PRIMO PIANO
SGUARDO DAL SUD (21)
La forza comunicativa
e quella espressiva della parola


      
Pubblichiamo il testo di una relazione tenuta nell’Università degli Studi Aldo Moro di Bari lo scorso febbraio. Si tratta di una riflessione critico-teorica sulle diverse funzioni del linguaggio sia nell’ambito della vita quotidiana e del mondo dei mass-media, sia in quello della scrittura creativa, con particolare riguardo alla produzione di poesia. Importante nella educazione dei bambini riuscire a contemplare tutti i diversi dispositivi connotativi che agiscono negli atti di parola: quelli emotivi, fàtici, poetici, metalinguistici, referenziali e conativi.
      



      

 

 

di Anna Santoliquido

 

 

Nel 1930 un ventiduenne poeta e critico letterario dello Yorkshire pubblicò un saggio considerevole denominato Seven types of ambiguity, poi apparso in Italia a cura di Giorgio Melchiori. Il giovane William Empson si riferiva alle ambiguità verbali della lingua inglese e ai suoi verseggiatori, ma il concetto fu ripreso ed esteso a tutta la creatività poetica.

Il filosofo e psicanalista francese Jacques Lacan sostiene che il linguaggio operi interamente nell’ambiguità e la maggior parte del tempo non sappiamo assolutamente nulla di ciò che diciamo. Inoltre, egli afferma che l’inconscio “è strutturato come un linguaggio”. Nella conversazione e nei discorsi registriamo spesso frasi sibilline ossia enunciati soggetti a doppia interpretazione. Questo perché le parole, al pari del corpo, hanno un loro linguaggio segreto.  

I romani erano abili nell’esercizio della retorica. L’artificio linguistico consentiva loro di raggiungere fini inespressi. Ciò significa che la comunicazione può essere manipolata. E tenuto conto che, come spiega la fisica quantistica, “si è arrivati ad affermare scientificamente che la parola, veicolata dal pensiero e dall’emozione a essa collegata, crea la realtà”, capiamo quanto sia importante utilizzarla bene.

Innanzitutto occorrerebbe partire dal pensiero positivo, facendo proprio l’assunto del poeta irlandese William Butler Yeats “Non ci sono estranei, solo amici che / non hai ancora incontrato”. Una conversazione soddisfacente poggia su strategie precise. Pare che i quattro minuti iniziali di un incontro siano decisivi per il formarsi di una prima impressione che successivamente sarà difficile modificare.

Ci sono molti esperimenti sulla parola e sull’effetto che essa produce sul ricevente. Il giapponese Masaru Emoto ha compiuto degli studi in laboratorio sulle modificazioni dell’acqua a seguito degli stimoli dati, “comprese parole amorevoli o parole offensive”. Nel primo caso la “goccia d’acqua congelata” diventava una stella di ghiaccio, nel secondo si trasformava in un ammasso informe. I messaggi dall’acqua fanno riflettere sull’influsso che i vocaboli hanno sugli esseri umani, il cui corpo è formato da circa il 70% di acqua.

La parola è uno strumento di potere, può lenire o lasciare ferite. Il metalinguaggio – secondo la Treccani – è il “linguaggio attraverso il quale è possibile fare riferimento o fornire una trattazione o teoria (definendone sintassi e semantica) di un altro linguaggio detto linguaggio oggetto”. Il metalinguaggio è un linguaggio nascosto dentro un altro linguaggio il cui studio ci aiuta a smascherare le vere intenzioni del parlante o dello scrivente. Quasi sempre diciamo qualcosa per significarne un’altra.

Ferdinand de Saussure asserisce il principio della interdipendenza tra «langue» e «parole», intendendo per lingua un prodotto sociale, composto di segni, e per parola l’attività individuale che nella comunicazione applica i segni e le regole della lingua. Le parole, secondo il celebre linguista di Ginevra, hanno “la loro sede nel cervello; esse fanno parte di quel tesoro interiore che costituisce la lingua in ciascun individuo”.

Allora se la parola è il “regno delle differenze individuali”, un “tesoro interiore” che mi permette di esprimermi in modo eterogeneo, come posso caricarla di senso per farle sprigionare forza comunicativa ed evocativa?

È stato Roman Jakobson – il fondatore del Circolo linguistico di Praga, 1926 – a spiegare che “ogni atto comunicativo in realtà non contiene in modo puro una sola funzione (sebbene una di essa sia predominante), ma comprende in potenza tutti gli elementi e tutte le funzioni del modello comunicativo”. Ciò implica che una poesia e un articolo di giornale possono contenere la funzione emotiva (o espressiva), fàtica, poetica, metalinguistica, referenziale, conativa.

Al riguardo, si riportano i versi della maggiore scrittrice armena, Silva Kaputikyan (1919-2006), amata dal popolo e capace di contestare il Presidente della Repubblica Robert Kocharyan, per i metodi duri utilizzati nei confronti dei dimostranti del 12 e 13 aprile 2004. Silva, poeta, accademica e attivista, scrisse la lettera aperta Kocharyan Must Go, restituendogli il premio del quale l’aveva insignita nel 1999.





Jean Cocteau, CorsaNero


La Kaputikyan, componente dell’Accademia Nazionale delle Scienze dell’Armenia e membro dell’International PEN, è stata tradotta in molte lingue e ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti. In Italia le è stato attribuito il premio “Nosside”. Tra i suoi componimenti più noti vi è “A word to my son” che, su mia richiesta, il Prof. Kegham Jamil Boloyan ha tradotto di recente dall’armeno in italiano, con il titolo “Messaggio a mio figlio”. La lettura del testo mi ha suscitato una forte emozione, poiché in esso coesistono l’amore per il giovane, per la patria e per la lingua materna. Il PEN Internazionale, con sede a Londra, dove è stato fondato nel 1921 da Catharine Amy Dawson Scott, è un’organizzazione di autori che si occupa di diritti umani e della libertà di espressione di scrittori e giornalisti perseguitati o minacciati per le loro idee.

Considerata la sorte che un secolo fa è toccata a non meno di un milione e mezzo di innocenti, tra cui molti intellettuali (parliamo del primo genocidio moderno), trovo di considerevole impatto etico e poetico le parole della Kaputikyan:

 

Ascolta, figlio mio, il messaggio per te

dal cuore della tua amata madre,

da questo giorno io ti affido

la preziosa lingua Armena.

(…)

Con essa tuonò

il canto di battaglia della mia gente

Con essa, la mia anziana madre mi mise nella culla un giorno

e te l’ha trasmessa con il suo sussurro secolare

Apri la bocca e parla, mio adorato

presto, canticchia mio caro

lascia che sia giovane ancora sulle tue labbra

La nostra lingua Armena dai capelli grigi

Mantienila alta e pura

come la sacra neve dell’Ararat

tienila vicina al tuo cuore

come le ceneri dei tuoi antenati.

E contro l’attacco del nemico

proteggila con il tuo petto

come proteggeresti tua madre

quando minacciano la sua vita con una spada

E vedi, figlio mio, non importa dove ti trovi

da qualunque parte tu vada a vivere sotto la luna

anche se dimentichi tua madre

Non dimenticare mai la tua lingua materna.

 

Dagli stralci suddetti si colgono un corredo linguistico e una eredità di sentimenti che l’Autrice trasmette alle nuove generazioni. La parola si ammanta di luce e diventa canto nonostante i richiami dolorosi. Il passato e il presente si fondono e guardano al futuro. Talvolta una manciata di versi può essere più efficace di una pila di volumi per sintetizzare le situazioni.

Umberto Eco nella Prefazione a Parole di libertà, un’opera che raccoglie le testimonianze di diciotto noti autori che hanno subito il carcere a causa dei loro scritti, dichiara: “è che la poesia fa paura ai regimi autoritari e dittatoriali anche se parla soltanto, come nel caso di Zhiti, di rose”. Difatti, durante gli anni del comunismo, il poeta albanese Visar Zhiti fu condannato a dieci anni di prigione, perché le sue composizioni vennero considerate “tristi ed ermetiche” e perciò ostili al regime. Il libro è uscito con il contributo del PEN Club Italia onlus al quale mi onoro di appartenere. A proposito della libertà di stampa, il nostro Paese nel 2014 risulta al 73° posto nella classifica stilata da Reporters sans frontières. I giornalisti sono querelati e minacciati.

Il Verbo o Logos – “parola creatrice di Dio” –, come apprendiamo dal Vangelo di Giovanni, è anche legge morale scritta nel cuore di tutti gli uomini che li guida a discernere il vero dal falso, il bene dal male. Le parole, in quanto linguaggio, ci accompagnano nel cammino della vita. Esse vanno nutrite e protette, altrimenti periscono.

I bambini nella società opulenta sono considerati più dei soggetti da trastullare che da educare. L’informazione non si preoccupa abbastanza delle loro reazioni. I piccoli sono persone con straordinarie capacità ricettive; assorbono anche quando sembrano distratti. La pratica dell’insegnamento fa registrare una vasta gamma di comportamenti sul campo.

I mezzi di comunicazione di massa dovrebbero trasmettere informazioni, dati, verità, in modo che il lettore possa orientarsi, formarsi un’opinione, sviluppare quella che chiamiamo coscienza critica. Ciò non esclude che una testata possa avere una sua linea, ma che non sia faziosa. Quello che nuoce è il messaggio occulto (di cui si nutre tanta pubblicità).

I bambini (e non solo) abbisognano di parole luminose, di parole di verità, di parole ammantate di speranza. Non voglio significare che i giornalisti e i cronisti debbano diventare per forza scrittori e poeti (se lo facessero non sarebbe un male), ma sottolineare la necessità di una comunicazione non contaminata, che si rivolga alla persona e non alla folla indistinta, che tenga conto della sensibilità, delle emozioni, del fattore crescita del lettore o dello spettatore. Creatività e linguaggio sono interconnessi.

Vorrei soffermarmi sugli anglismi che sovente affogano gli articoli dei giornali e le notizie televisive. Annamaria Testa, studiosa di comunicazione e creatività, scrive: “In una società multietnica e in tempi di comunicazione globale non è scandaloso che un codice linguistico sia aperto ai contributi di altri codici. (…) Anzi: la capacità di accettare contributi da altre lingue va considerata un segno di disponibilità verso competenze e culture diverse”. L’importante è non esagerare o addirittura cadere nel ridicolo quando ci si affida al traduttore automatico.

Noi ci preoccupiamo dell’efficacia della lingua, ma, al contempo, dovremmo interessarci alla sua sopravvivenza. Nel nostro Paese manca un’adeguata politica di protezione e promozione. Ogni anno ne scompaiono tantissime, perché non supportate. I sette miliardi di abitanti della Terra parlano all’incirca 7.000 lingue. Il 78% della popolazione parla le 85 lingue maggiori mentre molte altre (da 1.000 a 2.500) sono a rischio di estinzione. Prevalgono le lingue che dominano la comunicazione e gli affari. Per l’italiano, gli esperti prevedono che nel 2050 il vocabolario da circa 270 mila parole si ridurrà a metà. Negli ultimi settant’anni sono spariti pressappoco 200 dialetti.

Una lingua si estingue quando non si parla più. Invece nel mondo digitale (familiare a bambini e adolescenti) un idioma scompare quando è ‘ignorato’ dai software linguistici che non gli danno il necessario supporto. Mancano cioè i software, i sistemi per la traduzione automatica, etc. Parecchie lingue europee “hanno risorse digitali inesistenti oppure deboli e, quindi, sono a rischio. L’italiano è stato valutato a “supporto moderato”.





Carlo Chiostri, illustrazione del Pinocchio


La scrittrice e saggista Donatella Bisutti sostiene che le parole si consumino, che siano diventate sempre meno “oggetti” e sempre più “significati”, che diano sempre meno emozioni, perché parlano solo al nostro cervello e alla nostra memoria-computer. A suo avviso, negli ultimi decenni la società spersonalizzata e l’influenza dei media ne hanno accelerato il logoramento.

Ma torniamo alla comunicazione come atto creativo che rispecchi la nostra visione del mondo, il nostro essere e il nostro aprirsi all’altro. Torniamo alla comunicazione improntata all’onestà e alla semplicità. A un linguaggio che sappia sorprenderci. Montanelli interpellato da un lettore sulle difficoltà della scrittura rispose: “quando mi metto a scrivere, lo faccio rivolgendomi a un Tonino, per spiegargli le cose di cui lui sa poco, e che quindi gli debbo anzitutto raccontare come le ho viste e capite: chiaramente e senza orpelli.

I giovani lettori hanno bisogno di una comunicazione autentica, che apra finestre sul mondo, che – come recita la Lettera aperta del Forum “Bambini e mass media” – “sappia cercare e trovare le parole giuste per raccontare anche l’orrendo e l’irraccontabile”.

La comunicazione interpersonale non è mai completamente sotto il nostro controllo, siccome cè linterazione con laltro che ne contribuisce alla riuscita. Pertanto, condivido l’asserzione di Annamaria Testa che “il modo della comunicazione diventa la comunicazione”.

Se trasferiamo il concetto dalla comunicazione tra due parlanti al testo scritto e agli organi di informazione di massa, comprendiamo quanto sia determinante il modo del comunicare.

Oggi i processi di identificazione sono dettati soprattutto dalla televisione che ci impone di accettare acriticamente le sue regole. “Gli spettatori medializzati sono un popolo generico e globale che assiste da ogni parte del mondo all’evento reale, in quel luogo e in quel tempo” (Mario Ricciardi). Noi vogliamo invece, che l’informazione non sia “la merce più preziosa” e che il “mondo nuovo” (quello dei media) educhi e formi i giovani “ad essere cittadini del mondo, giusti e veri” (“La lettera di Bari”).

Non ci interessa né l’umanità-spettacolo né la falsificazione della realtà. Ma è innegabile che i media abbiano modificato il rapporto tra individuo e realtà. Noi chiediamo agli operatori dell’informazione che facciano prevalere sempre il “senso umano” e non la “logica mercantile”.

La società del computer è una società di massa per la quale la persuasione è studiata nei dettagli, giacché fa leva sulla “sensibilità emotiva”. Il dominio delle cose appaga per pochi attimi, però lo spirito resta povero.

Nessuno deve chiudersi alla speranza. Lo stesso sociologo canadese Marshall Mcluhan che ha studiato le conseguenze psicologiche e sociali dei media, si è chiesto se la società tecnologizzata non possa fornire l’occasione per riscoprirsi come persone, avendo “più tempo libero per ‘ritirarsi’ ed ‘entrare in sintonia’ con se stessi”. Purché, per usare i versi patriottici di Jonas Savimbi – uno statista e intellettuale che combatteva per l’indipendenza dell’Angola – nel frattempo non “Si è fatto tardi per vivere l’aurora / di un domani migliore”.

Ho frequentato a lungo lo scrittore e giornalista Lucio Lami, collaboratore di Montanelli e inviato di guerra. Nella seconda aletta di copertina del volume Visti & raccontati - 40 ritratti di personaggi famosi nel mondo, annota: “Quel che mi ripropongo, dunque, è che chi legge queste pagine si convinca che non si vive solo di Internet, ma che la testimonianza diretta è parte essenziale e ineludibile della nostra professione, per contrastata che sia dagli asfissianti condizionamenti politici e dalle leggi del mercato”. 

Oggi il giornalismo da scrivania (o desk giornalismo) è largamente praticato e supera di gran lunga quello di ricerca. I redattori utilizzano le notizie, attingendo più o meno alle stesse fonti. Tale pratica se da un lato riduce i costi di produzione, dall’altro aumenta i rischi di omologazione. Ed è la deontologia a soccorrerci. Si dice che nella società digitale il giornalista assolva alla funzione non più di mediatore, ma di re-mediatore tra la rete e il lettore.

Io non sono pessimista, dal momento che mi sono formata anche leggendo bellissimi ‘pezzi’ giornalistici. Per i più piccoli i pericoli in rete sono aumentati, il linguaggio si è impoverito, ma ci sono le buone pratiche, le azioni di contrasto, la prevenzione (in famiglia, a scuola, con l’ausilio della Polizia postale e delle altre agenzie educative). Senza mollare la presa, bisogna cogliere gli stimoli positivi dei mass media, e trasformarli in opportunità, per dialogare con il mondo, ricordandosi che il vicino è fonte inesauribile di meraviglia. L’essere umano è un microcosmo che la parola (leggera e rispettosa) aiuta a scoprire.

Lo studioso francese René Dubos quarant’anni fa ci incitava a “scegliere di essere umani”. Dobbiamo seminare sempre. Educare i piccoli lettori ai valori trascendenti. “Relativizzare le parole, è il primo compito dello scrittore. Depurarle e restituirle pulite e diafane ai suoi lettori, è il secondo. E il terzo forse sarebbe che quando manca qualche parola bisogna inventarla” ha detto lo scrittore spagnolo Edorta Jimenez. Comprendere l’altro ci fa “vibrare empaticamente”.





Pino Volpi (1938-1980), Senza titolo da "Appunti di viaggio"


Le tecnologie sono artificiali. Tuttavia, per usare le espressioni dello storico delle culture e dei problemi della comunicazione Walter J. Ong, “La tecnologia, se propriamente interiorizzata, non degrada la vita umana, ma al contrario la migliora. L’orchestra moderna, ad esempio, è il risultato di un’alta tecnologia”. E noi amiamo ascoltare la buona musica. L’uso della tecnologia, secondo Ong può “espandere lo spirito” e “intensificare la vita interiore”. Gli effetti della stampa e del digitale sul pensiero rendono sempre più necessaria l’etica nella comunicazione.

La scrittura è una “tecnologia interiorizzata”. È da essa che la stampa e il computer sono partiti. Le obiezioni che si rivolgono ai calcolatori, riferisce Ong, sono le stesse che Platone muoveva alla scrittura (del tipo: la scrittura è disumana, distrugge la memoria, indebolisce la mente, etc.).

Il giornalista nel redigere il pezzo deve entrare nella mente di persone assenti e sconosciute, parlare a quel “villaggio universale” di cui diceva McLuhan. Un compito arduo, visto che concorre a trasformare le coscienze.

Noi procediamo con fiducia, perché crediamo nelle risorse del cuore umano e nel bene comune. I bambini vanno sorvegliati, ma non soffocati. L’ascolto può dare esiti impensati. La parola nitida come la neve dell’Ararat può scaturire dal silenzio e dall’ascolto dell’Io e dell’altro. La manipolazione fa leva sulla fragilità dell’essere e sui sensi di colpa. Forse è pure il caso di educare i ragazzi allo svelamento, a leggere tra le righe.

In questa conversazione, avere esposto diversi punti di vista è stato un modo per interrogarmi e di cercare qualche risposta. Senza giudicare, convinta che, come asserisce Carl R. Rogers, “La tendenza a giudicare gli altri è la più grande barriera alla comunicazione e alla comprensione”. Lo psicologo statunitense era particolarmente impegnato nello studio della persona, della pace e della risoluzione dei conflitti.

Tutti gli operatori della comunicazione possono contribuire, attraverso il linguaggio, a che il nuovo Millennio non sia il tempo della sconfitta, della discordanza e della solitudine, ma, nonostante la tragicità della storia, sia il tempo del ponte e della speranza. Il filosofo tedesco Walter Benjamin ha scritto che la natura piange perché è priva di lingua.

Per concludere, vi porgo parole ricche di senso, parole incarnate che irradiano bellezza. Una quartina di Maria Luisa Spaziani in risposta a Sartre:

 

Assoluto divieto di fare poesia

finché un bambino morirà di fame.

Hai torto, Sartre. Tanti bambini muoiono

perché il mondo non sa di poesia.

 

E parole scritte dal poeta yemenita esiliato Mansur Rajih, riguardo all’importanza del linguaggio e della comunicazione. Lui che è stato quindici anni in carcere, per crimini non commessi, e poi liberato, grazie agli sforzi di Amnesty e del PEN, sa come rivestirle di luce. “Language”:

 

 

Non vedi?

Se non potessimo enunciare

Come potremmo cantare?…

Come potremmo chiamare gli altri?

Parlare ai fanciulli?

E come condivideremmo i nostri sogni

Se non ci fosse il linguaggio?

 

 

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Bibliografia:

 

1. Anna Guglielmi, Il linguaggio segreto del linguaggio, Piemme, Milano 2014;

2. Annamaria Testa, Farsi capire, BUR, Milano 2009;

3. Mario Ricciardi, La comunicazione, Editori Laterza, Roma-Bari 2012;

4. AA.VV. (a cura di M. Giaveri, C. Macconi, M. Rosi), Parole di libertà, SE, Milano 2010;

5. Donatella Bisutti, La poesia salva la vita, Feltrinelli, Milano 2010;

6. Lucio Lami, Visti & raccontati - 40 ritratti di personaggi famosi nel mondo, Edizioni Ares,

  Milano 2003;

7. AA.VV., Libertà d’espressione, potere e terrorismo, Atti della Seconda edizione del

  Congresso della Cattedra dei diritti umani dello scrittore, PEN Club Italiano, Milano 2006;

8. La lettera di Bari del Forum “Bambini e mass media”, 3 giugno 2014;

9. Walter J. Ong, Oralità e scrittura, Il Mulino, Bologna 2012;

10. Antonio Prete, Meditazioni sul poetico, Moretti & Vitali, Bergamo 2013.

            

Relazione tenuta da Anna Santoliquido nell’Aula Magna dell’Università degli Studi Aldo Moro di Bari il 18 febbraio 2015, nell’ambito della Prima edizione del Corso di Aggiornamento di etica e deontologia professionale “Bambini e mass media”, riservato a giornalisti e insegnanti, promosso dal Circolo delle Comunicazioni Sociali “Vito Maurogiovanni”, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze mediche di base, neuroscienze e organi di senso dell’Università di Bari e l’Unione Cattolica Stampa Italiana - Puglia.

                                                                                                                                                                    

 

                                                                       Foto Antoski

Bari, 18 febbraio 2015. Aula Magna dell’Università.

 

Da sinistra: lo scrittore e giornalista Enzo Quarto, Presidente del Circolo delle Comunicazioni Sociali “Vito Maurogiovanni”, la scrittrice Anna Santoliquido e la docente universitaria Silvana Calaprice, Vicepresidente del Comitato Italiano per l’UNICEF.

 

 

                                                                                                                            




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