LUOGO COMUNE
ADDII
La storie di Giuseppe Neri sull’enigma della Storia


      
È morto lo scorso marzo a 79 anni, lo scrittore ciociaro, romano d’adozione, narratore e giornalista, per molti anni direttore dei programmi culturali di Radio Rai e curatore di trasmissioni di alta qualità come “Il Paginone” e “Lampi”. Il suo esordio letterario fu nel 1983 col romanzo “L’uccello di Chagall”, finalista al Premio Viareggio Opera prima. Tra gli altri suoi libri: “Verso il terzo millennio” (1987), “L’ultima dogana” (1990), Premio Selezione Campiello, “Bolero” (1999) e “Il sole dell’avvenire” (2003).
      



      

di Mario Lunetta

 

 

Quando si perde un amico col quale si aveva una forte consonanza sia sul piano umano che su quello intellettuale scriverne diventa un’acuta forma di sofferenza, e comunque di inadeguatezza rispetto a ciò che si è perduto. Questo appunto mi accade  parlando di Giuseppe Neri. Niente e nessuno potranno restituircelo. Restano i suoi libri, due dei quali ho riletto in questi giorni con forte turbamento, come se tornassi a ascoltare la sua voce pacata, che di colpo poteva accendersi in un giudizio sferzante su un autore o un’opera (un libro, un film, una trasmissione, un articolo, un saggio) o in un’approvazione toto corde convinta.

Il mio, il nostro amico Giuseppe Neri ci ha lasciati lo scorso 4 marzo chiudendo la sua pratica in poche settimane durissime. Uscendo dalla camera mortuaria del Policlinico Umberto I dopo l’ultimo saluto, mi dicevo che quando se ne va una persona non comune, anche il luogo asfittico destinato a ospitarla per poche ore si anima di vibrazioni misteriose, di indecifrabili sonorità senza suono.

    

Romano di adozione, Giuseppe Neri (Peppino per gli amici) era nato nel 1936 a S. Apollinare (FR), e aveva cominciato a collaborare giovanissimo alle pagine de “Il Mondo” di Pannunzio. I suoi interventi, di prevalente coté letterario, avevano poi visto la luce su alcune delle più prestigiose riviste culturali italiane (Tempo presente; Nord e Sud, tra le altre). Aveva scritto a lungo per “Il Messaggero” e per molti anni, come direttore dei programmi culturali di Radio Rai, aveva curato molte rubriche  non facilmente dimenticabili: trasmissioni di alta qualità come “Il Paginone” e “Lampi”, per le quali passarono gli intellettuali, gli scienziati, gli artisti, gli scrittori più qualificati del nostro paese: un materiale prezioso che Neri filtrava attraverso la sua cultura, la sua sensibilità di scrittore e la sua esperienza di conduttore, che sarebbe una straordinaria sorpresa disseppellire dagli archivi e fissare su un supporto cartaceo o elettronico.





Giuseppe Neri (1936-2015)


Il primo romanzo di Neri (L’uccello di Chagall, finalista al Premio Viareggio  Opera prima, cui hanno fatto seguito Verso il terzo millennio, 1987, la raccolta di racconti L’ultima dogana, 1990, Premio Selezione Campiello; Bolero, 1999) uscì nel lontano 1983 per le Edizioni Bastogi. Il titolo risulta niente più che un’allusione visiva, uno sguardo su una tela del pittore russo durante un incontro con una donna: una sorta di labile desiderio di liberazione da una situazione di sconforto e di delusione privata e civile. È l’ombra degli anni seguiti alle illusioni del ’68 che si aggira per queste pagine come un fantasma carico di rimozioni e di sensi di colpa, in cui anche il rapporto con la sua donna e con suo figlio bambino riempiono il protagonista di abulìa e di vuoto: “di questo vuoto che si allarga e prolifera e che bisognerà pure zavorrarlo in qualche modo ma in quale modo se non trova adeguati surrogati se non intravede surrettizi sostegni o possibili rimpiazzamenti a queste sue banali privatissime frustrazioni d’altra parte si ripete tra un gluglù e l’altro e non certo per inventarsi degli alibi e perché mai dovrebbe si ripete che appartiene a una generazione che non è riuscita mai a farsi coinvolgere dalla storia – dalla storia? – che è rimasta sempre esclusa tagliata fuori dai fatti collettivi dagli eventi pubblici e perciò se un senso voleva dare alla propria esistenza questo doveva cercarlo e trovarlo nella propria sfera privata individuale intima e per di più questa generazione senza radici e senza maestri  ‒ ma oggi ci possono essere ancora maestri e maestri di che cosa? di vita? di sapere? – si è trovata compressa schiacciata fra due miti dai quali per ragioni uguali e contrarie è stata emarginata. Della resistenza non gli ideali ma la retorica di quegli ideali le è stata tramandata le carcasse di vuote reboanti parole la rutilante gonfia putrida coreografia delle ufficialcelebrazioni l’osceno sproloquio degli incanagliti abitatori del palazzo ha avuto in eredità e neppure dell’effimera festa sessantottesca da quell’ingenua screziata nube di desideri fantasie utopiche istanze è riuscita la sua generazione nonché a lasciarsi travolgere neppure a farsi sfiorare. Come uno spettatore pignolo attento goloso ma incapace di trasformarsi in attore ha guardato dalla platea la recita collettiva e sempre imprevedibile che si svolgeva sul proscenio delle strade e delle piazze senza riuscire a trovare lo slancio di farsi coinvolgere e macerandosi nell’invidia per la capacità di quella imberbe bella gioventù di vivere nel provvisorio di trasformare la precarietà in stabilità per la disponibilità d’ingolfarsi in impossibili avventure rese possibili per il gusto dell’azzardo quotidiano per la facoltà di trasformare i desideri in realtà

                                                                                                                  Prendi i tuoi desideri per realtà perché io credo nella realtà dei miei desideri ricorda che così recitava una delle innumerevoli massime che scoppiavano come boccioli di margherite in quei giorni ormai lontanissimi sulle loro giovani labbra poi anche quella festa mobile scambiata per eccesso di ottimismo o di generosità per rivoluzione si spense e in lui rimase il rimorso più che la delusione di non averne approfittato ma ancora una volta incolpò l’anagrafe la sua generazione magari la storia – la storia? – che dislocava gli avvenimenti a scadenze impossibili almeno per lui”        





Una scrittura che cerca in se stessa la libertà che il protagonista del romanzo è incapace di realizzare in atto: sintassi disarticolata, punteggiatura quasi inavvertita, pensiero spiralico che si avvita nelle sue volute segnate da interrogazioni reiterate, aggettivazione quasi sistematicamente straniante. Neri si muove, in questo libro molto personale, sulla scia degli ultimi lasciti dell’avanguardia, e lo fa con disperata discrezione e introspettiva onestà.

Di vent’anni dopo è un altro notevole romanzo (Il sole dell’avvenire, Manni), che rievoca, in una prosa meno azzardosa di quella del libro precedente, ma sempre sorvegliatissima e densa, un episodio di ribellione dei contadini avvenuto in quel di Colleforte in Ciociaria all’alba del Novecento contro l’onnipotente feudatario della zona. Il motore della sovversione al sopruso secolare è l’avvocato socialista Bernardo Tardone, ma in controluce, nelle pagine del libro, si intravedono – mai nominate – due figure di grande rilievo: quella di Antonio Gramsci e quella del pittore Giuseppe Pellizza da Volpedo, colto mentre prepara il celebre Quarto Stato.  

In tutta la narrativa di Neri oscilla come un pendolo ora evidente ora sommesso l’interesse lancinante per l’esplorazione dei geroglifici della psiche intrecciata alla consapevolezza della storia come enigma. La sua scomparsa non lo ha certo risolto, lo ha solo lasciato come eredità problematica ai suoi amici e ai suoi compagni di cordata intellettuale e poetica. Addio, Peppino. Ti sia lieve la terra.

 

                                                                                                               

 




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