Le dinamiche multiple della ‘Poésie-action’
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Un ferratissimo articolo-saggio per ricordare l’artista francese morto 86enne pochi mesi fa. Figura fondamentale nel campo della poesia performativa francese e internazionale del secondo Novecento, con grande autocoscienza critico-teorica egli sapeva tenere in mirabile equilibrio e in potente sinergia poietica testo, voce, gesto e tecnologia. Se l’azione del grido poetico di Artaud era essenzialmente centripeta, il suo lavoro compositivo ed esecutivo era invece centrifugo, proiettato ad interagire col pubblico, a valersi di elementi di improvvisazione. “Vaduz” (1974) è forse il poema plurivocale e polisemantico che meglio lo rappresenta.
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di
Giovanni Fontana
Agli inizi del secolo
scorso Henri Martin Barzun, Fernand Divoire e Sébastien Voirol iniziano a
costruire poemi in chiave simultaneista, dove versificazioni parallele
presuppongono la contemporaneità nella lettura e l’applicazione di un plurivocalismo
da esercitare secondo ritmi e modalità suggerite dalla disposizione del testo.
Seguono gli spartiti optofonetici dei futuristi, con le loro declamazioni
dinamiche e sinottiche, e le ridde fonetiche dadaiste; ma solo negli anni
Cinquanta si parlerà di Poésie Sonore,
termine introdotto dal decollagista Jacques Mahé de la Villeglé, nel 1958, a
proposito dei crirythmes di François
Dufrêne,[1] quando la
diffusione del magnetofono commerciale e del microsolco offrivano straordinarie
indicazioni di percorso.
Il rapporto con queste
tecnologie, infatti, inaugura per la poesia una nuova stagione creativa, che
subito rivela personalità di grande rilievo; tra queste si distingue, per
l’originalità della ricerca artistica, quella di Bernard Heidsieck, maestro
indiscusso della Poésie Action.
Heidsieck,
come del resto Henri Chopin, acquista il suo primo magnetofono nel 1959 su
consiglio di un amico di François Dufrêne, che già da tempo usa registrare i
suoi crirythmes su nastro. Con
impasti informali di grida, sospiri e acrobazie glossolaliche, Dufrêne segna,
nel gruppo dei Lettristi, il passaggio dal fonetismo diretto ad una sorta di poesia
magnetofonica, se non altro per il fatto che, primo fra tutti si serve del magnetofono
come strumento di “scrittura”, anche se l’apparecchio è usato come semplice
registratore di suoni e non come strumento per l’elaborazione della voce. Del
resto siamo ai primi esperimenti; ma nel giro di pochissimo tempo, la
diffusione del magnetofono a nastro renderà possibile il montaggio, tecnica rivoluzionaria
che, nel dopoguerra, Pierre Schaeffer non aveva potuto mettere in pratica con
il registratore a filo. La nuova tecnologia segnala inattese opportunità a
Henri Chopin, che utilizza echi, riverberi e variatori di velocità per
l’elaborazione della materia sonora, e a Brion Gysin, che mette a punto la
tecnica del cut-up. Una vasta gamma di prove tecniche è immediatamente sperimentata
da una sparuta schiera di nuovi poeti, artisti della voce e della parola, del
suono e del gesto, fra i quali Bernard Heidsieck, che dopo una fase di
rodaggio, inizia a canalizzare i suoi poèmes-partitions
nel multipista, trattando il nastro ed includendo nelle registrazioni vocali
anche altri materiali sonori. Ciò avviene del tutto spontaneamente, senza
contatti tra gli artisti, al di là di qualsiasi ipotetico progetto di movimento.
Ricorda Heidsieck che “Dufrêne, Chopin, Gysin et moi-même
vivions en effet tout le quatre à Paris sans nous connaître. Chacun
travaillait isolément. Il n’était donc nullement question d’avant-garde. Chacun, de façon parallèle, chacun au magnétophone,
faisait un travail de recherche, mais qui, passion incluse, se savait
foncièrement voué à dépasser le stade expérimental du laboratoire. O
combien ! Nous nous sentions forts de cette certitude!”.[2]
Per
Heidsieck il magnetofono è un vero e proprio strumento di composizione poetica
“totale”, che, da una parte media la voce, dall’altra la sostiene nell’azione.
Ma l’apporto del nuovo mezzo tecnico si rivela ben presto di importanza
notevolmente superiore a quella valutata nella prima ora. Infatti, la
registrazione immediata e la diffusione, che sembrano all’inizio raccogliere in
toto l’esigenza della poesia di uscire dalla pagina, sono arricchiti dalle
risorse che la banda magnetica offre al poema in post-produzione, dove la
parola può essere manipolata in mille modi, deformata, esaltata, distesa,
condensata, ritagliata, triturata, insomma, scomposta e ricomposta, tormentata
e ri-ossigenata a volontà; ma per Heidsieck un aspetto sostanziale è la
riconquista della dimensione dell’oralità perduta, che rivela territori
inesplorati e riconsegna al poeta la propria voce, per alcuni versi
dimenticata, per altri addirittura ignota;[3]
la conseguenza di ciò sarà di stabilire nuovi rapporti con il testo, per la sua
concezione e per la sua costruzione.[4]
Egli, in effetti, ha sempre assegnato pari dignità al testo, alla voce e alla
tecnologia, dimostrando sul piano pratico come queste ultime non debbano essere
considerate alla stregua di meri elementi strumentali (voce come veicolo del testo e registrazione
come relativo supporto tecnico), bensì come sostanziali componenti costruttive,
come straordinari fondamenti creativi, come elementi compositivi funzionali alla
sua particolare concezione della vocalità.
Heidsieck,
infatti, trascende la “poesia fonetica”, legata all’immediata qualità (diretta
e ordinaria) della materia linguistica, ma nello stesso tempo supera la
dimensione della “poesia fonatoria”, che è di Dufrêne o di Chopin, dove il
tessuto sonoro è sopra e sotto i livelli linguistici. Il grido di Dufrêne e le
stratificazioni magmatiche di Chopin si pongono, in realtà, al di là e al di
qua del linguaggio: su entrambi i versanti si privilegia la dimensione della voce
come corpo, senza intermediazioni tecnologiche nel caso di Dufrêne, mediata in
modo alquanto sofisticato in Chopin.
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Bernard Heidsieck
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Heidsieck
lavora invece sulla frammentazione e ricomposizione della lingua, valendosi a
livello testuale di suture che impegnano sincopi e apocopi, elisioni e
apofonie, paronimie e paronomasie, assonanze
e allitterazioni, bisticci e calembours, aferesi e diafore, eufonie, iterazioni,
onomatopee e onomatopeizzazioni. La struttura del verso si avvale, in
particolare, di frammentazioni e ricomposizioni che esigono, nella loro
meccanica sequenzialità, un completamento strutturale sul piano acustico. Ecco
allora il ruolo fondamentale della voce, da una parte, e della tecnologia,
dall’altra. Attraverso l’uso della registrazione multipista si sovrappongono
piani di scrittura e orizzonti sonori. E sotto il segno del simultaneismo non
si ottengono soltanto fugati o contrappunti polifonici, ma si generano
combinazioni verbali che moltiplicano le prospettive del senso.
Un
altro ruolo notevole, nelle composizioni poetiche di Heidsieck, è svolto dai rumori,
di cui l’autore indica sovente nel testo posizione e durata. Non si tratta di
sfondi sonori, di panorami acustici sui quali mettere in scena le parole. Essi
si incastrano nel testo, non assolvendo solo funzioni formali, ma entrando nel quadro testuale
con preciso valore semantico. I rumori di città, le grida, il respiro sono strappi
dal quotidiano che non sono adoperati secondo i metodi dell’assemblage informale; essi sono
immediatamente ricomposti con valore linguistico in una sorta di puntuale
partitura. Si tratta, così, di effettuare attente selezioni, di connettere
sintatticamente i rumori scelti al contesto verbale e di controllare, infine,
l’organicità dello sviluppo nella tessitura. Ecco il taglio, il montaggio, la
scoperta dell’oggetto sonoro. Non si tratta né di sostenere mere valenze
bruitiste, né di suggerire atmosfere da musica
concreta, bensì di concorrere a far emergere zone inesplorate, di contribuire
a sostenere quel processo che esalta la parola trasformandola in azione.
Adriano
Spatola aveva sottolineato che “La concezione della voce come materiale è
indicativa del rapporto che i lettristi hanno con la composizione poetica, la
cui orchestrazione corale, caotica e sregolata, raggiunge risultati di
eccezionale complessità tonale, tanto che non riteniamo sbagliato parlare di
una vera e propria musica informale”. Ma se “Il testo lettrista può […] essere
considerato una specie di partitura” è anche vero che quei testi esistono “indipendentemente dalla realizzazione
sonora, che viene allora considerata come un’ipotesi o affidata, come
tradizionalmente, alla volontà del lettore”.[5]
Non è il caso del poema-partitura di Heidsieck, che con rigore quasi geometrico
indica tempi e spazi, presupponendo, però, un ulteriore sforzo creativo: la
ferma necessità del salto dimensionale da parte dell’autore. Bernard Heidsieck adotta il termine poème-partition nel 1954/55, ancor prima della sua scoperta
tecnologica, componendo Sitôt dit:
“Cette appellation voulait concrétiser leur vocation sonore et le fait que leur
nouvelle disposition sur le papier, à l’image simpliste d’une partition
musicale, me fournissait certaines indications de Lecture, à savoir le rythme,
les durées, la vitesse, les hauteurs de ton”.[6]
Il testo-partitura (salvo qualche raro caso) trova
sempre compiutezza in un livello superiore di scrittura, o meglio, di ri-scrittura
polidimensionale, dove lo spazio-tempo si pone come mediatore di relazioni
interattive tra la componente verbale, la trasposizione vocale, gli inserti
bruitisti e le manipolazioni tecnologiche. In Les pieds sur la page,[7]
Heidsieck considera la stesura del testo come una sorta di “tremplin”: un vero
e proprio trampolino da cui spiccare il balzo risolutivo. Abbiamo visto, infatti,
che il suo progetto poetico richiede sempre un gesto finale, un’azione
decisiva. D’altra parte non rinuncia mai a sottolineare, nei suoi scritti
teorici, che il processo compositivo è articolato su tre livelli (testo, nastro
e performance), tant’è che preferisce parlare di Poésie Action piuttosto che di Poésie
Sonore.
In ogni modo, se la
presenza della voce e quella del corpo (che la produce e la sostiene) hanno un
valore fondamentale nella poesia di Heidsieck, è innegabile che la lingua assuma
un importantissimo ruolo di comprimaria, non solo sulla base dei valori
testuali iscritti nella pagina, ma anche per come è articolata nell’atto
performativo. Si assiste ad una sorta di “teatro” della lingua che non ha
niente a che vedere con il teatro tout
court e che è tanto più pregnante quanto più si allontana dalle tecniche e
dalle formule propositive adottate in campo teatrale. Del resto se la voce è
corpo in movimento, per la “parola sonora” è legittimo riferirsi all’azione o alludere
ad una “théâtralité de la langue”, come sostiene Bobillot.[8] Anche se
c’è da chiarire immediatamente che, se di teatralità si può parlare, certamente
non si possono confondere modi e tecniche dell’attore con quelli di un poeta
della lingua, un creatore di poesia dinamica, un artista che fa testo del
proprio corpo e che del corpo fa testo. Per una folta schiera di poeti sonori, in
realtà, da Dufrêne a Chopin, da Blaine a Pierre e Ilse Garnier, l’energia
vocale rappresenta la vita stessa. Heidsieck chiarisce che al poeta sonoro si
richiede un rapporto conflittuale, fisico, con la propria opera e si preoccupa
di prendere le giuste distanze da una teatralità impropria: “Son propos est de
lutter, physiquement, avec son oeuvre, avec son texte, seul, face à un public. De la revivre, de la réinvestir, chaque fois, lui-même,
hors de toute théâtralité, hors de tout esthétisme. De se l’incarner jusqu’au
bout des ongles… mais jusqu’au coin des lèvres, aussi”.[9]
Ecco
la necessità di Heidsieck di spingere il proprio testo oltre l’estremo limite,
facendolo passare per i polmoni, per la gola, per ogni poro della pelle,
facendolo diventare un tutt’uno con se stesso, vivendolo nella propria carne
per poterlo vivere in pieno pubblicamente.
Qui,
la parola è reinventata, ricostruita all’istante nelle sue componenti corporee
e sonore ed è posta in essere nel momento in cui è lanciata nello spazio. Trattando
di poesia sonora Paul Zumthor parlava proprio di “poesia dello spazio”, in
quanto riferita a coordinate altre, in quanto risolta in uno spazio-tempo pulsante,
vitale, ricco di prospettive insospettabili.[10]
Qui
non sarebbe inopportuno ricorrere al concetto di “scrittura ad alta voce”,
espresso da Barthes nel suo Le plaisir du
texte.[11]
Egli, facendo riferimento all’actio della retorica antica, ma prendendo
le distanze da ogni concessione drammatica, parla di “grana” della voce come un
misto erotico di timbro e di linguaggio, caratterizzante l’arte di condurre il
proprio corpo. Per Heidsieck quella “grana” è plasticamente e spazialmente
strutturante.
La
sua voce multilinea esprime una forte energia metamorfica, ma senza
intemperanze, senza soluzioni eclatanti. Contrariamente a quanto accade nella
poesia di autori come Dufrêne, dove l’automatismo ultralettrista, diretto e
parossistico, si fa talora “brut” (come ebbe a dire Chopin), talaltra
irritante, o come Gil J. Wolman, che costruisce i suoi “Mégapneumes” sull’impasto del “flatus” e dei rumori
prodotti da labbra, lingua, gola, escludendo la pronuncia del fonema, o come lo
stesso Henri Chopin, che corre spesso il rischio di farsi prendere la mano
dalle tecnologie riconducendo il testo al grado zero e portando la poesia
sonora a confondersi con la musica concreta ed elettronica, o ancora come
Julien Blaine, che lancia grida stentoree agitando i testi e facendoli
ribollire di impulsi insoliti che possono assumere tono di sfida, per
autoaffermazione ed esaltazione corporea, e di denuncia, quali segnali della
dismisura e della trasgressione, contrariamente a tutti costoro, Heidsieck
trapunta la sua lingua di poeta, finemente inquieta, con i rassicuranti segnali
delle sue esclamazioni e interiezioni; agisce con leggerezza nei confronti delle
proprie tessiture testuali, sempre intelligibili, dove egli ricerca con
insistenza nuovi rispecchiamenti, specialmente quando il gioco dei rimandi
sonori è amplificato dall’uso sapiente della registrazione multipista. Il suo
fraseggio breve, articolato su sospensioni vocali, su sapienti esitazioni, in bilico
tra frammenti di sospiri e respiri, si aggrappa a tracce di rumori consueti, di
brandelli sonori di ossessive ripetitività quotidiane. Egli è un poeta
dell’equilibrio: i valori del testo, della voce, della presenza scenica, delle
componenti tecnologiche sono armonicamente fusi, ma un valore aggiunto è dato
dalla poliritmia, quando le prospettive generate dalle tecniche multitraccia
esaltano gli effetti contrappuntistici della lettura simultanea, giocata sui
differenti piani acustici.
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Heidsieck in 'azione poetica' sul palco (ph. François Janicot)
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La
sua è una scrittura dinamica, la cui fase attuativa (che evolve da quella
statica, di progetto, attentamente studiata sulla pagina), pur contemplando
margini di improvvisazione, non trascura mai il dettaglio. I due piani di
scrittura si arricchiscono vicendevolmente, nel tempo, sul piano dell’azione. Luogo
dell’evento e luogo di progetto finiscono per rispecchiarsi, con reciproco
profitto. A tal proposito, più volte, ho parlato di poesia pre-testuale che sposta progressivamente in avanti la soglia
della testualità, definitiva solo per un attimo e subito riorganizzata e
ri-scritta, che riappare di continuo con un nuovo habitus pre-testuale. Si
passa da una parola-progetto ad un progetto poetico in tabula (in sé concluso,
ma già in grado di mettere in atto un autosfondamento della pagina in senso
spettacolare), che potrà costituirsi come poesia
interrotta, come spartito per
l’attuazione di traduzioni e tradimenti, di espansioni e modificazioni
successive: così di seguito, attraverso continui eventi di scrittura, che
quando si pongono come performativi appaiono irripetibili, volatili, effimeri.
Ma al di là dell’infinita gamma di relazioni tra la scrittura e gli altri
universi linguistici, al di là della carica dinamica della scrittura stessa, la
poesia dello spazio e del tempo ruota sull’energia vitale della voce, sulle sue
qualità poietiche, determinando forme sonore strutturanti, forme sonore di
poesia capaci di catalizzare attorno a sé la girandola magica degli altri
elementi in un tessuto pluridimensionale di interconnessioni. Con il suono,
dunque, anche l’immagine, il colore, l’architettura, il movimento. “Ne s’agit-il pas, pour le poète ‘sonore’, dans la
dynamique obligée de son engagement, et sa soif de contacts, tangible et
immédiats, non seulement de naviguer dans le ‘son’, bien sûr […] mais de se
rendre, soi et son texte, intimement associés, visuels. Pour
que l’écoute, enfin, histoire oblige, s’opère par l’œil!”.[12]
Si entra, qui, evidentemente, in una dimensione sinestetica. E durante l’azione
la forma può appartenere a zone di disordine semantico e cavalcare due o più
codici, due o più classi di oggetti, due o più mondi. È così anche nell’area
della magia. Proprio nell’antica magia con la quale Artaud identificava
l’evento teatrale.[13]
Al lettore-spettatore ancora il compito di ricostruire, o meglio, d’inventare
il senso.[14] La
performance, quindi, apparirebbe come sommatoria di diversi accorgimenti
tecnici, come supremo artificio, come costruzione complessa, che riesce a
circondarsi di senso grazie all’energia profusa. L’artificio, come potenza
impegnata, assicura un ordine alle molecole entropizzate. È un po’ come nel
paradosso di Prigogine, dove non è vero che i sistemi lontani dall’equilibrio
procedano verso il massimo di entropia. È possibile per quei sistemi trovare un
ordine diverso da quello iniziale. La dissipazione di energia li spinge verso
nuovi ordini, lontano dalle dimensioni entropiche.[15]
In
realtà ogni situazione esterna, ogni avvenimento casuale, tutto l’ambiente, che
pure è influenzato dalla performance, influisce su di essa, che a sua volta
riflette modificando all’istante. Si
tratta di “une poésie physique tête chercheuse, active et centrifuge, publique
et tendue vers autrui, ayant humblement ou agressivement choisi pour supports,
le corps, l’espace, le temps, et le risque, en prime dans un débordant souci de
recommunication”.[16] È
un gioco di specchi operato contemporaneamente dal poeta e dal pubblico, presenza
estremamente condizionante, il quale si esprime con segni casuali, gesti di
reazione, tratti espressivi, mormorii, silenzi, sospiri, respiri, colpi di
tosse, applausi, fischi, micro e macromovimenti.
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I poèmes-partitions di Heidsieck
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Su
questo gioco di specchi lavora molto Heidsieck. Egli ricerca un contatto
psico-fisico immediato, ma sottile, leggero. Niente gesti esagerati, niente
sberleffi, bensì l’assunzione composta di un atteggiamento figurale che si
protende e si ritrae attivando, però, passaggi carichi di tensione. Se “Dada”
evidenziava una forte cesura tra poeta e pubblico urlandogli contro e
insultandolo, Heidsieck considera la platea un prolungamento dello spazio
d’azione dove raccogliere stimoli con lucidità, offrendo per contro segnali di sentita
cooperazione: “Nous sommes tous dans le même bain, quant à moi, voici ma
thérapeutique, puisse-t-elle vous être de quelque usage!”.[17]
Il poeta “in situazione” spende la sua parola e investe il pubblico che rilancia
in un gioco d’echi. E si leggono in questo partecipato dispositivo di rilanci
(oltre agli eventuali espedienti tecnici ampiamente diffusi in ambito
performativo, che gli artisti più esperti conoscono per bene), anche
atteggiamenti di tipo essenzialmente umanistico, come sottolinea Bobillot nelle
pagine finali del suo corposo studio su Heidsieck.[18]
Ma, con riferimento alla terapeutica appena citata, rileggerei nell’azione del
poeta quella funzione sciamanica che Adriano Spatola aveva così efficacemente individuato:
“Il poeta si sente il dovere di assumere su di sé a tutti i costi (clown,
pseudosciamano, scemo del villaggio, folle di Dio, ecc.) il ruolo di
manipolatore del fantasma”. Tale fantasma – che identificherei con l’essenza
libera della poesia – “in apparenza così innocuo, così fragile, così idiota, è
l’unico spaventapasseri che possa ridicolizzare il ribrezzo (borghese) per ogni
negazione sostanziale dei valori”.[19]
Ma “bisogna anche avere il buon senso di capire” aggiunge Spatola “che il poeta
è diventato un animale asociale per puro amore verso la società”.[20]
Ed
è in questo gioco sciamanico che svolgono un ruolo fondamentale la presenza del
corpo e la presenza della voce e le continue oscillazioni dei significati a
cavallo dei vari significanti, tra gesto e suono, tra parola e ritmo. Verrebbe
di associare queste oscillazioni a quelli che Lévi-Strauss definisce
“significanti fluttuanti”, carichi di pure forme, simboli allo stato puro
suscettibili di caricarsi di qualsiasi contenuto simbolico; la funzione principale
del “significante fluttuante” sarebbe quella di porsi come mediatore tra
codici: funzione scambiatrice che riconduce al concetto di “mana”. Il corpo,
macchina del linguaggio, non è soltanto il luogo degli scambi, il supporto
delle corrispondenze simboliche tra i diversi codici: esso, che ha capacità
generative, trasforma i significanti in pura energia. Da un punto di vista
antropologico “questi significanti fluttuanti non designerebbero [...] nulla di
preciso, avendo solamente un ‘valore simbolico zero’; sarebbero però provvisti
di una funzione fondamentale perché consentirebbero al pensiero simbolico di
esercitarsi”. Lo sciamano sarebbe colui che “s’incarica [...] di far passare
l’individuo e il gruppo da un codice all’altro, da uno stato all’altro: come i
miti di cui si vale; egli traduce un sistema simbolico in un altro”;[21]
il performer invece sarebbe colui che indica al “lettore” i percorsi dinamici
del significante esibendo il quadro delle possibili oscillazioni tra codici,
traducendo simboli in energie, in un gioco di rimandi, di richiami, di rilanci
di segni nell’iperspazio della sinestesia, dell’interdisciplinarità,
dell’intermedialità, perseguendo l’instabile costruzione di una singolare opera plurale. In quest’ambito svolge
una funzione cardine l’estemporaneità, intesa come capacità di esercitare
funzionalmente la creatività di fronte all’evenienza inattesa, all’istanza
imprevista: “La poésie sonore peut […] faire appel à l’improvisation, à la
spontaneité pure, n’ayant crainte de se soumettre aux aléas du hasard”.[22]
D’altra parte ciò è perfettamente compatibile con il
concetto della pagina-trampolino “d’où doit s’extraire et jaillir le poème,
sons, verbes, phonèmes, lettres, bruitages étant utilisés à l’abri de tout
systématisme” contro “une poésie-rébus, passive et d’attente”, contro una
poesia che “comme une taupe cherche à se terrer dans les ultimes replis du
papier, rêvant dans sa coquetterie de le laisser blanc!”.[23]
Ma tra tutti gli elementi che intervengono nella
performance (è bene sottolinearlo ancora) è certamente la voce a rappresentare
l’energia interna necessaria ad alimentare la rete delle relazioni con il
mondo.
Tra gioco ed ironia, rito
e psicodramma, beffa e impegno civile, la voce segna passo per passo l’esistenza
e il ruolo del poeta sonoro. Artaud è considerato un modello primario per
l’idea di linguaggio unico tra gesto e pensiero, per l’importanza assegnata
alle qualità vibratorie della parola, per la sua nozione di lucida crudeltà
senza strazio: se non altro perché il respiro segna il tempo teatrale
partecipando del tempo cosmico, secondo l’alternarsi dell’elemento maschile e
di quello femminile, in un gioco che traccia l’unicità androginea del senso.[24] Nello
stesso tempo egli dichiara la parola orale come la sola autentica e viva. Le
“case delle parole” costruite a colpi di precetti non sono che prigioni del
senso, angusti spazi in cui la scrittura cristallizza in formule che non hanno
potere di espansione.[25] Ma la
dimensione artaudiana è anche pervasa dall’azione dissociatrice del grido. “Manifestation asphyxiée de la fin d’un cycle, ce cri –
scrive Heidsieck – a fait exploser le livre, a déchiré l’air, comme ne le
pouvaient plus, parvenus à ce stade ultime, final, à cette époque précise, la
parole inflationniste, les mots, rongés et pourri, brûlés”.[26]
Ma
il grido ha anche potere centripeto, si fa polo di condensazione, fuoco di
estrema concentrazione divenendo addirittura impenetrabile. “Le cri d’Artaud est apparu comme le point culminant du
développement centripète de la poésie depuis Baudelaire”.[27]
Occorre, allora, praticare un ribaltamento che si risolva in un coinvolgimento
positivo: “cri écartelé mais déchirure-charnière puisque, avec l’un et l’autre,
un nouveau cycle, centrifuge, cette fois, s’est ouvert à la poésie. Le poème se
retourne de 180 degrés et s’ouvre au monde. Il est à réinventer. La force de
mots avec lui. Leur sens. Celle, en somme, ou celui de la communication. Simplement”.[28]
Ed è proprio questa esigenza di carica centrifuga a spingere Heidsieck a
riconsiderare la dimensione del grido artaudiano in favore di quella disserrata
e più accessibile ed estesa che fu di Dufrêne: “Si le cri d’Artaud était encore
essentiellement noué sur lui-même, sur sa propre contradiction […], les
‘crirythmes’ de François Dufrêne sont eux, par contre, désormais, résolument
tournés vers le monde, en contact direct avec lui. Spontanés, ils frappent
l’auditoire ou la bande magnétique et cherchent à les sensibiliser d’une
matière ou d’une émotion poétique à l’état pur. Le cap a été franchi. Leur
réceptivité est à la mesure de leur voltage. Leur point d’impact idéal est le
cri, étouffé ou formulé, potentiel en chacun. C’est à ce niveau, enfin, que
s’établir le dialogue. Délibérément recherché”.[29]
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Da sinistra a destra: Bartolomé Ferrando, Giovanni Fontana, Bernard Heidsieck,
Henri Chopin e Francesco Conz a Spera Valsugana (Trento), 1992
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Questa tensione
centrifuga, che pervade tutta l’opera di Heidsieck da Canal Street a Derviche/le
Robert, dai Poèmes-partitions alle
Biopsies, dai Passe-partout a Respirations
et brèves rencontres, ne caratterizza anche il tratto saliente della personalità;
ma, emblematicamente e più efficacemente che altrove, è rappresentata in Vaduz, poema del 1974, una composizione
scritta per l’inaugurazione di un centro d’arte in Liechtenstein “ce
maxi-village, capitale de ce mini-territoire situé au centre de l’Europe […]
l’un, sans doute, des plus petits pays au monde”[30] che
diventa centro della terra, centro di orbite parallele sulle quali si
dispongono tutte le possibili etnie “dans leur spécificité de langue, culture,
costume, aspirations et singularités”.[31] Qui
l’intero corpo del testo si svolge a spirale dal corpo del poeta, suggerendo
attraverso i suoni l’immagine di uno spazio costellato di un’umanità
multicolore, un variegato scenario di razze e di culture. La geografia
spiralica appare quasi in uno squarcio aeropoetico, che non celebra, però, motori
in picchiata né minacciose ed esaltate ricognizioni; il poeta si libra in una
sorta di litania espositiva per racchiudere nell’occhio della mente i popoli
che vorrebbe abbracciare, nella realtà, senza riserve. Le parole in atto sono
staccate dal lungo elenco e lanciate nello spazio acustico. La voce del poeta,
in uno slancio empatico, le dissemina con l’intenzione di raggiungere terreni
fertili. Sottolinea giustamente
Bobillot che nessuno di fronte alla lettura/azione di Vaduz potrebbe, nemmeno per un istante, negarne “le haut emportement lyrique, imperturbablement
internationaliste, en un mot: engagé, dans l’acception la plus large, la plus
largement humaine, planétaire, de ce terme si souvent, et tellement, galvaudé –
ainsi rendu à sa dignité”.[32]
Ho cominciato ad apprezzare
Bernard Heidsieck negli anni Settanta. Lo incontrai la prima volta nel 1979.
Quell’anno, Adriano Spatola ed io lo invitammo al festival di poesia visuale e
fonetica Oggi Poesia Domani, che
avevamo organizzato a Fiuggi. Bernard propose Vaduz. Fu una grande emozione. Il giorno dopo, per festeggiare
l’evento, mia moglie ed io preparammo un pranzo memorabile nella nostra casa di
Alatri con Adriano e Tiziano Spatola, Giulia Niccolai, Corrado Costa, Arrigo
Lora Totino, Paul Vangelisti e John Mc Bride. Bernard era l’ospite d’onore. In
quell’occasione nacque una grande amicizia, con reciproca stima per i nostri
lavori in corso. La sua voce ha continuato a risuonare nella mia testa per
anni. Bernard ci ha lasciato il 22 novembre 2014. Era nato a Parigi nel 1928.
Non sarà dimenticato.
[1] Sul n° 2 della rivista
“Grâmmes”, 1958.
[2] Bernard Heidsieck, “Nous étions bien peu
en… ”, in Notes convergentes,
Éditions Al Dante, Romainville, 2001.
[3]
Jean-Pierre Bobillot riferisce una frase di Jean-Luc Godard, adattandola alla
«poésie action» con gli opportuni accorgimenti per la trasposizione dall’ambito
cinematografico, nella quale il regista, mutuando Malraux, scrive : “il
s’agit d’entendre avec les oreilles le son de notre propre voix que nous avons
l’habitude d’entendre avec notre gorge. Il suffirait alors d’un Nagra ou d’un
Telefunken. Mais c’est parce que ce n’est pas tout. Cette voix qui sort du
haut-parleur, nous finissons certes par l’accepter pour la nôtre, mais il m’empêche
qu’à travers l’oreille elle est autre chose, très exactement, elle est les
autres, et il nous reste alors une chose bien difficile à faire qui est
d’écouter les autres avec sa gorge. Ce double mouvement qui nous projette vers
autrui en même temps qu’il nous ramène au fond de nous-mêmes définit
physiquement la poésie action [le cinéma]”. In Jean-Pierre Bobillot, Bernard
Heidsieck. Poésie action, Éditions Jean-Michel Place, Paris, 1996 ;
ripreso da Jean-Luc Godard, Les années Karina, Flammarion, Paris, 1990.
[4] Bernard Heidsieck, “Nous étions bien peu
en… ”, in Notes convergentes,
cit.
[5] Adriano Spatola, Verso la poesia totale, Paravia, Torino, 1978.
[6] Cit. in Bobillot, cit.
[7] Bernard Heidsieck, Pour un poème donc, debout…, testo manifesto scritto per l’esposizione
di Jean Degottex alla “Galerie internazionale d’art contemporaine”, 1961, ora
incluso in Bobillot, cit.
[9] Bernard Heidsieck, “Poésie sonore et musique”, in Notes convergentes, cit.
[10] Si veda Paul Zumthor, Poesia dello spazio, in “La Taverna di Auerbach”, n° 9/10, 1990. Trad.
Fr. : Une poésie de l’espace, in “Poésies sonores”, édité par Vincent Barras et
Nicholas Zurbrugg, Edition Contrechamps, Genève, 1992.
[11] Roland Barthes, Le plaisir du texte, Seuil, Paris, 1973.
[12] Bernard Heidsieck, “Poésie sonore et musique”, cit.
[13] Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 1968.
[14] Adriano Spatola, “Scrittura come
collaborazione”, in André Breton, un uomo
attento, a cura di Ferdinando
Albertazzi, Longo, Ravenna, 1971.
[15] Ilya Prigogine, La nuova alleanza, Bompiani, Torino, 1981; cfr. anche Rudolf Arnheim, Entropia e arte, Einaudi, Torino 1974 e Omar Calabrese, L’età
neobarocca, Laterza, Roma-Bari, 1987.
[16] Bernard Heidsieck, “Poésie sonore et musique”, cit.
[17] Bernard Heidsieck, “Nous étions bien peu en… ”, cit.
[19] Adriano Spatola, Poesia, Apoesia e Poesia Totale, in “Quindici”, n° 16, 1969.
[21] Josè Gil, Corpo, in “Enciclopedia Einaudi”, Torino 1979.
[22] Bernard Heidsieck, “Nous étions bien peu en… ”, cit.
[24] Antonin Artaud, cit.
[25] Monique Borie, Antonin Artaud. Le
Théâtre et le retour aux sources. Une approche anthropologique,
Gallimard, Paris 1989.
[26] Bernard Heidsieck, “Notes convergentes
(poésie-action et magnétophone)”, in Notes
convergentes, cit.
[30] Bernard Heidsieck, inedito trascritto in Bobillot, cit.
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