PRIMO PIANO
BERNARD HEIDSIECK
(1928-2014)
Le dinamiche multiple
della ‘Poésie-action’


      
Un ferratissimo articolo-saggio per ricordare l’artista francese morto 86enne pochi mesi fa. Figura fondamentale nel campo della poesia performativa francese e internazionale del secondo Novecento, con grande autocoscienza critico-teorica egli sapeva tenere in mirabile equilibrio e in potente sinergia poietica testo, voce, gesto e tecnologia. Se l’azione del grido poetico di Artaud era essenzialmente centripeta, il suo lavoro compositivo ed esecutivo era invece centrifugo, proiettato ad interagire col pubblico, a valersi di elementi di improvvisazione. “Vaduz” (1974) è forse il poema plurivocale e polisemantico che meglio lo rappresenta.
      



      

 

 

di Giovanni Fontana





Agli inizi del secolo scorso Henri Martin Barzun, Fernand Divoire e Sébastien Voirol iniziano a costruire poemi in chiave simultaneista, dove versificazioni parallele presuppongono la contemporaneità nella lettura e l’applicazione di un plurivocalismo da esercitare secondo ritmi e modalità suggerite dalla disposizione del testo. Seguono gli spartiti optofonetici dei futuristi, con le loro declamazioni dinamiche e sinottiche, e le ridde fonetiche dadaiste; ma solo negli anni Cinquanta si parlerà di Poésie Sonore, termine introdotto dal decollagista Jacques Mahé de la Villeglé, nel 1958, a proposito dei crirythmes di François Dufrêne,[1] quando la diffusione del magnetofono commerciale e del microsolco offrivano straordinarie indicazioni di percorso.

Il rapporto con queste tecnologie, infatti, inaugura per la poesia una nuova stagione creativa, che subito rivela personalità di grande rilievo; tra queste si distingue, per l’originalità della ricerca artistica, quella di Bernard Heidsieck, maestro indiscusso della Poésie Action.

Heidsieck, come del resto Henri Chopin, acquista il suo primo magnetofono nel 1959 su consiglio di un amico di François Dufrêne, che già da tempo usa registrare i suoi crirythmes su nastro. Con impasti informali di grida, sospiri e acrobazie glossolaliche, Dufrêne segna, nel gruppo dei Lettristi, il passaggio dal fonetismo diretto ad una sorta di poesia magnetofonica, se non altro per il fatto che, primo fra tutti si serve del magnetofono come strumento di “scrittura”, anche se l’apparecchio è usato come semplice registratore di suoni e non come strumento per l’elaborazione della voce. Del resto siamo ai primi esperimenti; ma nel giro di pochissimo tempo, la diffusione del magnetofono a nastro renderà possibile il montaggio, tecnica rivoluzionaria che, nel dopoguerra, Pierre Schaeffer non aveva potuto mettere in pratica con il registratore a filo. La nuova tecnologia segnala inattese opportunità a Henri Chopin, che utilizza echi, riverberi e variatori di velocità per l’elaborazione della materia sonora, e a Brion Gysin, che mette a punto la tecnica del cut-up. Una vasta gamma di prove tecniche è immediatamente sperimentata da una sparuta schiera di nuovi poeti, artisti della voce e della parola, del suono e del gesto, fra i quali Bernard Heidsieck, che dopo una fase di rodaggio, inizia a canalizzare i suoi poèmes-partitions nel multipista, trattando il nastro ed includendo nelle registrazioni vocali anche altri materiali sonori. Ciò avviene del tutto spontaneamente, senza contatti tra gli artisti, al di là di qualsiasi ipotetico progetto di movimento. Ricorda Heidsieck che “Dufrêne, Chopin, Gysin et moi-même vivions en effet tout le quatre à Paris sans nous connaître. Chacun travaillait isolément. Il n’était donc nullement question d’avant-garde. Chacun, de façon parallèle, chacun au magnétophone, faisait un travail de recherche, mais qui, passion incluse, se savait foncièrement voué à dépasser le stade expérimental du laboratoire. O combien ! Nous nous sentions forts de cette certitude!”.[2]

Per Heidsieck il magnetofono è un vero e proprio strumento di composizione poetica “totale”, che, da una parte media la voce, dall’altra la sostiene nell’azione. Ma l’apporto del nuovo mezzo tecnico si rivela ben presto di importanza notevolmente superiore a quella valutata nella prima ora. Infatti, la registrazione immediata e la diffusione, che sembrano all’inizio raccogliere in toto l’esigenza della poesia di uscire dalla pagina, sono arricchiti dalle risorse che la banda magnetica offre al poema in post-produzione, dove la parola può essere manipolata in mille modi, deformata, esaltata, distesa, condensata, ritagliata, triturata, insomma, scomposta e ricomposta, tormentata e ri-ossigenata a volontà; ma per Heidsieck un aspetto sostanziale è la riconquista della dimensione dell’oralità perduta, che rivela territori inesplorati e riconsegna al poeta la propria voce, per alcuni versi dimenticata, per altri addirittura ignota;[3] la conseguenza di ciò sarà di stabilire nuovi rapporti con il testo, per la sua concezione e per la sua costruzione.[4] Egli, in effetti, ha sempre assegnato pari dignità al testo, alla voce e alla tecnologia, dimostrando sul piano pratico come queste ultime non debbano essere considerate alla stregua di meri elementi strumentali (voce come veicolo del testo e registrazione come relativo supporto tecnico), bensì come sostanziali componenti costruttive, come straordinari fondamenti creativi, come elementi compositivi funzionali alla sua particolare concezione della vocalità.

Heidsieck, infatti, trascende la “poesia fonetica”, legata all’immediata qualità (diretta e ordinaria) della materia linguistica, ma nello stesso tempo supera la dimensione della “poesia fonatoria”, che è di Dufrêne o di Chopin, dove il tessuto sonoro è sopra e sotto i livelli linguistici. Il grido di Dufrêne e le stratificazioni magmatiche di Chopin si pongono, in realtà, al di là e al di qua del linguaggio: su entrambi i versanti si privilegia la dimensione della voce come corpo, senza intermediazioni tecnologiche nel caso di Dufrêne, mediata in modo alquanto sofisticato in Chopin.





Bernard Heidsieck


Heidsieck lavora invece sulla frammentazione e ricomposizione della lingua, valendosi a livello testuale di suture che impegnano sincopi e apocopi, elisioni e apofonie, paronimie e paronomasie,  assonanze e allitterazioni, bisticci e calembours, aferesi e diafore, eufonie, iterazioni, onomatopee e onomatopeizzazioni. La struttura del verso si avvale, in particolare, di frammentazioni e ricomposizioni che esigono, nella loro meccanica sequenzialità, un completamento strutturale sul piano acustico. Ecco allora il ruolo fondamentale della voce, da una parte, e della tecnologia, dall’altra. Attraverso l’uso della registrazione multipista si sovrappongono piani di scrittura e orizzonti sonori. E sotto il segno del simultaneismo non si ottengono soltanto fugati o contrappunti polifonici, ma si generano combinazioni verbali che moltiplicano le prospettive del senso.

Un altro ruolo notevole, nelle composizioni poetiche di Heidsieck, è svolto dai rumori, di cui l’autore indica sovente nel testo posizione e durata. Non si tratta di sfondi sonori, di panorami acustici sui quali mettere in scena le parole. Essi si incastrano nel testo, non assolvendo solo  funzioni formali, ma entrando nel quadro testuale con preciso valore semantico. I rumori di città, le grida, il respiro sono strappi dal quotidiano che non sono adoperati secondo i metodi dell’assemblage informale; essi sono immediatamente ricomposti con valore linguistico in una sorta di puntuale partitura. Si tratta, così, di effettuare attente selezioni, di connettere sintatticamente i rumori scelti al contesto verbale e di controllare, infine, l’organicità dello sviluppo nella tessitura. Ecco il taglio, il montaggio, la scoperta dell’oggetto sonoro. Non si tratta né di sostenere mere valenze bruitiste, né di suggerire atmosfere da musica concreta, bensì di concorrere a far emergere zone inesplorate, di contribuire a sostenere quel processo che esalta la parola trasformandola in azione.

Adriano Spatola aveva sottolineato che “La concezione della voce come materiale è indicativa del rapporto che i lettristi hanno con la composizione poetica, la cui orchestrazione corale, caotica e sregolata, raggiunge risultati di eccezionale complessità tonale, tanto che non riteniamo sbagliato parlare di una vera e propria musica informale”. Ma se “Il testo lettrista può […] essere considerato una specie di partitura” è anche vero che quei testi esistono  “indipendentemente dalla realizzazione sonora, che viene allora considerata come un’ipotesi o affidata, come tradizionalmente, alla volontà del lettore”.[5] Non è il caso del poema-partitura di Heidsieck, che con rigore quasi geometrico indica tempi e spazi, presupponendo, però, un ulteriore sforzo creativo: la ferma necessità del salto dimensionale da parte dell’autore. Bernard Heidsieck adotta il termine poème-partition nel 1954/55, ancor prima della sua scoperta tecnologica, componendo Sitôt dit: “Cette appellation voulait concrétiser leur vocation sonore et le fait que leur nouvelle disposition sur le papier, à l’image simpliste d’une partition musicale, me fournissait certaines indications de Lecture, à savoir le rythme, les durées, la vitesse, les hauteurs de ton”.[6] Il testo-partitura (salvo qualche raro caso) trova sempre compiutezza in un livello superiore di scrittura, o meglio, di ri-scrittura polidimensionale, dove lo spazio-tempo si pone come mediatore di relazioni interattive tra la componente verbale, la trasposizione vocale, gli inserti bruitisti e le manipolazioni tecnologiche. In Les pieds sur la page,[7] Heidsieck considera la stesura del testo come una sorta di “tremplin”: un vero e proprio trampolino da cui spiccare il balzo risolutivo. Abbiamo visto, infatti, che il suo progetto poetico richiede sempre un gesto finale, un’azione decisiva. D’altra parte non rinuncia mai a sottolineare, nei suoi scritti teorici, che il processo compositivo è articolato su tre livelli (testo, nastro e performance), tant’è che preferisce parlare di Poésie Action piuttosto che di Poésie Sonore.

In ogni modo, se la presenza della voce e quella del corpo (che la produce e la sostiene) hanno un valore fondamentale nella poesia di Heidsieck, è innegabile che la lingua assuma un importantissimo ruolo di comprimaria, non solo sulla base dei valori testuali iscritti nella pagina, ma anche per come è articolata nell’atto performativo. Si assiste ad una sorta di “teatro” della lingua che non ha niente a che vedere con il teatro tout court e che è tanto più pregnante quanto più si allontana dalle tecniche e dalle formule propositive adottate in campo teatrale. Del resto se la voce è corpo in movimento, per la “parola sonora” è legittimo riferirsi all’azione o alludere ad una “théâtralité de la langue”, come sostiene Bobillot.[8] Anche se c’è da chiarire immediatamente che, se di teatralità si può parlare, certamente non si possono confondere modi e tecniche dell’attore con quelli di un poeta della lingua, un creatore di poesia dinamica, un artista che fa testo del proprio corpo e che del corpo fa testo. Per una folta schiera di poeti sonori, in realtà, da Dufrêne a Chopin, da Blaine a Pierre e Ilse Garnier, l’energia vocale rappresenta la vita stessa. Heidsieck chiarisce che al poeta sonoro si richiede un rapporto conflittuale, fisico, con la propria opera e si preoccupa di prendere le giuste distanze da una teatralità impropria: “Son propos est de lutter, physiquement, avec son oeuvre, avec son texte, seul, face à un public. De la revivre, de la réinvestir, chaque fois, lui-même, hors de toute théâtralité, hors de tout esthétisme. De se l’incarner jusqu’au bout des ongles… mais jusqu’au coin des lèvres, aussi”.[9] Ecco la necessità di Heidsieck di spingere il proprio testo oltre l’estremo limite, facendolo passare per i polmoni, per la gola, per ogni poro della pelle, facendolo diventare un tutt’uno con se stesso, vivendolo nella propria carne per poterlo vivere in pieno pubblicamente.

Qui, la parola è reinventata, ricostruita all’istante nelle sue componenti corporee e sonore ed è posta in essere nel momento in cui è lanciata nello spazio. Trattando di poesia sonora Paul Zumthor parlava proprio di “poesia dello spazio”, in quanto riferita a coordinate altre, in quanto risolta in uno spazio-tempo pulsante, vitale, ricco di prospettive insospettabili.[10]

Qui non sarebbe inopportuno ricorrere al concetto di “scrittura ad alta voce”, espresso da Barthes nel suo Le plaisir du texte.[11] Egli, facendo riferimento all’actio della retorica antica, ma prendendo le distanze da ogni concessione drammatica, parla di “grana” della voce come un misto erotico di timbro e di linguaggio, caratterizzante l’arte di condurre il proprio corpo. Per Heidsieck quella “grana” è plasticamente e spazialmente strutturante.

La sua voce multilinea esprime una forte energia metamorfica, ma senza intemperanze, senza soluzioni eclatanti. Contrariamente a quanto accade nella poesia di autori come Dufrêne, dove l’automatismo ultralettrista, diretto e parossistico, si fa talora “brut” (come ebbe a dire Chopin), talaltra irritante, o come Gil J. Wolman, che costruisce i suoi “Mégapneumes”  sull’impasto del “flatus” e dei rumori prodotti da labbra, lingua, gola, escludendo la pronuncia del fonema, o come lo stesso Henri Chopin, che corre spesso il rischio di farsi prendere la mano dalle tecnologie riconducendo il testo al grado zero e portando la poesia sonora a confondersi con la musica concreta ed elettronica, o ancora come Julien Blaine, che lancia grida stentoree agitando i testi e facendoli ribollire di impulsi insoliti che possono assumere tono di sfida, per autoaffermazione ed esaltazione corporea, e di denuncia, quali segnali della dismisura e della trasgressione, contrariamente a tutti costoro, Heidsieck trapunta la sua lingua di poeta, finemente inquieta, con i rassicuranti segnali delle sue esclamazioni e interiezioni; agisce con leggerezza nei confronti delle proprie tessiture testuali, sempre intelligibili, dove egli ricerca con insistenza nuovi rispecchiamenti, specialmente quando il gioco dei rimandi sonori è amplificato dall’uso sapiente della registrazione multipista. Il suo fraseggio breve, articolato su sospensioni vocali, su sapienti esitazioni, in bilico tra frammenti di sospiri e respiri, si aggrappa a tracce di rumori consueti, di brandelli sonori di ossessive ripetitività quotidiane. Egli è un poeta dell’equilibrio: i valori del testo, della voce, della presenza scenica, delle componenti tecnologiche sono armonicamente fusi, ma un valore aggiunto è dato dalla poliritmia, quando le prospettive generate dalle tecniche multitraccia esaltano gli effetti contrappuntistici della lettura simultanea, giocata sui differenti piani acustici.





Heidsieck in 'azione poetica' sul palco (ph. François Janicot)


La sua è una scrittura dinamica, la cui fase attuativa (che evolve da quella statica, di progetto, attentamente studiata sulla pagina), pur contemplando margini di improvvisazione, non trascura mai il dettaglio. I due piani di scrittura si arricchiscono vicendevolmente, nel tempo, sul piano dell’azione. Luogo dell’evento e luogo di progetto finiscono per rispecchiarsi, con reciproco profitto. A tal proposito, più volte, ho parlato di poesia pre-testuale che sposta progressivamente in avanti la soglia della testualità, definitiva solo per un attimo e subito riorganizzata e ri-scritta, che riappare di continuo con un nuovo habitus pre-testuale. Si passa da una parola-progetto ad un progetto poetico in tabula (in sé concluso, ma già in grado di mettere in atto un autosfondamento della pagina in senso spettacolare), che potrà costituirsi come poesia interrotta, come spartito per l’attuazione di traduzioni e tradimenti, di espansioni e modificazioni successive: così di seguito, attraverso continui eventi di scrittura, che quando si pongono come performativi appaiono irripetibili, volatili, effimeri. Ma al di là dell’infinita gamma di relazioni tra la scrittura e gli altri universi linguistici, al di là della carica dinamica della scrittura stessa, la poesia dello spazio e del tempo ruota sull’energia vitale della voce, sulle sue qualità poietiche, determinando forme sonore strutturanti, forme sonore di poesia capaci di catalizzare attorno a sé la girandola magica degli altri elementi in un tessuto pluridimensionale di interconnessioni. Con il suono, dunque, anche l’immagine, il colore, l’architettura, il movimento. “Ne s’agit-il pas, pour le poète ‘sonore’, dans la dynamique obligée de son engagement, et sa soif de contacts, tangible et immédiats, non seulement de naviguer dans le ‘son’, bien sûr […] mais de se rendre, soi et son texte, intimement associés, visuels. Pour que l’écoute, enfin, histoire oblige, s’opère par l’œil!”.[12] Si entra, qui, evidentemente, in una dimensione sinestetica. E durante l’azione la forma può appartenere a zone di disordine semantico e cavalcare due o più codici, due o più classi di oggetti, due o più mondi. È così anche nell’area della magia. Proprio nell’antica magia con la quale Artaud identificava l’evento teatrale.[13] Al lettore-spettatore ancora il compito di ricostruire, o meglio, d’inventare il senso.[14] La performance, quindi, apparirebbe come sommatoria di diversi accorgimenti tecnici, come supremo artificio, come costruzione complessa, che riesce a circondarsi di senso grazie all’energia profusa. L’artificio, come potenza impegnata, assicura un ordine alle molecole entropizzate. È un po’ come nel paradosso di Prigogine, dove non è vero che i sistemi lontani dall’equilibrio procedano verso il massimo di entropia. È possibile per quei sistemi trovare un ordine diverso da quello iniziale. La dissipazione di energia li spinge verso nuovi ordini, lontano dalle dimensioni entropiche.[15]

In realtà ogni situazione esterna, ogni avvenimento casuale, tutto l’ambiente, che pure è influenzato dalla performance, influisce su di essa, che a sua volta riflette modificando all’istante. Si tratta di “une poésie physique tête chercheuse, active et centrifuge, publique et tendue vers autrui, ayant humblement ou agressivement choisi pour supports, le corps, l’espace, le temps, et le risque, en prime dans un débordant souci de recommunication”.[16] È un gioco di specchi operato contemporaneamente dal poeta e dal pubblico, presenza estremamente condizionante, il quale si esprime con segni casuali, gesti di reazione, tratti espressivi, mormorii, silenzi, sospiri, respiri, colpi di tosse, applausi, fischi, micro e macromovimenti.





I poèmes-partitions di Heidsieck


Su questo gioco di specchi lavora molto Heidsieck. Egli ricerca un contatto psico-fisico immediato, ma sottile, leggero. Niente gesti esagerati, niente sberleffi, bensì l’assunzione composta di un atteggiamento figurale che si protende e si ritrae attivando, però, passaggi carichi di tensione. Se “Dada” evidenziava una forte cesura tra poeta e pubblico urlandogli contro e insultandolo, Heidsieck considera la platea un prolungamento dello spazio d’azione dove raccogliere stimoli con lucidità, offrendo per contro segnali di sentita cooperazione: “Nous sommes tous dans le même bain, quant à moi, voici ma thérapeutique, puisse-t-elle vous être de quelque usage!”.[17] Il poeta “in situazione” spende la sua parola e investe il pubblico che rilancia in un gioco d’echi. E si leggono in questo partecipato dispositivo di rilanci (oltre agli eventuali espedienti tecnici ampiamente diffusi in ambito performativo, che gli artisti più esperti conoscono per bene), anche atteggiamenti di tipo essenzialmente umanistico, come sottolinea Bobillot nelle pagine finali del suo corposo studio su Heidsieck.[18] Ma, con riferimento alla terapeutica appena citata, rileggerei nell’azione del poeta quella funzione sciamanica che Adriano Spatola aveva così efficacemente individuato: “Il poeta si sente il dovere di assumere su di sé a tutti i costi (clown, pseudosciamano, scemo del villaggio, folle di Dio, ecc.) il ruolo di manipolatore del fantasma”. Tale fantasma – che identificherei con l’essenza libera della poesia – “in apparenza così innocuo, così fragile, così idiota, è l’unico spaventapasseri che possa ridicolizzare il ribrezzo (borghese) per ogni negazione sostanziale dei valori”.[19] Ma “bisogna anche avere il buon senso di capire” aggiunge Spatola “che il poeta è diventato un animale asociale per puro amore verso la società”.[20]

Ed è in questo gioco sciamanico che svolgono un ruolo fondamentale la presenza del corpo e la presenza della voce e le continue oscillazioni dei significati a cavallo dei vari significanti, tra gesto e suono, tra parola e ritmo. Verrebbe di associare queste oscillazioni a quelli che Lévi-Strauss definisce “significanti fluttuanti”, carichi di pure forme, simboli allo stato puro suscettibili di caricarsi di qualsiasi contenuto simbolico; la funzione principale del “significante fluttuante” sarebbe quella di porsi come mediatore tra codici: funzione scambiatrice che riconduce al concetto di “mana”. Il corpo, macchina del linguaggio, non è soltanto il luogo degli scambi, il supporto delle corrispondenze simboliche tra i diversi codici: esso, che ha capacità generative, trasforma i significanti in pura energia. Da un punto di vista antropologico “questi significanti fluttuanti non designerebbero [...] nulla di preciso, avendo solamente un ‘valore simbolico zero’; sarebbero però provvisti di una funzione fondamentale perché consentirebbero al pensiero simbolico di esercitarsi”. Lo sciamano sarebbe colui che “s’incarica [...] di far passare l’individuo e il gruppo da un codice all’altro, da uno stato all’altro: come i miti di cui si vale; egli traduce un sistema simbolico in un altro”;[21] il performer invece sarebbe colui che indica al “lettore” i percorsi dinamici del significante esibendo il quadro delle possibili oscillazioni tra codici, traducendo simboli in energie, in un gioco di rimandi, di richiami, di rilanci di segni nell’iperspazio della sinestesia, dell’interdisciplinarità, dell’intermedialità, perseguendo l’instabile costruzione di una singolare opera plurale. In quest’ambito svolge una funzione cardine l’estemporaneità, intesa come capacità di esercitare funzionalmente la creatività di fronte all’evenienza inattesa, all’istanza imprevista: “La poésie sonore peut […] faire appel à l’improvisation, à la spontaneité pure, n’ayant crainte de se soumettre aux aléas du hasard”.[22] D’altra parte ciò è perfettamente compatibile con il concetto della pagina-trampolino “d’où doit s’extraire et jaillir le poème, sons, verbes, phonèmes, lettres, bruitages étant utilisés à l’abri de tout systématisme” contro “une poésie-rébus, passive et d’attente”, contro una poesia che “comme une taupe cherche à se terrer dans les ultimes replis du papier, rêvant dans sa coquetterie de le laisser blanc!”.[23] Ma tra tutti gli elementi che intervengono nella performance (è bene sottolinearlo ancora) è certamente la voce a rappresentare l’energia interna necessaria ad alimentare la rete delle relazioni con il mondo.

Tra gioco ed ironia, rito e psicodramma, beffa e impegno civile, la voce segna passo per passo l’esistenza e il ruolo del poeta sonoro. Artaud è considerato un modello primario per l’idea di linguaggio unico tra gesto e pensiero, per l’importanza assegnata alle qualità vibratorie della parola, per la sua nozione di lucida crudeltà senza strazio: se non altro perché il respiro segna il tempo teatrale partecipando del tempo cosmico, secondo l’alternarsi dell’elemento maschile e di quello femminile, in un gioco che traccia l’unicità androginea del senso.[24] Nello stesso tempo egli dichiara la parola orale come la sola autentica e viva. Le “case delle parole” costruite a colpi di precetti non sono che prigioni del senso, angusti spazi in cui la scrittura cristallizza in formule che non hanno potere di espansione.[25] Ma la dimensione artaudiana è anche pervasa dall’azione dissociatrice del grido. “Manifestation asphyxiée de la fin d’un cycle, ce cri – scrive Heidsieck – a fait exploser le livre, a déchiré l’air, comme ne le pouvaient plus, parvenus à ce stade ultime, final, à cette époque précise, la parole inflationniste, les mots, rongés et pourri, brûlés”.[26] Ma il grido ha anche potere centripeto, si fa polo di condensazione, fuoco di estrema concentrazione divenendo addirittura impenetrabile. “Le cri d’Artaud est apparu comme le point culminant du développement centripète de la poésie depuis Baudelaire”.[27] Occorre, allora, praticare un ribaltamento che si risolva in un coinvolgimento positivo: “cri écartelé mais déchirure-charnière puisque, avec l’un et l’autre, un nouveau cycle, centrifuge, cette fois, s’est ouvert à la poésie. Le poème se retourne de 180 degrés et s’ouvre au monde. Il est à réinventer. La force de mots avec lui. Leur sens. Celle, en somme, ou celui de la communication. Simplement”.[28] Ed è proprio questa esigenza di carica centrifuga a spingere Heidsieck a riconsiderare la dimensione del grido artaudiano in favore di quella disserrata e più accessibile ed estesa che fu di Dufrêne: “Si le cri d’Artaud était encore essentiellement noué sur lui-même, sur sa propre contradiction […], les ‘crirythmes’ de François Dufrêne sont eux, par contre, désormais, résolument tournés vers le monde, en contact direct avec lui. Spontanés, ils frappent l’auditoire ou la bande magnétique et cherchent à les sensibiliser d’une matière ou d’une émotion poétique à l’état pur. Le cap a été franchi. Leur réceptivité est à la mesure de leur voltage. Leur point d’impact idéal est le cri, étouffé ou formulé, potentiel en chacun. C’est à ce niveau, enfin, que s’établir le dialogue. Délibérément recherché”.[29]





Da sinistra a destra: Bartolomé Ferrando, Giovanni Fontana, Bernard Heidsieck,
Henri Chopin e Francesco Conz a Spera Valsugana (Trento), 1992


Questa tensione centrifuga, che pervade tutta l’opera di Heidsieck da Canal Street a Derviche/le Robert, dai Poèmes-partitions alle Biopsies, dai Passe-partout a Respirations et brèves rencontres, ne caratterizza anche il tratto saliente della personalità; ma, emblematicamente e più efficacemente che altrove, è rappresentata in Vaduz, poema del 1974, una composizione scritta per l’inaugurazione di un centro d’arte in Liechtenstein “ce maxi-village, capitale de ce mini-territoire situé au centre de l’Europe […] l’un, sans doute, des plus petits pays au monde”[30] che diventa centro della terra, centro di orbite parallele sulle quali si dispongono tutte le possibili etnie “dans leur spécificité de langue, culture, costume, aspirations et singularités”.[31] Qui l’intero corpo del testo si svolge a spirale dal corpo del poeta, suggerendo attraverso i suoni l’immagine di uno spazio costellato di un’umanità multicolore, un variegato scenario di razze e di culture. La geografia spiralica appare quasi in uno squarcio aeropoetico, che non celebra, però, motori in picchiata né minacciose ed esaltate ricognizioni; il poeta si libra in una sorta di litania espositiva per racchiudere nell’occhio della mente i popoli che vorrebbe abbracciare, nella realtà, senza riserve. Le parole in atto sono staccate dal lungo elenco e lanciate nello spazio acustico. La voce del poeta, in uno slancio empatico, le dissemina con l’intenzione di raggiungere terreni fertili. Sottolinea giustamente Bobillot che nessuno di fronte alla lettura/azione di Vaduz potrebbe, nemmeno per un istante, negarne “le haut emportement lyrique, imperturbablement internationaliste, en un mot: engagé, dans l’acception la plus large, la plus largement humaine, planétaire, de ce terme si souvent, et tellement, galvaudé – ainsi rendu à sa dignité”.[32]

Ho cominciato ad apprezzare Bernard Heidsieck negli anni Settanta. Lo incontrai la prima volta nel 1979. Quell’anno, Adriano Spatola ed io lo invitammo al festival di poesia visuale e fonetica Oggi Poesia Domani, che avevamo organizzato a Fiuggi. Bernard propose Vaduz. Fu una grande emozione. Il giorno dopo, per festeggiare l’evento, mia moglie ed io preparammo un pranzo memorabile nella nostra casa di Alatri con Adriano e Tiziano Spatola, Giulia Niccolai, Corrado Costa, Arrigo Lora Totino, Paul Vangelisti e John Mc Bride. Bernard era l’ospite d’onore. In quell’occasione nacque una grande amicizia, con reciproca stima per i nostri lavori in corso. La sua voce ha continuato a risuonare nella mia testa per anni. Bernard ci ha lasciato il 22 novembre 2014. Era nato a Parigi nel 1928. Non sarà dimenticato.

 

 



[1] Sul n° 2 della rivista “Grâmmes”, 1958.

[2] Bernard Heidsieck, “Nous étions bien peu en… ”, in Notes convergentes, Éditions Al Dante, Romainville, 2001.

[3] Jean-Pierre Bobillot riferisce una frase di Jean-Luc Godard, adattandola alla «poésie action» con gli opportuni accorgimenti per la trasposizione dall’ambito cinematografico, nella quale il regista, mutuando Malraux, scrive : “il s’agit d’entendre avec les oreilles le son de notre propre voix que nous avons l’habitude d’entendre avec notre gorge. Il suffirait alors d’un Nagra ou d’un Telefunken. Mais c’est parce que ce n’est pas tout. Cette voix qui sort du haut-parleur, nous finissons certes par l’accepter pour la nôtre, mais il m’empêche qu’à travers l’oreille elle est autre chose, très exactement, elle est les autres, et il nous reste alors une chose bien difficile à faire qui est d’écouter les autres avec sa gorge. Ce double mouvement qui nous projette vers autrui en même temps qu’il nous ramène au fond de nous-mêmes définit physiquement la poésie action [le cinéma]”. In Jean-Pierre Bobillot, Bernard Heidsieck. Poésie action, Éditions Jean-Michel Place, Paris, 1996 ; ripreso da Jean-Luc Godard, Les années Karina, Flammarion, Paris, 1990.

[4] Bernard Heidsieck, “Nous étions bien peu en… ”, in Notes convergentes, cit.

[5] Adriano Spatola, Verso la poesia totale, Paravia, Torino, 1978.

[6] Cit. in Bobillot, cit.

[7] Bernard Heidsieck, Pour un poème donc, debout…, testo manifesto scritto per l’esposizione di Jean Degottex alla “Galerie internazionale d’art contemporaine”, 1961, ora incluso in Bobillot, cit.

[8] Bobillot, cit.

[9] Bernard Heidsieck, “Poésie sonore et musique”, in Notes convergentes, cit.

[10] Si veda Paul Zumthor, Poesia dello spazio, in “La Taverna di Auerbach”, n° 9/10, 1990. Trad. Fr. : Une poésie de l’espace, in “Poésies sonores”, édité par Vincent Barras et Nicholas Zurbrugg, Edition Contrechamps, Genève, 1992.

[11] Roland Barthes, Le plaisir du texte, Seuil, Paris, 1973.

[12] Bernard Heidsieck, “Poésie sonore et musique”, cit.

[13] Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 1968.

[14] Adriano Spatola, “Scrittura come collaborazione”, in André Breton, un uomo attento, a cura di Ferdinando Albertazzi, Longo, Ravenna, 1971.

[15] Ilya Prigogine, La nuova alleanza, Bompiani, Torino, 1981; cfr. anche Rudolf Arnheim, Entropia e arte, Einaudi, Torino 1974 e Omar Calabrese, L’età neobarocca, Laterza, Roma-Bari, 1987.

[16] Bernard Heidsieck, “Poésie sonore et musique”, cit.

[17] Bernard Heidsieck, “Nous étions bien peu en… ”, cit.

[18] Bobillot, cit.

[19] Adriano Spatola, Poesia, Apoesia e Poesia Totale, in “Quindici”, n° 16, 1969.

[20] Ivi

[21] Josè Gil, Corpo, in “Enciclopedia Einaudi”, Torino 1979.

[22] Bernard Heidsieck, “Nous étions bien peu en… ”, cit.

[23] Ivi

[24] Antonin Artaud, cit.

[25] Monique Borie, Antonin Artaud. Le Théâtre et le retour aux sources. Une approche anthropologique, Gallimard, Paris 1989.

[26] Bernard Heidsieck, “Notes convergentes (poésie-action et magnétophone)”, in Notes convergentes, cit.

[27] Ivi

[28] Ivi

[29] Ivi

[30] Bernard Heidsieck, inedito trascritto in Bobillot, cit.

[31] Ivi

[32] Bobillot, cit.




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