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di
Antonino Contiliano
Che infelice sequela di congedi dalla vita tra il 2014
e questo freddo Duemilaquindici! Stavo per partire in aereo e raggiungere un
pugno di amici e sfegatati della poesia e della letteratura. Dove? Dalla Sicilia
verso altre regioni italiane! In quel mentre… mi raggiunse la notizia di un
altro volo, la morte dell’amico Ignazio Apolloni. Fu la voce che mi certificò il
decollo dell’amico e scrittore Ignazio Apolloni (penna loquace) nello stagno permanente
di questo paese marcescente. Un paese, il nostro, dove la voce del silenzio
verace rimane sospesa e mai accetta come liberazione dai segreti delle colpe e
delle responsabilità dirette. Che pena per Ignazio (privato della parola orale
e scritta)! Alla tarda del 27 febbraio 2015, Ignazio (“esiliato a vita”) era
spedito altrove e senza più l’uso della parola, del verbo. Il suo logos da
fioretto toccata e fuga non era più in esercizio. Lui, che, – come ha scritto e
detto in tante occasioni delle sue scritture e dei nostri pungenti scambi dialogici,
– sempre ironico e autoironico (svagato e vagante fra parole e calembours già battuti e motti…, pungente e sfidante l’altrui intelligenza),
amava dire “Io non ho mai scritto la
parola morte”; lui ora se ne andava ad abitare l’altrove di chi ha la
facoltà di morire. Ma, forse, pensandoci sopra (come si dice), è meglio dire
che è stata la morte che ha deciso di liberarsi di un “detective” scomodo. Non
ne poteva più di un ficcanaso ridente e critico fin dove il limite scriveva stop! Scomodo perché frugava persino
dove le parole erano solo ombre o pretesti per esercizi di scrittura
letteraria. Non pochi gli scritti dove la morte, tra “uno sterminato numero di
fotografi da strapazzo, tipo paparazzi”, era occasione di un non sottaciuto
riso ironico. Così è per “MORTE A VENEZIA” (T. Mann), uno dei racconti
racchiusi nel suo Detective stories. L’ultimo
libro speditomi con dedica (affettuosa).
E come dimenticare il suo frugare tra le altre storie di
“star” che la morte ha spedito nella terra delle ombre non più riflesse. Sono
le ombre delle star femminili che la penna irriverente e giocosa di Ignazio
Apolloni ha tinteggiato nel libro (quasi un diario) Lettres d’amour à moi même. Ignazio
è stato anche scrittore di FAVOLE PER ADULTI. Divertito, amabile e divertente egotico “letterato” sperimentale
(di sé amava dire che era un letterato perché scriveva delle “lettere”), ha
lasciato i suoi acidi e saporiti acini in molti scritti. Per email curava
contatti veloci e continui. Allontanava il suo morire. Scriveva lettere
indirizzate a personaggi – uomini e donne – seppure deceduti. Figure che, in diversi modi e in ogni modo, hanno scritto
parte della storia e della cultura italiana, e non solo.
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Ignazio Apolloni (ph. Piero Carbone)
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Caro Ignazio anche a tua moglie Vira Fabra, dopo
morta, hai scritto una lettera. Vira. Amica Cara. Non dimentico. Come non
dimentico la vostra casa Antigruppo,
un vero “museo” artistico con tutte le tracce dipinte e scritte del taglio
“antigruppo” storico sui muri, le porte, i tavoli, le tovaglie … Oggi la vostra
casa palermitana è sede della Fondazione Vira Fabra. Vira, come te, è stata anima
inquieta e sperimentale dell’Antigruppo
Siciliano. Gruppo, questo, di poeti e scrittori molto polemici (anche litigiosi),
è vero, ma vivi e propositivi. Ma in tanti ne hanno snobbato il poiein e ne scrivono senza conoscerne a
fondo gli scritti, il pensiero e l’azione di rottura “anti” e vs l’omologazione.
La palude che aggredisce e sbarra gli sviluppi della cultura siciliana e
meridionale (in genere) non molla facilmente la preda! E a memoria d’affetti
che, qui, autorizzandomi da solo (non ti chiedo né scusa né perdono per
l’iniziativa senza il tuo timbro – tu diresti, forse, ironico come sei stato fino
alla morte, “non c’è bisogno della mia ceralacca”), ora, riporto per interno la
lettera che scrivesti a tua moglie Vira (dopo morta) e che mi spedisti via
email prima di sistemarla nel volume MASSIMI SISTEMI:
Chi l’avrebbe detto che si pervenisse a tanto (tra
l’indifferenza generale, mi pare di capire). Nella più assoluta solitudine –
non proprio dei numeri primi di cui a un recente romanzetto tanto pubblicizzato
da essere diventato un best seller e influenzato un buon numero di ragazzi
afflitti dalla sindrome di incompresi dalla famiglia – c’è ancora chi si
interroga su neuroni e sinapsi oppure sulle figure geometriche. Ci scorrono
sotto gli occhi e non ne afferriamo il senso, la valenza archetipica del
pensiero così come elaborata da Proclo, il grande filosofo neoplatonico del V
secolo autore del celebre commento al I° libro degli “Elementi” di Euclide.
Sono lì, in natura o nell’artificio delle costruzioni, pronte ad essere
osservate, indagate per scoprirne il mistero che però resta tale se non
coniugate con la fantasia dell’uomo. Ma che cos’è la fantasia, prodotto umano o
no che sia? diresti con uno dei tuoi soliti interrogativi descritti e
analizzati da Antonino Contiliano nel testo La
voce femminile di Vira Fabra letto in occasione della presentazione, alla
Feltrinelli, di Cartesio un filosofo da
amare).
Domanda retorica, per alcuni; sostanza innegabile di
tutto ciò che è seguito alla bruta natura dopo la nascita della specie umana;
forma di arricchimento del pensiero sul pensiero. “Per la conquista
dell’Universo, per non avere fine”. Merito dunque di Euclide, Archimede e
Apollonio che ci si sono ammattiti, non disgiunto dagli ultimi esiti nel campo.
In alcuni dei tuoi scritti leggo i nomi di Gauss e Riemann, e resto stupito.
Chi mai avrebbe immaginato di questo tuo interesse per cerchi o parallele, per
non dire dell’erronea concezione che Keplero ebbe del sistema solare come un
incastro di solidi “regolari” (contrari già in re ipsa alla fantasia, quando
invece essi sono il prodotto “irregolare” dei gas in cui il mondo tutto è
sommerso)? Ciò che però mi attrae di più in questi studi è l’aspetto meno
metafisico e più scientifico. C’è stato in passato il tempo dei garofani e
delle rose: oggi mi auguro solo quello delle rose. Non più profumi forti, da
stordire, ma delicati. A relegare i primi in profumerie lasciando che i secondi
emettessero effluvi capaci semmai di eccitare la fantasia ci si è cominciato a
pensare nel XX secolo, ad opera di Paul Klee. La dissacrazione però può farsi
risalire senza possibilità di smentita alle “immagini irridenti e
demistificanti” delle Commedie di
Aristofane. Ecco quando si dice, e non si sbaglia, che la storia dell’umanità
ha bisogno di qualsiasi briciola di pane, seppure raffermo. Nel caso tuo si
trattava di una pagnotta intera e sopratutto fresca di giornata.
Caro Ignazio anche il tuo essere Shahrazād è stato messo a
tacere dalla Signora della notte. Ma penso che ti abbia ritirato il passaporto
non senza rimpianti. In fondo ne celebravi la vita e le rinascite. Hai scritto
tanto e su molte corde. Anche la poesia non hai trascurato, la teoria, la singlossia,
le riviste (Intergruppo Palermo…), etc.
Ma sono convinto che tu, imperterrito e malizioso sorriso non tacitato,
continui a interrogare e spulciare fra le ombre e le onde del “mar morto” e del
suo silenzio. In fondo anche tu ritorni da dove sei venuto (come tutti e
tutto), cioè nel fondo senza fondo: il silenzio. E ora, come si conviene, e non
senza il sornione sorriso del tuo sguardo strabico,
a te il mio ricordo come un saluto non lamentoso. Una memoria che ti sa essere
stato un pensare, per dirla con Hannah Arendt, della “mente allargata”. Quella
Hannah Arendt, donna, pensatrice e teorica politica, però, cui non hai
perdonato, come ti lasci andare nelle tue Lettres d’amour à moi même,
solo l’esperienza della parentesi amorosa con Martin Heidegger. Il Martin
dell’esistenzialismo negativo, della finitudine e dell’uomo per la morte e per
il nulla. Il filosofo dell’esser-ci per la morte che della caccia nazista agli
ebrei fu firma nel suo discorso di “dottorato”.

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