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Gualberto Alvino
Francesca Latini, Lettura del sonetto Una botta, volendo
predicare. Un pissi-pissi in corte pontificia?,
«Per leggere», xiv, 27, 2014, pp.
33-86.
Altrettanto profondo e ragionato
che avvincente, il saggio di Francesca Latini — uno dei nostri critici più
naturalmente dotati — su un testo attribuito a un ignoto contraffattore del
Burchiello, fissato da Michelangelo Zaccarello nella sua edizione critica
commentata (I sonetti del Burchiello,
Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 2000), si articola in due distinti momenti
esegetici: il primo consiste in una pretta investigazione letterale in cui si snidano
le relazioni celate tra i varî quadri del polittico,
«vere e proprie scene corrispondenti alle unità metrico-sintattiche» (il rapporto
tra il rospo-predicatore e i basilischi nella prima strofa; il passaggio
«perfettamente logico» dalle favole di Esopo nelle terzine all’episodio biblico
di David e Golia nella coda); nel secondo si dimostra, non si dice quanto
persuasivamente, come sotto la lettera il sonetto «in ogni suo pannello
illustrativo, rimandi a quell’evento che non solo segnò le sorti e le coscienze
dei singoli individui all’interno della Chiesa Cattolica, a cominciare da papa
Eugenio IV, ma coinvolse in destini paralleli anche il mondo laico, in
traversie non strettamente locali, ma di respiro europeo: il Concilio di
Basilea (1431-1445). […] La forza di questo secondo processo interpretativo
starà dunque più che nell’individuazione della singola personalità storica,
nella dimostrazione di come tutte le scene del sonetto, a prima vista separate,
rimandino unanimemente alle contingenze dell’evento passato».
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Un ritratto di papa Eugenio IV
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La conclusione cui perviene l’autrice
è che si tratti d’uno scherzo in versi concepito da un funzionario papale «ben
addentro a certe brighe della curia; un’arguzia insomma da far leggere per
diletto ai colleghi di Camera, in un contesto amichevole come quello del
bugiale (con momentanea sede fiorentina, o magari senese?) della corte di papa
Eugenio IV».
Non è ovviamente possibile in
questa sede dar conto di tutte le minuziose analisi che scandiscono la
complessa istruttoria storico-filologica, sicché non faremo che accennare a una
delle numerose proposte esplicative. Là dove Zaccarello segna (v. 14) «se
ʼ fanciu’<gli> son montati sopra ʼ gioggi», chiosando: «‘se i
ragazzini contano più dei giudici’ (gioggi,
voce non altrimenti attestata, dovrebbe essere deverbale da giuggiare, ‘giudicare’)», la Latini
ritiene opportuno leggere «sopr’a gioggi», così argomentando: «Lo scoglio
interpretativo si supera allorché l’oscuro vocabolo è ricondotto in seno a
quell’espressione idiomatica dell’aretino del tempo, che fa riferimento a un
gioco infantile, anzi, più che a un gioco al tipico rituale che sancisce, dopo
un agone tra fanciulli, il successo dei vincitori sui vinti. Il termine è una
di quelle voci registrate da Francesco Redi nel suo Vocabolario: «Giòggio. Portare al
gioggio. Esser portato al gioggio.
I Fiorentini dicono esser portato a
cavalluccio, esser portato a birigini
[…]». Dunque il verso deve essere interpretato ‘se i fanciulli sono montati a
cavalluccio, in qualità di vincitori’ […] poiché la formula è appunto “a[l]
gioggio”, ‘a cavalluccio’ (“gioggi” in luogo di gioggio è necessaria modifica che il poeta apporta per motivi di
rima, una variante che oltretutto sembra essere provocata dalla pluralità del
soggetto: a ciascuno il suo ‘cavalluccio’).
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Una effigie del poeta Domenico di Giovanni, detto il Burchiello
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Un’altra occorrenza del modo di
dire, che segnala anch’essa indubbiamente l’area linguistica dell’espressione,
la si rintraccia nella commedia Il
Parthenio, opera dell’aretino Giovanni Lappoli, il Pollastra, rappresentata
a Siena nel 1516 e stampata a Firenze nel 1520 da Michelangelo di Bartolomeo
de’ Libri. In un contesto scherzoso — tre personaggi stanno giocando al gioco
delle palmate (qui chiamato altrimenti: “mandardagli”, o “mescolaccio”),
descritto anche dal Poliziano — all’errore compiuto dal servo Taruffo, che non
riconosce colui da cui ha ricevuto lo schiaffo (un cortigiano), il contadino
Sparpaglia, che fa da giudice di gara, stabilisce la punizione da infliggere al
perdente: portare, appunto, a cavalluccio colui che l’ha colpito senza farsi
riconoscere: “[Spar.] […] Io ti so dir, Taruffo, tu la spagli; / hor su, ch’io
non vo’ far più a questo gioco. / [Cort.] A che altro voliam fare? [Spar.] A
mandardagli; / ginocchiati, Taruffo, in questo loco, / siede tu, chiude ʼl
ben, dògli. / [Cort.] Dàgli / Divina chi t’ha dato. [Tar.] È stato il cuoco. /
[Sparp.] E non è epso; hor va’, portalo al gioggio. / [Tar.] Alle gugnel, tu
pesi più d’un moggio”. […] Sempre garante della ristretta area linguistica
aretina a cui afferisce tale modo di dire, l’impiego che ne fa Federigo Nomi
successivamente nel Catorcio d’Anghiari
x, 104, 5-8: “Onde già frollo,
attutito ed esangue / Spulezza e s’argomenta tornar presto; / Ma non bastando a
reggerlo l’appoggio, / Fu dai compagni alfin portato a gioggio” […]. Se
avessimo dei dubbi sul ristretto impiego della locuzione, soccorrono prima di
tutto i dizionari regionali, come il Vocabolario
dell’uso toscano di Pietro Fanfani, che circa il medesimo gioco, o
piuttosto rito riservato al vincitore, riporta come variano le espressioni
relative, dato il carattere di gergo circoscritto del linguaggio infantile
proprio dei giochi. Una terminologia ludica che si fa davvero argot esclusivo di zone ristrette, come
in fondo testimoniano anche alcune opere letterarie, non necessariamente dei
glossari compilati da linguisti; penso alla Novella
del Pulci, in cui a un certo punto si elencano i diversi nomi dell’altalena,
che si differenziano non solo di regione in regione, ma di provincia in
provincia».
Tanto basti a documentare l’acribia
e la rara capacità ermeneutica della studiosa fiorentina.
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