dal vero li riproducono in toto con l’impiego di attori e scenografie.
Ma se il cinema
replica, qualche volta suggerisce e tutto questo non fa che dimostrare come goda
di una marcia in più, come riesca a prevenire
la storia e in molti casi a essere profetico. Si pensi al campanello
d’allarme dell’espressionismo tedesco che presagì l’avvento del nazismo e al
realismo poetico francese che preconizzò l’addensarsi di nuvole nere
sull’Europa di fine anni ’30, sintomo di un’apocalisse imminente e di un
tragico destino che non lasciava alcuna speranza di salvezza.
Sono tanti gli
storici, i cineasti, gli studiosi che hanno lasciato un segno sull’argomento e
Tiziana Maria Di Blasio li cita diffusamente evidenziando la peculiarità delle
loro analisi e i criteri che ne hanno ispirato l’indagine storiografica. Dalla
“controanalisi” di Marc Ferro, che ha favorito la restituzione di una memoria
cancellata dai testi ufficiali, a Pierre Sorlin, che sottolinea come ormai
siano le immagini a costruire gli eventi e non viceversa (le tecniche di
comunicazione e propaganda adottate dagli islamisti dell’Isis lo hanno
confermato ampiamente).
Tutte queste
linee fanno di Cinema e Storia un prezioso compendio, un documentato
diario di bordo che ha accuratamente registrato le numerose tappe di un
articolato processo riversandole in un testo esaustivo, che si muove a tutto
campo con riferimenti continui e citazioni appropriate, sì da tessere una robusta
trama su cui poter riflettere e intervenire. Perché se è vero che lo spirito
del mondo si realizza nella storia, come diceva Hegel, è altrettanto vero che,
come afferma Marc Ferro, il cinema non è tutta la storia ma senza il cinema non
potrebbe esserci conoscenza storica del nostro tempo.
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