di Marzio Pieri
?
Mi
risveglio di Venerdì 13, in realtà ci eravamo già incontrati stanotte, quando
al solito indugio a metter ordine nei fatti della giornata trascorsa; erano
passati i primi 3 minuti della nuova giornata.
Mia
figlia, al telefono, mi aveva confortato: per fortuna non è il Venerdì 17. Eppoi c'è la mia convinzione basilare che il nastro del
tempo scorre, identico e ripetitivo, e noi, come uno Chaplin dei Tempi Moderni,
ci affanniamo a imprimergli le barre di separazione, gli a capo versali, le
stanghette di battuta di chi, in realtà, non dei giorni sinistramente segnalati
ma di quella marcia non scalfibile, che ci trascura, ha timore. Come scriveva
Vittorio Sereni, poeta dell'emozione del pensiero? (e
che, stupefacendosene, 'capiva' la Storia): “... Ci conta ci pesa ci divide
(...) E tutti quanti come niente – come la notte / ci dimentica”. Aspetto le
grida, le rettifiche scandalizzate: ma che c'entra? Sereni (“La pietà ingiusta”)
qui parla (e biblicamente, a memoria del festino di Balthazar)
della mano del Tedesco reintrodotto nel contesto delle nazioni 'civili' (o:
vincitrici) dopo un quindicianni di purgatorio.
Riarmateli e stàtevi bboni.
La vista di Sereni non era però quella di un politico (e per questo Fortini gli
dava addosso come un tafàno eletto segretario di
partito dopo anni più oscuri da commissario del popolo): colpiva l'oscuro
intreccio fra l'Onnipotenza tautologicamente distintiva di Dio (l'Indistinto,
l'Indistinguibile) e il Male. La favola biblica è rassicurante: il Creatore è
il Bene, Lucifero (il male) si è separato per ribellione da lui, tertium datur ed è la
Femmina. Eva la Terra-madre Maddalena/Maria... Adamo è ridotto a una specie di Tamino del Flauto Magico. è il
Seme prestato. Nelle letture dell'opera (vetta astrale per la musica di Mozart,
massonico intrigo per lo stupefacente libretto del 'comico' Schikaneder)
quelle 'normali' e che rimandano il pubblico a casa tutto melodrammaticamente
soddisfatto optano per la Bontà di Sarastro, che tuttavia
depistando si sposa (nella stessa sua voce, barbata, baricentrica, mineraria)
col Centro della Terra (sede elettiva degli Dèi
d'Abisso), per la Perfidia di Astrifiammante
(Eva-Regina della Notte, della notte stellare, che invoca gli "angui
d'inferno", legione di Luciferi, ed è Madre e Puttana, nei suoi gorgheggi
astrali, lucciole e lapislazzuli, fiammiferi nei regni della tenebra – se il
soprano non tocca pieno e limpido il FA sovracuto non
è solo una stecca, siam più vicini al famigerato refuso – nei testi sacri –
donde scaturisce la Fine). Il Principe, l'Eroe (nel senso di un secondo Baltasar, il gesuita Gracián)
dovrà ritrovarsi uomo dopo esami (scolastici, liturgici, antipatici, alla
Dante) e prove cartoon dell'acqua e del fuoco, che lo restituiscano agli
elementi, e lo scurra che lo soccorre è l'uomo
'naturale', Papageno (il Figlio del Padre; o della
Pappa) che trova nell'Imperfetto la propria, limitata Compiutezza. Compiutezza,
come Compiuter – quasi onnisciente onnifacente e totalmente idiota. Il Tedesco ne fu la Prova
Generale (dress rehearsal).
Ci
sono segni strani, glòmmeri, inghippi dei quali non
riesco a rendermi conto, a liberare la mente ora davvero oppressa; la butterei
sul comico, ma non sempre riesce. Penso a un libro dimenticato, riaffiorante da
nebbie, e il primo messaggio in arrivo me lo offre a prezzo abbordabile. Mi crògiolo in una parola, sia ovvia sia rara, e sùbito mi ci
imbatto nella prima pagina che scartabello, pensando ad altro. Troppe cose
andate fuori mano mi si sporgono se svolto la cantonata. Sono troppe, mi
soffocano.
Le
letture 'anormali' della Zauberflœte
deferiscono a ogni varietà d'ideologia: l'estrema, che io conosca, è quella che
nella grauitas di Sarastro
denuncia la Retorica del Potere, nelle Isterie della Stellare Magicienne l'Impotenza del Bene Perseguitato (questo vale
prendere alla lettera, e non come un inganno, l'antefatto del Malo Sarastro e della Innocente Figliuola da lui rapita, la
madre ha perfino partecipato alla finestra di "Chi l'ha visto", ma
The Missing One non viene foras). Qui, davvero, Tamino e Papageno vengono rispediti agli squadroni, ricacciati
vicino ai Comprimarî.
Nella
lettera scorsa (lettere un po' lunghette, va ammesso, e tracimanti, come quelle
d'un Ottuagenario) portai a cielo Tacere
fra gli alberi, libro sontuoso e casto (scolpito in metafore suggestive, in
una sintassi ‘vocale’ vivida e improgrammabile) e
dissi fuori dai denti che siamo in presenza di quella, oggi, che a me pare la
voce più autorevole della poesia in Italia. A me, ma qui sono come in casa mia,
su gentile concessione dedalea. I miei giudizî sono da correlare, ovviamente, a
una personale esperienza di lettore di poesia che dura, a vario titolo (lettore
ammaliato, speranzoso convinto poetino, iniziato alle retoriche universitarie, baroccante laureato per difendermene, docentino
d’estetica, poi di letteratura italiana moderna e contemporanea, che in palese
controtendenza e con solide ragioni facevo principiare, come gli
storici-della-storia, dal 1492, anziché dal Parini o dal Leopardi, e intanto melòmane e musicofilo d’insaziabili curiosità, poi da
sbalordito detentore di una cattedra ottenuta come il sottotenente Custer si
ebbe le greche di generale, per uno scambio di telegrammi non da me preordinato
ma mai perdonatomi) a dir poco da 60 anni
e dalla quale sarebbe stato non dirò ignobile, ma certo mostruoso o stravagante
che non ricavassi, nel tempo, e anche pagandola (simbolicamente, come un
letterato) con alcune amicizie troncate o sfiaccolate, con la dura rottura
polemica con varii detentori di un potere che in
fondo è ben poca cosa (hanno qualche borraccia, ma gli assetati, quando non
muoiono, imparano ad andare innanzi con due grani di sale), con la vergogna o
la tristezza che conseguono al riconoscimento di errori occorsi di valutazione,
per fiducia o per chiusura. Nessun ricatto, nessuna pressione esperienziale o
d’affetti mozione nel rapportarmi, dunque, alla mia lunga conversazione con le scritture
di poesia; e basti un chiarimento: leggere per me significa eseguire vocalmente, vocalisticamente.
Convinto
come fui, e questo sì, da sùbito, che la trasmissione grafica di una
composizione poetica è pari pari a quella della
musica: non esiste finché non è eseguita. Per fortuna ci restano testimonianze
di come alcuni poeti leggono, lessero i proprî versi: da Marinetti ad
Apollinaire, da Ungaretti a Montale, da Cocteau a Bernard Heidsieck
(banchiere e inventore della Poesia sonora, un poco alla stregua di Ives, grande assicuratore e creatore di spazî acustici
vasti e sonori come un museo di notte, nella tenebra disattivato), da Gianni
Fontana al solitario sterminato inventore Luigi Bianco, gran templare della Amodalità. E allo stesso direttore di Dedalus.
Ebbi
anche a notare come altri poeti si mostravano invece indifferenti a questa
condizione: peritissimi e spesso ispirati nelle loro soluzioni grafiche (la
punteggiatura sì o no od ora sì ora no, la lunghezza dei versi, la funzione
degli a capo, degli spazî, il gioco delle sillabe, dei singrammi
e dei giochi visuali [NElhora
che non puo ilcalor diurno…
Conlali aperte che parean dicigno], il favorire e preparare o anzi
difficoltare e fino alla balbuzie talora le prese di voce, ma solo idealmente,
facendone carne di porco all’atto della lettura viva) ma, come vedo di avere
anticipato, indifferenti a tanta acribìa, a tanto
immanente liederismo, a simìle
dovizia di ‘possibili’. Studiai con professori che se dovevano citare qualche
verso fosse anche del Foscolo o dell’Anabase (il poema novecentesco che mi fa compagnia da mezzo
secolo e lo preferisco alla più gettonata Waste
Land o anche ai migliori poemi del grande Lorenzo Calogero o del maestro di
color che sanno, Emilio Villa) abbassavano la voce, leggevano come mera prosa,
e si affrettavano a rifugiarsi in corner con un “eccetera eccetera”. La poesia
era un dato inessenziale a permettere i loro esibizionismi di poetica o di
diplomazia. Se ne toccò la volta scorsa a proposito della Ginestra ‘socialista’. Era una forzatura (‘sollecitare il testo…’,
dar pedale) ma contava dipiù vantarsi d’accordo con Luporini, granmaestro del
PCI, anche se, per fortuna, contrario a ogni sargasso storicistico.
Almeno,
nell’aula accanto, Eugenio Garin seduto all’organo
non lesinava il cannone di una beata ironia.
…
porgea l’orecchio al suon della tua voce
ma non due note in
croce
notavo
che riuscissero intonate
nella armoniosa tela…
Io
le mandai un nastrino registrato
e lei si sentì
brava da morirne.
Or
dorme a Smirne e qui non canta più.
Il
libro di Cagnone ha in sé la potenza di un capolavoro, ma ci saranno poeti
disposti ad ascoltare una lezione così maestosa e insieme decostruttiva, così
colma? Ė un terreno preparato, non va perduta una stilla. Il che,
frattanto (e lo disse ben chiaro anche il Contini), è la condizione propria
della poesia: della sua totale significanza.
Cagnone
è un mio coetaneo: staremmo bene in una vignetta, due vecchiarelli che si vanno
incontro appoggiati a un bastoncino e vispamente arruffati, piegati a terra da
due librini che si portano in tasca, o sottobraccio;
e pesano più di loro. Ma, da ieri, lo ha detto anche il papa (che ha qualche
anno più di noi due): düra poco, düra
minga. Allarme e patetismo nei telegiornali, osceni preti da piccolo schermo
coi loro giochi di collo e di mani, appresi in seminario, pensosissimi comenti
dei vaticanisti da quotidiano. Quando il buon Francesco diceva un’altra cosa.
Mi spiego; l’ultima mia sorellina era uno splendore e, avvezza a gli omaggi di
chi la vedeva, era anche naturalmente imbizzita, iraconda. Avrà avuto cinque o
sei anni e girava per il corridoio e la cucina, dai fornelli alla stufa di
cotto, dalla cotta di stufo all’acquaio, sur un suo
riciclino; fra le gambe di noialtri, in diverse faccende occupati. E lei
(proprio come quel vigile urbano dell’italiano delle Origini, che canta
sull’urbe sepolta nel sonno:
Guaita guaita male!
non
mangia’ ma’ che un pezzo di pane
da tradurre più o
meno: “Maladetto far il vigile / per uno stipendio
simile!”; o anche meglio: “Notte e giorno faticar / per chi nulla sa gradir…”)
proruppe in una improvvisata cabaletta, surta proprio
dal fegato:
Óra mi fànno
cà-ascare
con
tutte le sèggiole
ch’e
c’è n’i’ mmezzo…
Francesco
non aveva in mente la poca lisse del barbazhucón.
Voleva che intendessero:
Ieri fenzi
ed oggi renzi
oggi
minxi et hieri fincsi
qui
mi vedo e non mi vedo
se
non cambia il ministero
degl’interni
io me ne vado
non
mi piace stare in mano
a
quel tonno detto
α(NO)
E
poi (ripresa con coro, come in una Passione luterana)
Se quel tonno detto
α(NO)
pur
dicesse: qui c’è ri∫chio
ve
lo dico cuore in mano
starei
saldo nel mio vi∫chio
ma
lui dice, dal suo ammollo,
sta’
sereno come apollo.
E se poi mi fan la fe∫ta,
io,
non lui, perde la te∫ta.
Imparate
vaticanisti. Con le rose sul didietro si sta bene in solio Petri. Ma la rosa e
il crisantemo van d’accordo? è quel che temo.
Le
telefonate di Nanni si sono infittite. Io non amo il telefono, ci sto come
sorpreso coi calzoni a mezza gamba. Lui è della razza dei Gould. Dei Glenn
Gould. A ogni squillo io sobbalzo, gaddescamente imbizzo. Sudo a gocce saltanti come n’esce dalla fronte del
Malvagio Banchiere scoperto e minacciato con la canna della pistola nei
grandiosi fumetti di Tex Willer. Pure lui e l’editore della Finestra, che vidi
sgambettante, bamboletta, e ora anche la sento un
poco mia, è Albertazzi che l’ha fatta crescere, son riusciti a tenermi nascosto
che si erano sentiti, intesi, e che la Coliseum di
Cagnone rinasceva in una sezione particolare del catalogo di Lavis. Perché il
lettore mi segua dovrebbe aver visto intera la collezione, tutta inventata da
Nanni, che temo ci abbia svenato intero un patrimonio, casomai gli fosse
avanzato, delle antiche edizioni Coliseum. Fra tanti
altri talenti Cagnone ha quello del grafico. Quei libri erano una gloria del
libro. Le foto di copertina, inobliabili. Fu una avventura che durò sei anni, a
partire dal 1986. Non fu sbagliato un libro (forse qualche romanzo). Non uno si
vendètte. Lui, del resto, li mandava in regalo a
tutti. Mi deve aver detto di essersi fatto le ossa editoriali con la stupenda
fucina di Lerici. Lerici il Saggiatore di Alberto Mondadori la prima stagione
di Feltrinelli… Entràvi in una libreria (allora ogni
città ne aveva parecchie degne di questo nome, con vetrine, con passages…)…
Come
il Rinascimento, quello dei libri di storia… Se ne accorsero quando era già
finito. Ma non fu meno grandioso l’Antirinascimento.
Vasari, forse, ci arrivò per primo: toccato il vertice non resta altro che
mantenere le posizioni o discenderne, in rotta e senza speranza. Non si previde
il Barocco, la terra non promessa, i cieli, sbilicati,
a fare gibigianna su una terra, entro un coccio, irredimibili. Basta una notte
a cambiare ogni attesa.
Gli
è che a partire dal Miracolo ci vuole poi una forza d’astrazione, uno splendore
di disinteresse, un fregarsene d’essere o no seguìti;
Mosè lo sapeva e si fermò: non volle diventare un Nietanyau.
L’Utopia (l’Exodus) stava per trasformarsi nella Repubblica. Lo si sa, lo si
sa; ma è così atroce ritrovarsi ogni volta a riprovarlo. La vittoria è di
Aronne. Per questo Schoenberg, in imminenza, si
fermò. Addio al Deserto. Il Bue Api, post
tot tantosque casus, si è reincarnato nel Vitello
d’Oro.
O parola o parola che mi manchi (…) Mi (ri)prendo
la Parola
Tacere fra gli alberi…
Le
immagini anticipano un discorso che non si può fare qui; e forse nemmeno
altrove, ormai. Fra tante cose da cui siamo reduci è la breve avventura di
pochi uomini di lettere che avevano capito il ritardo storico (dopo Wagner) della letteratura nei
confronti della musica. Mettete a confronto Busoni e Balilla Pratella, per suo
conto stimabilissimo (il grande scrittore e musicista bergamasco Gianandrea Gavazzeni spese le sue
estreme energie a resuscitare l’Aviatore Dro nello storico teatro di Lugo, patria del musicista
futurista). Sono, non grandezze, ma mondi, che non potranno mai conciliarsi, se
non, momentaneamente, in incontri propiziati da una integrità e cattolicità
culturale come quello, appena ricordato, di Gavazzeni
con Dro. Libri come i primi capolavori di Arbasino,
inzuppati nella musica, vibranti di emozioni o rifiuti ‘sul campo’,
di teatro in teatro, oggi si sono fatti già illeggibili per i più. Horcynus Orca è avventura più facile, per un
lettore d’ora, che non Fratelli d’Italia.
Dove lingua respinge (dico naturalmente i lettori dell’easy reading) il simbolo soccorre con più
d’un ponte levatoio. Nessuno ossequia la responsabilità della parola –inaggirabile
– come Cagnone.
Cagnone,
nella singolare ampiezza e vastità delle sue esplorazioni sul campo, lo so
ammiratore di Ungaretti, di quel verso bifronte, bembista
e ruggente, ma sa che la parola non si distingue che
empiricamente fra prosa e poesia.
Come
il sommo Giorgio Colli (segnalo qui un prezioso fascicolo delle Edizioni
Europa, quelle di “Settimo Sigillo”, La
Sapienza folgorante, Introduzione a G. C., di Gianni Ferracuti,
ispanista a Trieste, che insieme con Federica Montevecchi,
ideale allieva di Vittorio Foa, dunque sull’altra
vetta del Monte dalle due cime, pare a me quello che sulla eredità del pensiero
di Colli ha le idee più fondate e vive), Cagnone ripensa la Grecia ascoltandone
la parola tragica, l’alterità dell’etimo e dei moventi, ben aldiqua
della Scuola di Atene, quella con tutti i beni chiusi in una cassaforte di cui
tiene le chiavi Raffaello. Nietzsche? Per chi si contenta del manuale. La
maggior parte dei traduttori insegna a leggere un testo d’altra lingua (per me,
altra lingua è ogni lingua d’un altro) a chi non ne sia capace. I veri
traduttori sono quelli – rari come le mosche in Cornovaglia – che battono ogni
piastra della mente, e alla fine si riposano, confessandosi battuti.
Tradotto è la gloria del testo. Bada; se un testo è distante, sola traduzione
ammissibile è quella che lo serba inaccessibile. Se no è
una
suffragetta.
Come mozzo guidato da signorso: l’Abbuffata | Vedi il Maestro
di Color Che Sanno
II
Ma
il tempo ora si accelera. Se l’Agamennone
di Cagnone ci rimanda alla Elektra di Strauss, o alle geniali ricerche sulla musica
greca sottese ai capolavori ‘tragici’ di Carl Orff, essi
stessi ingenerati dalla ambizione del musicista di mostrare una via maestra
sfuggita al pure ammiratissimo Strauss; la trilogia (1941-1967) di Antigonae, nella
versione ‘fatale’ di Hoelderlin, Oedipus der Tyrann, di
nuovo Hoelderlin, e il Prometheus, dove il confronto si
trasporta allo stesso originale greco; risulta chiaro che, qui, la sfida è a
risalire ben oltre addietro, dove non ci accompagna la scrittura, dominatrice pro tempore (sia pure per qualche
millennio… un nulla) dei mondi della scrittura. La poesia, l’arte si investono
di essere insieme etnologia ed antropologia, etica e mitologia, speleologia
delle sorti dell’uomo nel suo inventarsi uno spazio ‘umano’ fin da quando la ragione non serve. è il rifiuto dell’homo
rationalis. Anche queste son cose ripensate da
Darwin e da Jung, da Schleiermacher
e B. Constant a Fustel de Coulanges o Ludwig Feuerbach, per
non risalire agli Athanasii Kircher
o ai Giambattista Vico, non ci sorprenderebbero la mente, bensì riesce dirompente
lo scrupolo fabrile di un Cagnone o di un Orff o di altri speleologi che non si acquietano nella mera
filologia (come, del resto, non la scavalcano per arbitrio di fantasticheria).
La
forza del Cagnone poeta sta nel pensiero critico, nella ricerca inesausta di
una traduzione che non può non essere sostituzione ma proprio anche per la consapevolezza di
questo, non può essere reductio ad delphinum o avvicinamento alla brava. Fo prima a
rimandare il lettore all’appena pubblicato libro primo del nuovo patto Coliseum (rinascente)/La Finestra. Il titolo del libro è Discorde, 20 saggi di Nanni.
Un
poetino ligure, citatovi una volta con favore (si crede Pasolini e gli sarebbe
grazia essere almeno Capasso), si è autotrionfalmente appropriato del libro, quasi ne fosse il press agent o un talent scout. I grandi sono pericolosamente generosi; e, del resto,
l’acciugotto una volta la diede a bere
anche
a me. Ma non la seconda.
Ma
è l’ora ch’io vi parli di nuovo, dopo averne appena toccato la volta scorsa,
della Costellazione del Cigno di Enrica Dorna. Questa
nobile e affascinante signora torinese ha da poco inaugurato un progetto
editoriale che si richiama non solo in sigla al Mallarmé del Coup de dés:
“innalzare finalmente una pagina alla potenza del cielo stellato”. Non starò a
ripetere tutto quello che si può leggere nella presentazione della collana in
Google: dare una casa alla poesia “sfrattata da un’editoria in crisi di lettori
e d’identità”. Creare nel tempo una collana di piccoli libri d’arte come
frammenti di pietre stellari. Dell’idea innamorato, Giulio Paolini, il mago
dell’arte concettuale, ha predisposto uno schema di copertina e disegnato la
sigla editoriale del coupd’idée, nella quale distingui un gattino. I
gatti della Dorna, i nostri domestici dèi. Eccone uno, sul suo caldo vertice, nella magnifica
foto di Michele Liuzzi. (Stanotte, alle cinque, mi sento baciare sulla fronte,
era il saluto della mia gattina, lo Schizzo ammalato; scalzo e in malo arnese
sono andato vagando per le stanze, cercando di strapparle il segreto del suo
desiderio. Ma sono giorni che rifiuta il cibo; tranne qualche rapina se non si
sente guardata).
“MICAT IN VERTICE”
Così
il progetto ha due referenti, il Gatto ed il Cigno: il tepore ed il gelo.
I
primi quattro titoli si intestano a due maestri della mia generazione, Nanni
Cagnone e un altro amico raro e prediletto, Cesare Greppi, ribattezzati o
assemblati con se stesso da quello che, pure non dichiarato, pare il
suggeritore occulto della piccola tetralogia, il maestro acutissimo dei critici
della stessa mandata generazionale ─ Stefano Agosti, l’enigmatico mallarmista, entrato già in leggenda col suo primo libro,
il Cigno di Mallarmé. Il governo
francese lo ha insignito della Legion d’Onore; a me
il comune di Napoli, dopo una vita da me dedicata al Cavalier Marino, non ha
spedito manco una mozzarella. E come avrebbe dovuto? e come avrei potuto
meritarmela? Oggi dei balbuzienti se ne sono impossessati e lo terranno
stretto, il Cavaliere della meraviglia, benedetti dal dono più prezioso,
dall’asso pigliatutto di una carriera accademica: NON AVER NULLA DA DIRE. Gli
amici miei ne sono invece ricolmi come un fico picciotto, mammone o dottato.
Così il grande Paolini escogita una quarta di copertina diversa per ogni
diverso poeta: spostamenti nello zodiaco del segno e della visione. Vi fu una
casa discografica francese, la Alpha, che produceva dei veri gioielli in quella
spazzatura che i diplomati in mercanzia imposero alla musica d’arte dopo aver
messo al muro la leggendaria trinità dei vinili: con copertine suggestive,
ricchi fascicoli di presentazione critica ed erudita all’interno. E la
registrazione, sonora, ricca di polpa e di colore, ars addita arti. Avarizia poi rovinava la piazza con cattivi vinili
riciclati, di anno in anno meno incisivi e più scricchiolanti. Il compact buttò
via il bambino e la catinella. Con eccezioni rarissime. Come la Alpha. Erano
dei volumetti di sogno, sul nero onice spiccava la sigla in bianco, in
copertina, corpo della quale era un frammento d’immagine d’opera d’arte,
riprodotta all’interno per intero, in cromie-stampa perfette, e puntualmente
commentata dall’arte di concisione di un professore quebecquois,
Denis Grenier. Legati al Centro di musica barocca di
Versailles arricchirono la nostra conoscenza ‘reale’ dei modi di un secolo
davvero alternativo, spingendosi a geniali infrazioni al codice come
l’inserzione in catalogo della “Voce
Umana” di Eugène Green “collection de littérature orale” diretta dal più audace esploratore della
parola barocca nella sua pronuncia storica e verisimile autenticità. Green
(originario di New York) si è rivelato in Francia come regista di teatro,
narratore, studioso, regista cinematografico sperimentale, e benché ora
cittadino francese, è odiato dai buoni francesi prima e più di un mussulmano.
In
Alpha legge Théophile De Viau,
Bossuet, Ma mère l’Oye. Peggio che
lèggere Vaghe stelle dell’Orsa con
spiccata cadenza recanatese e qualche balbuzie; o la Ginestra in napoletano, con qualche slurp-slurp
alla ampollina di gelato. Una idea, per chi voglia far quattrini: i Promessi letti da Renzi.
A Dante è toccato di peggio, retrocesso al campigiano. Da Peretola e Campi
ogn’omo scampi. Ecco invece:
Qui.rramo
d’illago de ‘omo ’he vòrge ammezogiorno, fra du’ ’hathene…
Rivendi’o i’mmi lato matherno, quasi
friulano. Ombra diletta e severa del Padre, hor mi
perdona, s’e’ m’è toccato da u’timo
di vergognarmi d’esser fiorentino. Del resto, le dichiarazioni di
collìmano
singolarmente con quelle di coupd’idées:
“Mentre tendenza generale corre alla standardizzazione e trivializzazione della
musica registrata, Alpha è lieta (loves) di dare a ognuno dei suoi prodotti la forma di un
oggetto unico riflettente i legami dell’antico intra le varie forme
dell’espressione artistica”. Il motto era: ut musica pictura.
Poi, dopo un centinaio di perfette dimostrazioni di questo principio-guida, la
piccola casa francese ha voluto o dovuto cambiar di binario; mutata la veste
grafica, soppresse le presentazioni del professor Grenier,
resesi più normali le proposte; io, che fui acquirente fedele e ne ho mezza
parete coperta, della nueva ola non ne ho più preso per me neanche
un volumetto. Soffii su la candela e ti crogioli nei
ricordi come mia Schizzo sulle cose buone.
Ho
scritto sopra che il Lohengrin-Agosti (“Mercé, mercé Cigno gentil…”) alloga con
se stesso i poeti del primo getto della fontana di Enrica. E stende la sua
ombra sul quinto volumetto, arrivatomi appena ieri, e ch’è il primo esempio,
nella collana, di voce di un poeta che non è più fra noi. Alessandro Ricci
(1943-2004), serbato a noi dalla fedeltà di un altro poeta che del Ricci fu
amico e poi custode testamentario, Francesco Dalessandro.
La bella post-fazione di Agosti ci fa sorprendere nella affettuosa acribia, cui
dà sapore un minimo di snobismo, con la quale l’insigne Rimbaldiano,
e Zanzottologo, scruta una voce “alta”, come si dice
sempre, che a prima vista parrebbe la più distante da qualsiasi commercio naturaliter
disposto alla Scienza dei Semi o alle strategie di Lacan, così allarmanti per
la dispotica societas
dei pissicanalisti alla giornata. I colloqui di Elpinti
(né la cosa poteva sfuggire a un provetto frequentatore di Zanzotto) debbono
molto ai Conviviali di Giovanni
Pascoli; anche il Ricci fu uomo di scuola. Con moderna disposizione armonica.
Il Pascoli fu poeta pieno di debolezze e di clamorosi scivoloni ideologici ma
proprio per questo è l’unico moderno dei grandi poeti dell’Ottocento.
Personalmente l’ho sempre preferito allo stesso Leopardi. Quale poeta ‘nostro’
ha avuto cure devianti e geniali come quelle profusegli dal continiano
Perugi? o letture di condiscendenza tanto
irrispettosa e scavata come quelle a lui offerte dall’indimenticabile Cesare
Garboli? La riprova ce l’abbiamo: Perugi non ha fatto
scuola e Garboli (posso darne testimonianza) scatenava odȋ
forsennati nei pascolisti di tradizione scolastica.
Chi
avesse già letto, prima della applicazione riccetta,
il librino esile esile, La riconoscenza, nella collana, con pochi versi e qualche prosa non
professionale concessisi da Agosti in mezzo secolo, e forse suggeritogli (“estortogli”)
da “una grazia femminile cui fa capo il presente ‘coup d’idées’”,
non si dovrebbe stupire di questa rinuncia alle più sicure feritoie della
‘scienza’ da parte di un reputato Catafratto. Come Arbasino, e mi pare
incredibile, Agosti ha dieci anni più di me, che mi sento definitivamente
inadeguato a questo invilimento millenario. Simili indulgenze a una
indesiderata, vietata umanizzazione (si apriva il finestrino e sùbito sentivi
il “clic” o “toc” della ricomposizione) mi accadde di sorprendere in un’altra
maestra di scienza della lingua, Franca Ageno; mia
maestra ahi quanto involontaria (dico per parte sua) a me dei rudimenti di
filologia. Uno dei grandi incontri della mia vita, con persona che non poteva
essere più diversa da me, meno incline ai miei modi e ai miei interessi.
Indimenticabile, confusa e coraggiosa scorza d’albero.
A
me La riconoscenza piace. La maestria
verbale è grazia perpetua del verseggiatore. Il raro prosatore d’arte, se è
giusto che io dica così, non batte una sillaba a vuoto. Certe emersioni boitiane mi incantano:
Fruga e briga lesta acciuffa
Vetro e acqua scorza e muffa
Sibila
serpe sul marmo rotto
Rotto
è l’incanto quasi di botto…
Mi
indugio a pensare a un Agosti (nato nel Veronese) sulle scalinate dell’Arena
ascoltando Gioconda o Mefistofele; o magari il Macbeth di Verdi, il suo
Shakespeare non boitiano, con versi anche migliori di
Francesco Maria Piave.
Resta
dunque ch’io dica dell’altro amico (in cuore) Cesare Greppi, Chronicon.
Greppi, il traduttore di Góngora che non si osava
sperare. Eppure non erano mancate prove eccellenti (Mario Socrate, un Guanda
del 1942; le rare puntate gongorine di Ungaretti,
memorabili anche per la libertà mentale di spostare l’originale, compatto, in
spazî vuoti e roteanti come i ‘mondi da mondi’ di Giordano Bruno). Ho detto che
con Greppi fummo amici ‘in cuore’, perché pochissimo ci frequentammo o
scrivemmo. Lo incontrai nello sventurato inoltro d’autunno viareggino, del
quale tante volte ho parlato, perché gli debbo il mio distacco dalle vicende
della poesia. Stabat nuda Aestas,
D’Annunzio e la poesia oggi (Viareggio novembre 1984). Una legione di neòteroi avrebbe dovuto riferire del proprio ‘ritorno a
d’Annunzio’, sotto l’umbrella della portiancortellesca “Alphabeta”.
Ma non si torna dove non si era mai stati. La verità cruda cruda
è che il convegno aveva due diverse mire: lanciare il d’Annunzio ‘meridiano’,
con una vecchia ben nota prefazione di Luciano Anceschi (“la ripubbri’a”!) riadattata per l’occasione, e favorire in un
concorso a cattedra una magra pollastra petroniana. Lo intuii troppo tardi. Mi
avevano affidata una relazione e cercai di far quadro; avvertii sùbito di
trovarmi in territorio nemico. Manco di prudenza e finii con litigare con
tutti. Con Porta era già successo a Parma, in un ipogeo della piazza, con
sgomento dei comunisti che avevano invitato lui e me, fascista pei benpensanti,
comunista per i diccì, anarcoterrorista per tutti. Peggio
quando, alle conclusioni di prammatica (tutti bravi e tutto bene / non
tagliamoci… le vene), io chiesi la parola mentre tutti già si alzavano e dissi:
il convegno dovrebbe cominciare solo ora, dopo che la superba relazione di
Piero Bigongiari ha smosso dalla carraia tutta
fanghiglia le rote della carrozza troppo affollata. Si son persi tre giorni a
far quadrato sul d’Annunzio di Anceschi che è vecchio di tre decennî. Io,
badate, ero e resto un ammiratore di Anceschi. Ma resto anche convinto che non
si debbano buttare i danari dalla finestra: se si fa un convegno, bisogna che
qualcosa di non già ovvio ne consegua; e se no c’è da
ammettere la sconfitta. Altro che tutto bene: è salvo il p. Ci accapigliammo e
persi il portafoglio. Lei cià coraggio, mi disse un Bigongiari turbatissimo. Io non capivo. Sembrava che
pendesse dalla approvazione di un Carifi.
Ma
la tensione covava fin dai giorni precedenti. Chi ce l’ha voluto quello lì? (la stessa cosa sentii buccinare al circolo Gramsci di
Venezia, appetto la Fenice, dall’allora futuro ed ora exissimo
sindaco o doge Cacciari, quando fra lodi e omaggi ch’erano tutti per lui – in
fondo Nono era ormai sicuramente morto
– mi sentì dire papale papale che l’incontro con lui
aveva normalizzato la seconda fase di Nono, fatto indossare a Venerdì la
palandra smessa dell’Ammiraglio, scovata in un baule intatto dal naufragio).
Vecchie befane veneziane facevano corona alla sempre bella Nuria,
la figliola di tanto Schoenberg, come a porgerle le
condoglianze. Quanta merda è passata da allora sotto il Ponte di Rialto, in
quella città di lèmuri e pèsti.
Fra
poetastri in codino, metaestetologi pronti per il
gran balzo televisivo, aspiranti e bocciati in cerca di protettore, il solo Bigongiari volò alto come il condor della sua poesia. Io
m’ero messo a zoppicare, chiarissimo segnale psicofisico. Ci vollero poi mesi
di massaggi speciali, in una piazzetta parmigiana lurida, dietro la lurida casa
che fu del Petrarca, a rimettermi in sesto. Accanto a Bigongiari
si distinse per calma e ironia Greppi, che conoscevo per Góngora
e per pochi versi poi ritrovati in un libro uscito nella collana di poesia per
la ‘nuova Guanda’ alcuni anni dopo, Supplementi
alle ore del giorno e della notte. Meglio gioiello del baule insieme con
l’originale L’aspetto occidentale del
vestito di Giampiero Neri (1976). Altri nomi ricordo, la Insana, grande
conoscitrice degli erotici greco-latini, Peregalli
con la sua Cronaca. Non mi ricordo se
venisse Ortesta, il valente traduttore di Mallarmé
(1982), e forse è meglio che non venisse, perché di lui facevo lieto giudizio
ma alle traduzioni dei Guandaroli d’allora, credo
tutti scoperti da Raboni, io (ero un matto scatenato)
posi nel mio discorso alcuni limiti. Gli stessi che si posero al primo,
sconosciutissimo Brendel, quando una rampante casa
discografica, la Vox americana, lo mise alla rota per
ore e per giorni, a scaricare in dischi da diffondere a prezzi calmierati,
quando un microsolco costava ancora un occhio, integrali pianistiche a
voltaggio universale. Cambiava solo panchetto, ogni tanto.
Non vorrei concludere su Greppi, senza averlo di nuovo
paragonato a Cagnone. Se nell’esule di Bomarzo si ammira una compiuta identità
culturale, con affondi taglienti e parabole ironiche esemplari, in Cesare si
osserva, incute simpatia e rispetto, il punto d’arrivo d’una educazione
sentimentale timbrata e contenuta. Poeti, poeti, ci siamo disfatti di tutte le
maschere. Fine piu alto poesia non ha. Disse Ungaretti ce le siamo messe, non
fu l’unica volta che il suo rosso
candore s’ingannava.
Ero
con mia moglie, si era ancora giovani; Insana, l’altra magnifica poetessa Vicinelli; ci vollero bene. Fu anche l’ultima volta, temo,
in cui incontrai Ferruccio Masini. Si susurrava in
giro che si portasse addosso un cancro e si curava con la macrobiotica. Era con
una magnifica ragazza, aspirante poetessa. I convegni, accademici o no, servono
anche o soprattutto a questo. Ma cominciava a tirare un’aria dulciana, salottardo-teologico-culattona, alla quale abbiamo dovuto o
assuefarci o reagire con le maschere antigas. Purtroppo veniva un’età senza riso. Quando
eravamo giovani bastavano Risi o Salce o Luigi Zampa a salvarci, coi loro
Gassman o Sordi o Tognazzi o Manfredi. Nei Mostri
(Dino Risi, 1963) il quindicesimo dei venti episodî, piccoli inferni di cui
si fa peccato a ridere, La Musa, mostra
un Gassman in abiti femminili, presidentessa d’un premio letterario (honny soit qui mal y pense), col suo giovane amasio ignorante e un tantinello schifoso. Quanto le piacciono i suoi ‘anoculuti’. (E lui naturalmente vince il premio).
III
Ora
il discorso si è fatto davvero lungo. Ma come non ricordare, di Greppi, il
breve romanzo Mort précoce?
Potrebbe essere un Dream of Gerontius
(1865), ma quanto il Cardinale Newman, con tutti i suoi santi meriti, è britannicamente uggioso, e oggi lo si ricorda soprattutto
per la traduzione quasi operistica (1900) di Elgar,
il Brahms inglese, il nostro è folgorante. Me ne
mandò una fotocopia credo di bozze in una versione francese. Un capolavoro. Gli
scrissi sùbito dove avrei potuto trovare, se esisteva, l’originale e non
m’avrebbe stupito che Greppi avesse scritto il romanzo direttamente in
francese. Solo oggi ho trovato l’informazione che da lui non ebbi; solito caso
della lettera smarrita, o la mia di domanda o magari la risposta di lui. Dunque
Mort précoce si
legge per i tipi de La Différence nella versione di
Marie-Pierre Géraud, già traduttore dei Testimoni, il primo romanzo breve di
Greppi e il suo libro più caro alla Fortuna. Era un libretto azzurro di
Sellerio negli anni buoni e fu prontamente recensito da una lettrice
d’eccezione, Giovanna Ioli. Mia sorella in ispirito,
poco davvero le sfugge. Non riesco ancora indizȋ
per ritrovare †Morte precoce.
Resta
ora ch’io dica, e dovrò farlo troppo più in breve che questo nome nuovo non
meriti da chiunque, di Osvaldo Coluccino, il poeta di
Gamete, terzo degli aurei libriccini
donde si trae lo spunto. Coluccino (gli scrissi) Lei
è il secondo Osvaldo della mia vita! (e a che non ci
fossero equivoci, glie lo spiegai: il primo è il colonnello Oswald Thursday, o Turner nel doppiaggio italiano, di Fort Apache, la magnifica trasposizione
di John Ford fra i deserti e le montagne del New Mexico della storia del
generale Custer, gloria dei miei otto anni, fortunatissimi, ché pe’l mio compleanno avevo già incontrato il Buffalo Bill di W A Wellman,
uscito da noi con un ritardo di quattro anni rispetto al 1944 in cui era stato
meravigliosamente realizzato). Coluccino (il nome mi
suonava del resto familiare) è insieme poeta e compositore, e se togliamo
l’Opera, credo si sia provato in quasi tutti i generi della musica orchestrale,
da camera, vocale; ed è maestro nella elettroacustica. Questa è l’Hic Rhodus più
a rischio, come il verso sciolto nella nostra più classica poesia, che fa
svelto a finire in tiritera. Queste orecchie ascoltarono musiche
elettroacustiche bischerrime, quando stavo a Parma e
uno caro ai salotti vi pompeggiava. Se avessi dovuto partire di lì! Stavo in
punto di ordinare a Santa Amazon, con buona pace dei rivenditori superstiti e
non a caso, visti i prezzi che praticano (ne porto anche recenti, per la mia
rassegnata bonomia, scottature ineffabili), tutti i dischi reperibili di Coluccino quando questo (come Gianandrea
Gavazzeni faceva con me dei suoi introvabili libri)
me ne ha fatti arrivare un grosso pacco. Ho ascoltato per ora le Stanze per pianoforte, cristalline (“Col
Legno”, Vienna 2012) e il più recente disco elettroacustico. Sembra la Musa,
presente, che dà il soffio. Tutto par di toccare, tutto vi è vita. Vorrei che
qualche lettore si lasciasse allettare all’ascolto. Ora sarebbe facile dire che
a tanto musicista, tanto poeta. Ma Coluccino insorge:
io sono un poeta!; e intende proprio poeta di parola.
Fra l’artista e l’opera sua non metter la mano toia.
Il fatto è che, insieme, Osvaldo par convinto di avere messo un punto alla sua
poesia già dal 2003. Gamete, il
titolo del libretto appena uscito, ripete del resto quello di una composizione
del 2007, Gamete stele, per 9
strumenti, dato su commissione della Biennale di Venezia e commercializzato da RaiTrade. Impossibile distrarsi da altro fatto: che
l’intera produzione vocale del musicista (da Nel distacco del 2003 al recente Eliaco, del 2013) è su testi poetici o
teatrali dello stesso Coluccino. Mi piacerebbe
ascoltarli ‘dal vero’. Il poeta in quanto poeta è anch’egli della covata di
Agosti, che se ne fece garante presso l’attivo ma non sempre ispirato (dico
nelle sue scelte editoriali) Campanotto, (Strumenti d’uso comune, 1994), e ha
confermato la sua benedizione (tutto questo mio sfolgorìo
di scienza è solo un trar notizie da Wikipedia) in un libro, immagino, di una
precedente iniziativa coupd’idées, del 2010, penso
legato alla esperienza galleristica di Enrica Dorna: Appuntamento,
libro d’arte con illustrazioni di Marco Gastini.
Altri illustri si esposero a favore, sotto il vessillo veronese di “Anterem”: Gramigna, lo scrittore straordinario, per Quelle volte spontanee (1996); e un
poeta valoroso come il mio amico (non ci sentiamo mai, la colpa è di me
solitario) Giorgio Luzzi, per la prima edizione di Appuntamento (2001). E questa è la schedina. Ma tu, tu che ne
pensi? questo balzellonare wikipedico
non sarà per nascondere un giudizio? Per me Coluccino
è tutto polpa. Il musicista e il poeta. E ha carattere. Gli ossi (chiedo scusa
della brutalità) se li sta succiando il ticinese Isella, chiamato a dir la sua
in appendice a Gamete. Torna a
fiorire il Lemma (come dice Firenze: l’èmmajala), l’‘oltre-nel-contiguo’
(Perché Non Possiamo Non Dirci Heideggeriani), la Mancanza, la Differanza, il Referente Abbandonato. La vena è generosa ma
con strumenti d’uso comune nel secolo deluso. Cui
Coluccino
certo non deferisce. Chiedo scusa.
+++
Qui
mi ero proposto di finire; in zona Cesarini, come una bomba, piomba sulla mia
casa dei Bastioni un altro librodipoesia (L’apparato animale) di Gualberto Alvino
(per le Robinedizioni torinesi. Gualberto Alvino ci è
ben familiare, su Daedalus. La bella, sontuosa
prefazione del Gran Maestro Giovanni (Gianni) Fontana non ce ne schiude le
soglie quanto ne festeggia lo Spuntare. Appena arrivato il libro, Alvino,
fulmineo: “Non dirmi che il mio libercolo non è ancora approdato
alle tue rive!” Uora uora, rispondo.
l'ho ritirato dalla
cassetta a metà pomeriggio; e mi pare apparato
originalissimo. ma come dici a balestrini la poesia è
difficile. dunque leggerò e rileggerò. non è solo mal di testo quando tutto in noi sarebbe disposto
alla fine. pensa che se leggo lemma o metatopìa debbo ricorrere al dizionario... tu hai tutte
parole che ti soccorrono, ma nemmeno a te bastano. (“è sufficiente”, disse il
prete).
Ma
lui spietato incalza, come Tancredi (vedremo che nel libro non rifiuta
d’essere, al caso, Tancredi ed insieme Clorinda):
Per metatopia anch’io devo ricorrere al dizionario (e non solo
per metatopia!). Inutile dirti che mi
piacerebbe sapere che ne pensi.
Siamo nel
ballo; e io…
Caro
il mio gran Gualberto, ma non ti pare d'essere un re che chiede un parere
al suo sellaio? Guarda che non gioco. La tua vastità oceanica di competenze mi
costringe a commisurarmici con confessata umiliazione. La tua severità mi ha
sempre fatto un poco di paura. Per me le tue poesie sono impensabili, ma lo è
solo la vera poesia. Quelle pensabili e giudicabili, ossia riconducibili a un
codice triviale, non mi hanno mai interessato.
Caro
il mio gran Gualberto, ma non ti pare d'essere un re che chiede un parere
al suo sellaio? Guarda che non gioco. La tua vastità oceanica di competenze mi
costringe a commisurarmici con confessata umiliazione. La tua severità mi ha
sempre fatto un poco di paura. Per me le tue poesie sono impensabili, ma lo è
solo la vera poesia. Quelle pensabili e giudicabili, ossia riconducibili a un
codice triviale, non mi hanno mai interessato.
Caro
il mio gran Gualberto, ma non ti pare d'essere un re che chiede un parere
al suo sellaio? Guarda che non gioco. La tua vastità oceanica di competenze mi
costringe a commisurarmici con confessata umiliazione. La tua severità mi ha
sempre fatto un poco di paura. Per me le tue poesie sono impensabili, ma lo è
solo la vera poesia. Quelle pensabili e giudicabili, ossia riconducibili a un
codice triviale, non mi hanno mai interessato.
Caro
il mio gran Gualberto, ma non ti pare d'essere un re che chiede un parere
al suo sellaio? Guarda che non gioco. La tua vastità oceanica di competenze mi
costringe a commisurarmici con confessata umiliazione. La tua severità mi ha
sempre fatto un poco di paura. Per me le tue poesie sono impensabili, ma lo è
solo la vera poesia. Quelle pensabili e giudicabili, ossia riconducibili a un
codice triviale, non mi hanno mai interessato.
Dicono
che una volta Dedalo mise le ali. Icaro restò a terra e ancora ancora lo
chiama.
“Al
miglior fabbro”