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di Mario Lunetta
Due sono,
prevalentemente, le ragioni interne e i moods
non esplicitati dell’agire narrativo di Vilma Costantini: la sospensione e
la reticenza, Su queste due corde molto elastiche si snodano le vicende, sempre
sommessamente proposte, di quel romanzo che nega se stesso intitolato La musica e il silenzio, nel quale la
presenza dell’autrice è la stessa di chi narra, tranquillamente abolito il
diaframma che separa, per antica convenzione, il Narratore dall’Autore.
Se la retta,
come a suo tempo codificò Euclide, è la linea che giace allo stesso modo
rispetto a tutti i suoi punti, Costantini mette in atto un procedimento
esattamente contrario: la distanza più breve che mette in rapporto ogni
personaggio della sua narrazione col proprio corrispettivo ripete la figura della
divagazione durante la quale gli appuntamenti, o i contatti, sono scanditi su
una sorta di principio di indeterminazione, da atomi che si scindono in
continuazione e che, una volta precariamente ricomposti, mostrano un’altra e
diversa reattività. Si tratta in realtà di personaggi rarefatti, la cui
consistenza è costantemente sospesa, come accennavo poco sopra, tra un gioco di
causa-effetto sempre molto aleatorio e una casualità che ambisce, in modi
inesorabilmente fallimentari, a costruirsi un assetto di qualche consistenza.
Il romanzo di
Costantini, quindi, mima semplicemente la dispersione irrimediabile
dell’esistenza. La mima e la interpreta serenamente, si direbbe, quasi dando
per scontato che ogni obiettivo raggiunto è solo il trampolino (volontario o
involontario) per un’alea successiva. Del resto, a riprova dell’ineludibile esigenza
poetica di certi procedimenti, basta pensare alla precedente fatica narrativa
della scrittrice romana (Un colloquio
impossibile, edizioni del verri, 2013), in cui la dialettica molto serrata
si restringeva su un uomo e una donna (entrambi letterati di professione), per
concludersi con la dolorosa inconclusione provocata dalla morte dell’uomo. È quindi
nel segno delle possibilità non realizzate di questo o quel rapporto
(sentimentale, o solo amicalmernte affettivo), che sembra procedere la ricerca
dell’autrice la cui carriera, di proficuo e lungo corso, si dirama
dall’esperienza di traduzioni di testi cinesi antichi e moderni alla saggistica
(prevalentemente di ambito cinese prima e dopo Mao), dalla poesia alla
narrativa, fino all’attività editoriale micron di cui resta non dimenticabile
la cura, davvero di finissima oreficeria tipografica, dei volumi siglati Le
Impronte degli Uccelli.
Nella nota di
apertura di La musica e il silenzio si
legge: “Il romanzo segue per una quindicina di anni, gli stessi occorsi per la
sua stesura, le vicende di due donne, la narratrice e una giornalista
americana, che periodicamente si incontrano e si perdono di vista a seconda
delle vicende personali parallele e a volte coincidenti, nelle quali si
intersecano quelle di altri sfuggenti personaggi”. Come dire: siamo all’interno
di un labirinto psico-comportamentale entro le cui enigmatiche articolazioni i
personaggi maschili e femminili compiono un’incessante lavoro di
costruzione/decostruzione, di lettura/decrittazione dei codici sociali non
scritti che loro, in quanto professionisti della comunicazione, sentono di
dover onorare come trovandosi costantemente sotto osservazione. Questo stato di
quasi impenetrabile opacità provoca in loro una continua tensione, che
ovviamente si ripercuote anche sulla serenità dei rapporti interpersonali.
L’autrice-narratrice muove le proprie pedine con accurata leggerezza, come
obbligata a fungere da perno in un terreno alquanto scivoloso, e al tempo
stesso da “terapeuta” involontaria a sostegno dei colleghi. Nel romanzo, il
tema dello smarrimento e della difficoltà a comunicare è svolto con fine
sapienza, senza mai far ricorso a colpi di scena o a sterzate-choc: il tono in
realtà costeggia costantemente l’irreale, generando senza sforzo nel lettore
un’attesa non disgiunta da una strana sensazione
di riposo artificiale. È ovviamente la lingua a produrre questi effetti mai
clamorosi: una lingua al tempo stesso educata
e guardinga, padrona della generale strategia ma insieme capace di
generare pacatamente nel fruitore una
sottile avidità di avventura, una curiosità a proposito dei destini intrecciati
dell’americana Masha, del musicista inglese John e della narratrice: per cui il
vissuto sospinto alla superficie dalla memoria involontaria viene a
trasformarsi in scrittura dell’ora e qui, in un’eccitante osmosi tra epifania e
riflessione.
La scena in cui si
svolgono le vicende ri-vissute dall’autrice è quella del grandioso teatro della
Pechino della seconda metà degli Ottanta, quando la scomparsa di Mao e la fine
della rivoluzione culturale aprono la strada al nuovo corso epocale nella
società cinese, ancora sottosviluppata e paralizzata da decenni di chiusura nei
confronti del mondo esterno, sia sul piano socio-economico che su quello
culturale.
In questo senso
il vibrante e acuminato romanzo-vita di Costantini si snoda in parallelo alla
vicenda dell’immensa città impegnata a svegliarsi da un lungo letargo attraverso
un processo che darà luogo a quell’ibrido di comunismo ufficiale e di
capitalismo neanche troppo sommesso di oggi: giusta quindi l’osservazione
dell’autrice nella sua nota di apertura, che vede nella Pechino di quegli anni
lontani “quasi una co-protagonista della storia narrata”. Pure, la scrittrice
non cede mai alla tentazione pure fortissima di lasciarsi sedurre
“turisticamente” dalle meraviglie architettoniche o artistiche che sono storia millenaria
della capitale cinese (si vedano le pagine della visita alla Grande Muraglia,
al monastero della Nuvola Bianca, alle antiche tombe Qing, l’ultima dinastia
imperiale, al tempio chiamato Il Mare
della Legge) per costruire piuttosto, con spirito assolutamente
antibaedeker, un fitto reticolo di luoghi, usi, modi di essere della gente che
abitava in quel tempo della memoria la sterminata capitale
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