LETTURE
MARIO QUATTRUCCI
      

Nelle immediate vicinanze

               

Roma, Robin Edizioni, 2014, pp. 240, € 14,00

    

      


di Stefano Lanuzza

                                                          

 

Un ‘giallo parlato’ di Mario Quattrucci

 

                                                                               

Ma io ti scrivo da qui da questa lingua marginale

                                                                                                                        (Mario Quattrucci, 2011)

 

   

Ciò che può conferire una distinzione letteraria anche a taluni autori di romanzi di genere, per esempio gialli noir pulp, è soprattutto la loro cura delle parole, con la messa in opera d’una scrittura narrativa che, rifuggendo i moduli prettamente refertali di mestieranti votati a confezionare il bestseller, punta a inaugurare uno stile. È il caso di certi giallisti che individuano nella ‘lingua viva’ della quotidianità lo strumento più idoneo al romanzo.

Un loro antefatto, se non un possibile prototipo, è riferibile, oltre che al Gadda del memorabile commissario Ciccio Ingravallo del Pasticciaccio, ai polizieschi del francese Frédéric Dard, funambolo argotico e inventore del pirotecnico Sanantonio della polizia parigina: il Dard che in Italia ha quali prossimani il gergovernacolare Andrea Camilleri e Mario Quattrucci, autore di romanzi intrisi d’una coloritura romanesca fusa con quell’italiano ‘parlato’ che poi è la ‘vera’ o varia e più praticata lingua italiana: un polifonico ‘volgar’eloquio’ capace d’ibridare e armonizzare, senza superflui o forzati mimetismi, pensiero ed espressione.

A tale proposito, è indicativa e pressoché didattica la teoresi estetico-linguistica esposta dallo stesso Quattrucci nella postfazione al suo romanzo Fattacci brutti a Via del Boschetto (2010). L’inflessione plurilinguistica e il risalto dell’oralità della sua pagina indocile all’assunzione d’una ‘lingua modello’ – spiega – “si manifesta come un flusso e obbedisce più al ritmo che alla sintassi; una scrittura che insomma viene fuori da sé (come la famosa belliana verità sbrodolarella) come scrittura mia propria […]. Dialogo, narrazione, pensamenti e riflessioni, prendono corpo così in una misticanza […] di italiano pulito, italiano parlato, romanese e romanesco, col contorno, per accenni, di altri idiomi d’importazione”.

È in tal modo che la rassicurante, in parte presunta, ‘stabilità’ d’una lingua italiana immutabile nella sua talora sclerotizzata ortografia, uggiosa consolazione di oligarchie culturali appagate dal quietismo normativo, viene dallo scrittore aggredita e innovata, per una più ampia visione del reale, anche col cinguettante pispillòrio, l’entropica e frastornante goga-magoga, lo spinoso busilli o lo schiamazzante badanai, in un vitalistico quanto metodico pastiche di affinità fonetiche.

Ne consegue che nella prosa non manzonianamente monolinguistica di Quattrucci, dove il codice ufficiale è rinsanguato dosando parlato plebeo e gergale, il senso, oltre che mantenuto, risulti accentuato. Distinguendo fra lingua e linguaggio, non sempre la lingua italiana normalizzata o purificata in Arno da Manzoni si fa adibire a linguaggio tanto d’uso quanto letterario, visto che veramente d’uso e più adatto all’espressione anche letteraria è sempre il linguaggio, pure lutulento e impuro, dei parlanti.     

 

Scritte, appunto, ‘parlando’, colloquiando e gaddescamente ‘opinando’, le storie dei “luoghi del delitto” – realistiche, sociopolitiche, psicologiche vicissitudini e storie di persone – hanno per protagonista il capo della Squadra Mobile Gigi Marè (evocante il poeta in romanesco sperimentale Mauro Marè, 1935-1993), un amante della buona tavola come il camilleriano Montalbano, certo più politically correct – e animato d’una cultura ‘vera’, quella tenuta ‘sotto traccia’ ma emergente all’occasione – del pittoresco Sanantonio, nichilista rabelaisiano-céliniano.

Ecco adesso dell’autore, stampato alla fine del 2014, il romanzo Nelle immediate vicinanze con usuale protagonista un attempato ma vieppiù pensoso e tenace commissario Marè; che, seppure pervenuto a meritata pensione, non rinuncia a indagare sull’ennesimo delitto perpetrato in una Roma in chiaroscuro, la disperatamente odiatamata “stalla e chiavica der monno”, mafiacapitale presa in “quell’immenso nido di ratti che è l’Italia”.

In principio, proprio nei pressi del quartiere di residenza di Marè, abitante in Piazza Epiro una casa decorosa con tanti libri e pregevoli quadri di Bardi e del mai troppo apprezzato Ennio Calabria, accade in Via Cilicia, “nelle immediate vicinanze”, l’assassinio alle nove di sera di tale Fernando Meniconi noto come gioielliere con negozio in Via Britannia.

Feroce la morte inflittagli: perché – scrive Quattrucci ricorrendo al suo umoroso repertorio di locuzioni gergali aderenti con effetti di espressionistica immediatezza all’effettuale realtà – “l’avevano voluto sfregiare e far soffrire sfonnanoje la panza e spappolannoje le brugne”. Complessivamente tre pistolettate con due revolver, una Smith & Wesson e una Beretta 84: l’ultima pallottola in fronte, come un sigillo…  

Trattasi di vendetta mafiosa per un rifiuto di pagare il pizzo? È improbabile da quando Cosa Nostra si dedica alle ben più remunerative attività economiche e finanziarie, dilagando anche grazie alle collusioni con la politica e l’economia… Chi ricorda le stragi del ’92 e l’uccisione di Falcone e Borsellino? Magari significano qualcosa – inferisce Quattrucci – una nuova fase delle tante criminali strategie della tensione, l’autobomba esplosa in Via Fauro a Roma il 14 maggio 1992 e, tredici giorni dopo, l’esplosione a Firenze in Via dei Georgofili seguita da altri attentati a Milano (tra il 26 e il 27 luglio 1992 in Via Palestro, Padiglione d’Arte Contemporanea), fino alla mancata strage predisposta al romano stadio Olimpico?... E si sa più niente della vicenda Sindona che rivela come i capitali della mafia siculo-americana godano dell’omertosa gestione sia del Banco di Sicilia, sia della milanese Banca Rasini (“di essa era procuratore con potere di firma il padre del nostro cavalier caimano” – ex cavaliere, si precisi: e decaduto, ça va sans dire, per conclamata indegnità)?... Intanto ci potrebbe far sapere qualcosa d’inedito, l’affabile gesuita Papa Francesco, dei traffici d’un monsignor Marcinkus direttore dell’Istituto delle Opere Religiose (IOR), uno che, morto coi suoi segreti nel 2006, benedice il denaro sporco e lo rivoga “in combutta col banchiere Calvi” ‘suicidato’ da chi possiamo immaginare.

  

Nessuno più di Quattrucci smentisce, con la sua lucidità critica, l’idea secondo cui uno scrittore non dovrebbe schierarsi politicamente né ‘impegnarsi’ o esprimere le proprie opinioni, ma essere pago di starsene rinserrato nei confini della propria arte. Al pari del suo Marè, poliziotto tra i fondatori del Sindacato di Polizia e individuo morale, l’autore soffre intimamente la sconfitta della democrazia in un’Italia avvelenata dalla criminalità, dall’ingiustizia sociale, da una xenofobia dialogante col neofascismo. “Un’ingiuria intollerabile” è per lui dover assistere al continuo, impunito crimine  in una Nazione ciurmata da genie di politici inetti e dediti a ogni abuso, all’ingiusto mantenimento di prebende e privilegi di casta, alla corruzione divenuta costume diffuso: il tutto a spese di un popolo sempre più ripiegato su stesso, accidioso e indifferente persino alla propria umiliazione.

Ora, assecondando il gusto dello scrittore per il commento extranarrativo, il pensiero di Marè va a Pippo Fava, il giornalista siciliano ucciso dai killer del boss mafioso Nitto Santapaola e dimenticato dalla politica (“I mafiosi stanno in Parlamento, a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri […]. È un problema che rischia di portare alla rovina, al decadimento culturale definitivo dell’Italia” dichiara Fava in un’intervista del 1983 a Enzo Biagi).

 

E il Meniconi ammazzato?... Ma quale orefice, quello!... Il suo negozio non era che la copertura di losche attività dove l’usura era il meno… Mentre s’indaga sul settantacinquenne insegnante di liceo in pensione Oreste Campeggiani, sospettato d’omicidio perché debitore di ottantamila euro nei confronti di Meniconi, viene fuori che questi è non solo un ignobile usuraio (“scortichino”, “sanguetta”, “cravattaro”), ma altresì un ricattatore, una spia (“pifero”, zoffione”, “trommetta”), uno che non è mai come appare. Lui, che non proprio Ferdinando Meniconi si chiama, bensì Massimo Dimitri, ovvero Fernando Meniconi Dimitri Santalmasso, figlio di Giacomo Dimitri del SIFAR e del SID – cum P2, “Piano Solo” e OSS, il servizio segreto militare americano –, viene soppresso perché troppo informato? E, come non bastasse, il Meniconi sarebbe pure un riciclatore di denaro sporco, camorrista e ’ndranghetista, un bombarolo stragista manutengolo dei Servizi segreti deviati, questi complici di delitti di Stato, trattative con la mafia e depistaggi?... E lo mandano agli alberi pizzuti per far sparire lui e quanto potrebbe rivelare, o per cosa?... Invece… A smontare o semplificare la trama delle ipotesi salta invece fuori un giustiziere che sarebbe contrario alla pena di morte non nella guerra coi criminali, ma solo in tempo di pace. Di lui (lasciato qui sine nomine per non frustrare la curiosità dei lettori) si fa una maggiore conoscenza solo nelle ultime, godibili pagine del romanzo apprendendo che accoppa il Meniconi per vendicare la propria donna, Annina Valentini, violentata dallo stesso vent’anni prima e finita suicida dopo il trauma subito.     

 

Dopo tanto furore si staglia dallo sfondo in tutta la sua deformità, ed entra nei precordi d’ogni personaggio del romanzo – sbozzato con accenni di analisi sociale in una continua alternanza di lingua e dialetto –, la capitale barocca e grottesca dei veleni e dei delitti, Roma che per la metafisica è LEterna e, nella saga narrativa quattrucciana, è la badiale “Grande Zinna”: il devastato plesso toponomastico e il sempre meno clandestino laboratorio dei destini di un’Italia delle logge mafiomassoniche, di fascisti riciccianti e di cooperative del crimine.

“Capitale corrotta” d’una “Nazione infetta” come intitolava un’inchiesta della rivista “L’Espresso’ già nel 1955, Roma è con Marè l’intensa protagonista delle narrazioni di Quattrucci che, nelle “Appendici” di Marè in luogo di mare (2009), interludio a proposito di “Misteri, stragi e delitti eccellenti in Italia”, fenomenologizza con una puntuale sintesi, forse l’unico romanziere italiano non estraniato dalle vicende della contemporaneità, il Grande Malaffare che dal dopoguerra ai giorni nostri non cessa d’aduggiare il nostro Paese .

  




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