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di Mario Lunetta
Quando si perde
un amico col quale si aveva una forte consonanza sia sul piano umano che su
quello intellettuale scriverne diventa un’acuta forma di sofferenza, e comunque
di inadeguatezza rispetto a ciò che si è perduto. Questo appunto mi accade parlando di Giuseppe Neri. Niente e nessuno
potranno restituircelo. Restano i suoi libri, due dei quali ho riletto in
questi giorni con forte turbamento, come se tornassi a ascoltare la sua voce
pacata, che di colpo poteva accendersi in un giudizio sferzante su un autore o
un’opera (un libro, un film, una trasmissione, un articolo, un saggio) o in
un’approvazione toto corde convinta.
Il mio, il
nostro amico Giuseppe Neri ci ha lasciati lo scorso 4 marzo chiudendo la sua pratica
in poche settimane durissime. Uscendo dalla camera mortuaria del Policlinico
Umberto I dopo l’ultimo saluto, mi dicevo che quando se ne va una persona non
comune, anche il luogo asfittico destinato a ospitarla per poche ore si anima
di vibrazioni misteriose, di indecifrabili sonorità senza suono.
Romano di
adozione, Giuseppe Neri (Peppino per gli amici) era nato nel 1936 a S.
Apollinare (FR), e aveva cominciato a collaborare giovanissimo alle pagine de
“Il Mondo” di Pannunzio. I suoi interventi, di prevalente coté letterario, avevano poi visto la luce su alcune delle più
prestigiose riviste culturali italiane (Tempo
presente; Nord e Sud, tra le
altre). Aveva scritto a lungo per “Il Messaggero” e per molti anni, come
direttore dei programmi culturali di Radio Rai, aveva curato molte rubriche non facilmente dimenticabili: trasmissioni di
alta qualità come “Il Paginone” e “Lampi”, per le quali passarono gli
intellettuali, gli scienziati, gli artisti, gli scrittori più qualificati del
nostro paese: un materiale prezioso che Neri filtrava attraverso la sua
cultura, la sua sensibilità di scrittore e la sua esperienza di conduttore, che
sarebbe una straordinaria sorpresa disseppellire dagli archivi e fissare su un
supporto cartaceo o elettronico.
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Giuseppe Neri (1936-2015)
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Il primo romanzo
di Neri (L’uccello di Chagall,
finalista al Premio Viareggio Opera
prima, cui hanno fatto seguito Verso il
terzo millennio, 1987, la raccolta di racconti L’ultima dogana, 1990, Premio Selezione Campiello; Bolero, 1999) uscì nel lontano 1983 per
le Edizioni Bastogi. Il titolo risulta niente più che un’allusione visiva, uno
sguardo su una tela del pittore russo durante un incontro con una donna: una
sorta di labile desiderio di liberazione da una situazione di sconforto e di delusione
privata e civile. È l’ombra degli anni seguiti alle illusioni del ’68 che si
aggira per queste pagine come un fantasma carico di rimozioni e di sensi di
colpa, in cui anche il rapporto con la sua donna e con suo figlio bambino
riempiono il protagonista di abulìa e di vuoto: “di questo vuoto che si allarga
e prolifera e che bisognerà pure zavorrarlo in qualche modo ma in quale modo se
non trova adeguati surrogati se non intravede surrettizi sostegni o possibili
rimpiazzamenti a queste sue banali privatissime frustrazioni d’altra parte si
ripete tra un gluglù e l’altro e non certo per inventarsi degli alibi e perché
mai dovrebbe si ripete che appartiene a una generazione che non è riuscita mai
a farsi coinvolgere dalla storia – dalla storia? – che è rimasta sempre esclusa
tagliata fuori dai fatti collettivi dagli eventi pubblici e perciò se un senso
voleva dare alla propria esistenza questo doveva cercarlo e trovarlo nella
propria sfera privata individuale intima e per di più questa generazione senza
radici e senza maestri ‒ ma oggi
ci possono essere ancora maestri e maestri di che cosa? di vita? di sapere? –
si è trovata compressa schiacciata fra due miti dai quali per ragioni uguali e
contrarie è stata emarginata. Della resistenza non gli ideali ma la retorica di
quegli ideali le è stata tramandata le carcasse di vuote reboanti parole la
rutilante gonfia putrida coreografia delle ufficialcelebrazioni l’osceno
sproloquio degli incanagliti abitatori del palazzo ha avuto in eredità e
neppure dell’effimera festa sessantottesca da quell’ingenua screziata nube di
desideri fantasie utopiche istanze è riuscita la sua generazione nonché a
lasciarsi travolgere neppure a farsi sfiorare. Come uno spettatore pignolo
attento goloso ma incapace di trasformarsi in attore ha guardato dalla platea
la recita collettiva e sempre imprevedibile che si svolgeva sul proscenio delle
strade e delle piazze senza riuscire a trovare lo slancio di farsi coinvolgere
e macerandosi nell’invidia per la capacità di quella imberbe bella gioventù di
vivere nel provvisorio di trasformare la precarietà in stabilità per la
disponibilità d’ingolfarsi in impossibili avventure rese possibili per il gusto
dell’azzardo quotidiano per la facoltà di trasformare i desideri in realtà
Prendi i tuoi desideri per realtà perché io credo nella realtà dei miei
desideri ricorda che così recitava una delle innumerevoli massime che
scoppiavano come boccioli di margherite in quei giorni ormai lontanissimi sulle
loro giovani labbra poi anche quella festa mobile scambiata per eccesso di
ottimismo o di generosità per rivoluzione si spense e in lui rimase il rimorso
più che la delusione di non averne approfittato ma ancora una volta incolpò
l’anagrafe la sua generazione magari la storia – la storia? – che dislocava gli
avvenimenti a scadenze impossibili almeno per lui”
Una scrittura
che cerca in se stessa la libertà che il protagonista del romanzo è incapace di
realizzare in atto: sintassi disarticolata, punteggiatura quasi inavvertita,
pensiero spiralico che si avvita nelle sue volute segnate da interrogazioni
reiterate, aggettivazione quasi sistematicamente straniante. Neri si muove, in
questo libro molto personale, sulla scia degli ultimi lasciti dell’avanguardia,
e lo fa con disperata discrezione e introspettiva onestà.
Di vent’anni
dopo è un altro notevole romanzo (Il sole
dell’avvenire, Manni), che rievoca, in una prosa meno azzardosa di quella
del libro precedente, ma sempre sorvegliatissima e densa, un episodio di
ribellione dei contadini avvenuto in quel di Colleforte in Ciociaria all’alba
del Novecento contro l’onnipotente feudatario della zona. Il motore della
sovversione al sopruso secolare è l’avvocato socialista Bernardo Tardone, ma in
controluce, nelle pagine del libro, si intravedono – mai nominate – due figure
di grande rilievo: quella di Antonio Gramsci e quella del pittore Giuseppe Pellizza
da Volpedo, colto mentre prepara il celebre Quarto
Stato.
In tutta la
narrativa di Neri oscilla come un pendolo ora evidente ora sommesso l’interesse
lancinante per l’esplorazione dei geroglifici della psiche intrecciata alla
consapevolezza della storia come enigma. La sua scomparsa non lo ha certo
risolto, lo ha solo lasciato come eredità problematica ai suoi amici e ai suoi
compagni di cordata intellettuale e poetica. Addio, Peppino. Ti sia lieve la
terra.
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