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di Stefano Lanuzza
Un
‘giallo parlato’ di Mario Quattrucci
Ma io ti scrivo da qui da questa lingua marginale
(Mario
Quattrucci, 2011)
Ciò che può
conferire una distinzione letteraria anche a taluni autori di romanzi di genere,
per esempio gialli noir pulp, è soprattutto la loro cura delle parole, con la
messa in opera d’una scrittura narrativa che, rifuggendo i moduli prettamente
refertali di mestieranti votati a confezionare il bestseller, punta a inaugurare
uno stile. È il caso di certi giallisti che individuano nella ‘lingua viva’
della quotidianità lo strumento più idoneo al romanzo.
Un loro
antefatto, se non un possibile prototipo, è riferibile, oltre che al Gadda del
memorabile commissario Ciccio Ingravallo del Pasticciaccio, ai polizieschi del francese Frédéric Dard, funambolo
argotico e inventore del pirotecnico Sanantonio della polizia parigina: il Dard
che in Italia ha quali prossimani il gergovernacolare Andrea Camilleri e Mario
Quattrucci, autore di romanzi intrisi d’una coloritura romanesca fusa con
quell’italiano ‘parlato’ che poi è la ‘vera’ o varia e più praticata lingua
italiana: un polifonico ‘volgar’eloquio’ capace d’ibridare e armonizzare, senza
superflui o forzati mimetismi, pensiero ed espressione.
A tale
proposito, è indicativa e pressoché didattica la teoresi estetico-linguistica
esposta dallo stesso Quattrucci nella postfazione al suo romanzo Fattacci brutti a Via del Boschetto (2010).
L’inflessione plurilinguistica e il risalto dell’oralità della sua pagina indocile
all’assunzione d’una ‘lingua modello’ – spiega – “si manifesta come un flusso e
obbedisce più al ritmo che alla sintassi; una scrittura che insomma viene fuori
da sé (come la famosa belliana verità
sbrodolarella) come scrittura mia
propria […]. Dialogo, narrazione, pensamenti e riflessioni, prendono corpo così
in una misticanza […] di italiano
pulito, italiano parlato, romanese e romanesco, col contorno, per accenni, di
altri idiomi d’importazione”.
È in tal modo che
la rassicurante, in parte presunta, ‘stabilità’ d’una lingua italiana immutabile
nella sua talora sclerotizzata ortografia, uggiosa consolazione di oligarchie culturali
appagate dal quietismo normativo, viene dallo scrittore aggredita e innovata,
per una più ampia visione del reale, anche col cinguettante pispillòrio, l’entropica
e frastornante goga-magoga, lo spinoso busilli o lo schiamazzante badanai, in
un vitalistico quanto metodico pastiche
di affinità fonetiche.
Ne consegue che
nella prosa non manzonianamente monolinguistica di Quattrucci, dove il codice
ufficiale è rinsanguato dosando parlato plebeo e gergale, il senso, oltre che
mantenuto, risulti accentuato. Distinguendo fra lingua e linguaggio, non sempre
la lingua italiana normalizzata o purificata in Arno da Manzoni si fa adibire a
linguaggio tanto d’uso quanto letterario, visto che veramente d’uso e più
adatto all’espressione anche letteraria è sempre il linguaggio, pure lutulento
e impuro, dei parlanti.
Scritte,
appunto, ‘parlando’, colloquiando e gaddescamente ‘opinando’, le storie dei
“luoghi del delitto” – realistiche, sociopolitiche, psicologiche vicissitudini e
storie di persone – hanno per protagonista il capo della Squadra Mobile Gigi Marè
(evocante il poeta in romanesco sperimentale Mauro Marè, 1935-1993), un amante
della buona tavola come il camilleriano Montalbano, certo più politically
correct – e animato d’una cultura ‘vera’, quella tenuta ‘sotto traccia’ ma emergente
all’occasione – del pittoresco Sanantonio, nichilista rabelaisiano-céliniano.
Ecco adesso
dell’autore, stampato alla fine del 2014, il romanzo Nelle immediate vicinanze con usuale protagonista un attempato ma
vieppiù pensoso e tenace commissario Marè; che, seppure pervenuto a meritata
pensione, non rinuncia a indagare sull’ennesimo delitto perpetrato in una Roma
in chiaroscuro, la disperatamente odiatamata “stalla e chiavica der monno”,
mafiacapitale presa in “quell’immenso nido di ratti che è l’Italia”.
In principio,
proprio nei pressi del quartiere di residenza di Marè, abitante in Piazza Epiro
una casa decorosa con tanti libri e pregevoli quadri di Bardi e del mai troppo
apprezzato Ennio Calabria, accade in Via Cilicia, “nelle immediate vicinanze”, l’assassinio
alle nove di sera di tale Fernando Meniconi noto come gioielliere con negozio
in Via Britannia.
Feroce la morte inflittagli:
perché – scrive Quattrucci ricorrendo al suo umoroso repertorio di locuzioni
gergali aderenti con effetti di espressionistica immediatezza all’effettuale
realtà – “l’avevano voluto sfregiare e far soffrire sfonnanoje la panza e
spappolannoje le brugne”. Complessivamente tre pistolettate con due revolver, una
Smith & Wesson e una Beretta 84: l’ultima pallottola in fronte, come un
sigillo…
Trattasi di
vendetta mafiosa per un rifiuto di pagare il pizzo? È improbabile da quando Cosa Nostra si dedica alle ben più
remunerative attività economiche e finanziarie, dilagando anche grazie alle
collusioni con la politica e l’economia… Chi ricorda le stragi del ’92 e
l’uccisione di Falcone e Borsellino? Magari significano qualcosa – inferisce
Quattrucci – una nuova fase delle tante criminali strategie della tensione,
l’autobomba esplosa in Via Fauro a Roma il 14 maggio 1992 e, tredici giorni
dopo, l’esplosione a Firenze in Via dei Georgofili seguita da altri attentati a
Milano (tra il 26 e il 27 luglio 1992 in Via Palestro, Padiglione d’Arte Contemporanea),
fino alla mancata strage predisposta al romano stadio Olimpico?... E si sa più
niente della vicenda Sindona che rivela come i capitali della mafia
siculo-americana godano dell’omertosa gestione sia del Banco di Sicilia, sia
della milanese Banca Rasini (“di essa era procuratore con potere di firma il
padre del nostro cavalier caimano” – ex
cavaliere, si precisi: e decaduto, ça va
sans dire, per conclamata indegnità)?... Intanto ci potrebbe far sapere
qualcosa d’inedito, l’affabile gesuita Papa Francesco, dei traffici d’un
monsignor Marcinkus direttore dell’Istituto delle Opere Religiose (IOR), uno che,
morto coi suoi segreti nel 2006, benedice il denaro sporco e lo rivoga “in
combutta col banchiere Calvi” ‘suicidato’ da chi possiamo immaginare.
Nessuno più di
Quattrucci smentisce, con la sua lucidità critica, l’idea secondo cui uno
scrittore non dovrebbe schierarsi politicamente né ‘impegnarsi’ o esprimere le
proprie opinioni, ma essere pago di starsene rinserrato nei confini della
propria arte. Al pari del suo Marè, poliziotto tra i fondatori del Sindacato di
Polizia e individuo morale, l’autore soffre intimamente la sconfitta della
democrazia in un’Italia avvelenata dalla criminalità, dall’ingiustizia sociale,
da una xenofobia dialogante col neofascismo. “Un’ingiuria intollerabile” è per
lui dover assistere al continuo, impunito crimine in una Nazione ciurmata da genie di politici
inetti e dediti a ogni abuso, all’ingiusto mantenimento di prebende e privilegi
di casta, alla corruzione divenuta costume diffuso: il tutto a spese di un
popolo sempre più ripiegato su stesso, accidioso e indifferente persino alla
propria umiliazione.
Ora,
assecondando il gusto dello scrittore per il commento extranarrativo, il
pensiero di Marè va a Pippo Fava, il giornalista siciliano ucciso dai killer
del boss mafioso Nitto Santapaola e dimenticato dalla politica (“I mafiosi
stanno in Parlamento, a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri […]. È un
problema che rischia di portare alla rovina, al decadimento culturale definitivo
dell’Italia” dichiara Fava in un’intervista del 1983 a Enzo Biagi).
E il Meniconi
ammazzato?... Ma quale orefice, quello!... Il suo negozio non era che la
copertura di losche attività dove l’usura era il meno… Mentre s’indaga sul
settantacinquenne insegnante di liceo in pensione Oreste Campeggiani,
sospettato d’omicidio perché debitore di ottantamila euro nei confronti di
Meniconi, viene fuori che questi è non solo un ignobile usuraio (“scortichino”,
“sanguetta”, “cravattaro”), ma altresì un ricattatore, una spia (“pifero”,
zoffione”, “trommetta”), uno che non è mai come appare. Lui, che non proprio Ferdinando
Meniconi si chiama, bensì Massimo Dimitri, ovvero Fernando Meniconi Dimitri
Santalmasso, figlio di Giacomo Dimitri del SIFAR e del SID – cum P2, “Piano Solo” e OSS, il servizio
segreto militare americano –, viene soppresso perché troppo informato? E, come
non bastasse, il Meniconi sarebbe pure un riciclatore di denaro sporco, camorrista
e ’ndranghetista, un bombarolo stragista manutengolo dei Servizi segreti
deviati, questi complici di delitti di Stato, trattative con la mafia e
depistaggi?... E lo mandano agli alberi pizzuti per far sparire lui e quanto
potrebbe rivelare, o per cosa?... Invece… A smontare o semplificare la trama
delle ipotesi salta invece fuori un giustiziere che sarebbe contrario alla pena
di morte non nella guerra coi criminali, ma solo in tempo di pace. Di lui
(lasciato qui sine nomine per non frustrare la curiosità
dei lettori) si fa una maggiore conoscenza solo nelle ultime, godibili pagine
del romanzo apprendendo che accoppa il Meniconi per vendicare la propria donna,
Annina Valentini, violentata dallo stesso vent’anni prima e finita suicida dopo
il trauma subito.
Dopo tanto
furore si staglia dallo sfondo in tutta la sua deformità, ed entra nei precordi
d’ogni personaggio del romanzo – sbozzato con accenni di analisi sociale in una
continua alternanza di lingua e dialetto –, la capitale barocca e grottesca dei
veleni e dei delitti, Roma che per la metafisica è L’Eterna e, nella saga
narrativa quattrucciana, è la badiale “Grande Zinna”: il devastato plesso toponomastico
e il sempre meno clandestino laboratorio dei destini di un’Italia delle logge
mafiomassoniche, di fascisti riciccianti e di cooperative del crimine.
“Capitale
corrotta” d’una “Nazione infetta” come intitolava un’inchiesta della rivista
“L’Espresso’ già nel 1955, Roma è con Marè l’intensa protagonista delle
narrazioni di Quattrucci che, nelle “Appendici” di Marè in luogo di mare (2009), interludio a proposito di “Misteri,
stragi e delitti eccellenti in Italia”, fenomenologizza con una puntuale
sintesi, forse l’unico romanziere italiano non estraniato dalle vicende della
contemporaneità, il Grande Malaffare che dal dopoguerra ai giorni nostri non
cessa d’aduggiare il nostro Paese .
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