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di Alessandro Ticozzi
Il
primo album risale al 1967 e s’intitola Folk Beat n. 1:
quali sono le caratteristiche peculiari del primo Guccini?
Sarebbe
utile tener presente, anzitutto, l’anno in cui esce Folk Beat n.1. Un anno-prologo del Sessantotto, un anno-simbolo
delle utopie a venire. Un anno pregnante. Di slanci, di stimoli, di istanze, di
movimenti, di sogni/progetti di cambiamento sociale. È ovvio che il clima del
primo disco di Guccini ne risenta, e però in una maniera mai scopertamente politica, schierata, livorosa. Come ho
cercato di dimostrare in Il cantautore
delle domande consuete ciò che da subito parrebbe interessare Guccini è il
senso ultimo – se mai esiste un senso ultimo – del nostro dibatterci tra alto e
basso, Topolino e teosofie; del nostro stare al mondo, insomma. Sin da Folk Beat quello di Guccini risulta
infatti, soprattutto, uno strenuo interrogarsi sull’ontologia minima e massima riguardante
la vita. Se è vero che nella track-list di
quest’album risultano canzoni come Venerdì
santo, La ballata degli annegati, In morte di S.F. C’è lo spirito decadente dei francesi ma c’è anche
la mitologia beat-on the road di Statale
17 e poi, certo, anche la così detta “denuncia”. In
passaggi come Auschwitz, Noi non ci saremo, L’atomica cinese. È un disco volenteroso, duale, come indicato
dallo stesso titolo: sono presenti tanto l’impegno di matrice folk-americano
quanto l’impronta di stampo beat, evidenziata soprattutto in alcuni passaggi
musicali.
Cosa
spinse I Nomadi e l’Equipe 84 ad incidere in quegli anni le canzoni di
Francesco, portandole al successo?
Credo
il desiderio di assegnare un peso specifico ulteriore alle proprie discografie.
Il beat era in quegli anni al suo crepuscolo. Sotto l’aspetto segnatamente
musicale aveva veicolato il desiderio di rottura,
la voglia di affrancarsi dagli schemi precostituiti, ma quest’atto di
ribellione, a ben guardare, si era consumato più all’insegna della leggerezza fine
a se stessa che del vero e proprio impegno. Sotto l’aspetto letterario le
canzoni del genere Spaghetti-beat
(cui sono ascrivibili Nomadi ed Equipe, quanto meno inizialmente) lasciano
alquanto a desiderare. Risultano effimere, ingenue, vacuamente sentimentali. È
evidente che con Guccini come paroliere le cose cambiano in senso drastico, e il
discorso prende subito un’altra piega, dato che il Nostro è in grado di tirare
in ballo temi come il genocidio degli ebrei (Auschwitz) e lo spauracchio della catastrofe nucleare (L’atomica cinese, Noi non ci saremo). E in che modo, poi? La scrittura di Guccini
beneficia di un valore aggiunto letterario come poche altre, in Italia, e,
ritengo, nel mondo.
Nel
1972 Francesco pubblica Radici, cui è seguito quattro
anni dopo Via Paolo Fabbri 43:
cosa spinge il nome del cantautore ad un pubblico decisamente più vasto grazie
a questi due dischi?
Il
fatto che sono album già maturi.
Album-capolavoro, noumeni, capisaldi della discografia d’autore, con nulla da
togliere e nulla da aggiungere al loro interno, semplicemente esemplari. Non sono parole grosse:
dentro ci suona e ci canta già, al suo meglio e per intero la poetica gucciniana. Radici
è pieno così di tracce risultate, alla lunga, epocali. Si pensi a La locomotiva, a Canzone della bambina portoghese, a Il vecchio e il bambino, a Canzone
dei dodici mesi, a Incontro, a Piccola città, alla stessa title-track,
forse la più meditabonda in assoluto, in cui ogni pietra, ogni muro, ogni
anfratto, diventa emblema di continuità col passato, testimonianza, baule di
rimembranze, prologo del significato estremo della vita e del disco. Quanto a Via Paolo Fabbri, anche quel disco è
storia, a partire dal titolo e dalla foto di copertina. Un album di un’essenzialità
chirurgica: poetico, sobrio, sostanziale; per i più lungimiranti ci vuole poco
a indovinarne il destino da must discografico, gucciniano
e non solo. Sei tracce dalla tinteggiatura in chiaroscuro, che guardano, ancora
una volta, all’individuo più che alla massa, alle storie di vita quotidiana piuttosto
che alla politica. Credo che il suo successo sia da ricondurre al classico disco giusto al momento giusto, nel
senso che all’epoca giravano dischi con dentro molte cose da dire, dette
benissimo, e c’era un contesto (un pubblico, una società) pronto ad accoglierli,
a recepire questo tipo di cose, di messaggi,
come si chiamavano allora.
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Una immagine del giovane Francesco Guccini
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I
successivi album – Amerigo (1978), Album concerto (1979), con I Nomadi, Metropolis
(1981) e Guccini (1983) –
consolidano la popolarità di Francesco, mentre il disco dal vivo Fra la via
Emilia e il West (1984)
rimane una efficace testimonianza dell’entusiasmo che accompagna le esibizioni
dell’artista: possiamo considerare questo come il periodo d’oro della
produzione gucciniana?
Direi
piuttosto ultimativo, il sontuoso punto di arrivo discografico del primo Guccini, per così dire. Fra la via Emila e il West andrebbe
assunto, in tal senso, come una specie di punto e a capo. Un live muscolare e
raffinato a partire dagli arrangiamenti, consueto e nuovo al contempo, riepilogativo
di quanto prodotto da Guccini sino ad allora. Da quel momento in avanti, non
una svolta vera e propria ma, se possibile, un’ulteriore maturazione. Anche
sotto l’aspetto musicale, secondo una certa vulgata critica, da sempre il punto
più debole della scrittura gucciniana.
Guardando a prove come Signora Bovary (1987), ...
quasi come Dumas... live (1988), Quello che non... (1990) e Parnassius Guccinii (1993), che giudizio ha del Guccini
successivo?
Come
dicevo il passo in avanti si realizza soprattutto nel taglio e nel colore conferito ai nuovi arrangiamenti
(merito soprattutto del talento di Juan Carlos “Flaco”
Biondini). A parte il deboluccio Parnassius Guccinii tutti gli album che ha citato tengono testa in
maniera decisa a quelli della discografia del passato prossimo e remoto di
Guccini. Per non parlare di Signora
Bovary che è in assoluto uno dei dischi più riusciti della storia della
canzone italiana. Chi se l’è perso non ha idea di cosa si è perso: un album
principesco e inappuntabile come il vestito buono della domenica, soprattutto nella
title-track
e in Scirocco, accomunate dal
domandarsi insistito, a un passo dalla metafisica: “cosa c’è (...) dietro la
faccia abusata delle cose / nei labirinti oscuri delle case / dentro lo
specchio segreto di ogni viso / dentro di noi”. Sbaglia di grosso chi
continua a etichettare Guccini come un cantautore politico. Guccini è ben altro,
con uno spessore intrinseco, disseminato tra testo e sotto-testo, detto e
non-detto di quello che scrive. Un peso specifico suo proprio, le cui matrici
sono da ricercare nella letteratura se non addirittura nella filosofia. Dice bene
Roberto Vecchioni quando afferma che “… paradossalmente La locomotiva è la canzone meno gucciniana fra tutte, una perla isolata e magnifica, tutta
sua, ma lontana parecchio dalle forme ricorrenti, dal procedere per esclusione
di certezze, dall’individuare lampi occasionali di verità”. Probabilmente
è La locomotiva ad aver convinto Guccini di essere, come dice, un
‘cantastorie’, cosa che non è. Guccini è un ‘cantapensiero’,
è un ‘cantadubbio’, il più alto, il più vero, il più
sparpagliato e sincero che si conosca.
D’amore
di morte e di altre sciocchezze (1996), Stagioni
(1999) e Ritratti (2004): quali caratteristiche possiamo
trovare delle costanti di Francesco nei suoi ultimi album?
Torno
a dire, anche in questi album non ci sono strappi netti col passato, nessun
drastico cambiamento di rotta, nessuna abiura. Da un disco di Guccini sai
sempre quello che puoi aspettarti e come puoi aspettartelo. I suoi temi sono
rimasti più o meno quelli di sempre, solo aggiornati all’attualità del momento:
Piazza Alimonda
piuttosto che quella della Primavera di
Praga, Odysseus
invece di Amerigo, Quattro stracci – con più misura – al
posto de L’avvelenata. Senza contare
le immancabili Canzoni di notte – vino,
ballate, insonnia, malinconia –, una mise en abime,
un autentico tormentone in progress gucciniano. D’amore, di morte e di altre sciocchezze
mi sembra più coeso di Stagioni, e Stagioni più di Ritratti, se è quello che voleva sapere…
Cos’ha
spinto Francesco a mettere a frutto il suo talento di artista sia in campo
letterario – con una serie di libri scritti a quattro
mani con Loriano Machiavelli – sia in quello cinematografico, comparendo
come attore nel film Radiofreccia (1998) di Luciano Ligabue?
Ha
mai fatto la prova a leggere senza il supporto della musica un testo di
Guccini? Quanti possono sperimentarsi in rime alternate Descartes/Barthes (Via Paolo
Fabbri) senza scadere nella banalità? In altre parole: quanti sono stati capaci,
come Guccini, di scrivere in maniera tanto colta e di farlo, per giunta, costretti
dalla metrica di una canzone? Guccini è stato da sempre, e soprattutto, un
bravo scrittore, uno scrittore prestato alla canzone d’autore. Grande
affabulatore, raccontatore di storie e stati d’animo a volte impalpabili, come
quelli legati al capolinea di un rapporto sentimentale (Incontro, Inutile), o
riconducibili, di nuovo, alla percezione sottile della nostra esistenza. Come
nel testo-emblema di Canzone quasi
d’amore che mi piace citare spesso in alcuni passaggi: “Queste cose le sai
perché siam tutti uguali / e moriamo ogni giorno dei medesimi mali / perché
siam tutti soli ed è nostro destino / tentare goffi voli d’azione o di parola /
volando come vola il tacchino...”. E ancora più avanti: “D’altra parte, lo vedi, scrivo ancora
canzoni / e pago la mia casa, pago le mie illusioni / fingo d’aver capito che
vivere è incontrarsi / aver sonno, appetito, far dei figli, mangiare / bere,
leggere, amare... grattarsi!” Bellissimo. E straordinariamente incisivo,
non trova?
Quali
sorprese ci riserva ancora la carriera di Francesco Guccini secondo Lei?
Nessuna
sorpresa, quanto meno per quanto riguarda i dischi. Con L’ultima Thule è
deciso che passerà la mano: da qui in avanti Guccini potremo soltanto leggerlo
dentro i gialli che va scrivendo con Loriano Macchiavelli, oppure
recuperarlo vintage attraverso le sue tracce-madeleine, sparse tra live e album in studio, con groppo in gola
annesso e connesso.
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Un intenso ritratto di Guccini (ph. Daniela Zedda)
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Chiudiamo
questo pezzo con il contributo di Beppe Carletti, ‘storico’ tastierista dei
Nomadi:
“Il
primo incontro con Francesco è avvenuto tramite il nostro produttore, che era
anche un suo amico: è stato abbastanza facile. Il primo approccio fisico è
stato invece quando sono andato a prenderlo alla stazione di Modena, perché lui
non aveva la patente, e siamo andati a Novellara: così abbiamo cominciato la
nostra collaborazione.
Una
tappa molto importante della nostra carriera è stata l’incisione di Album concerto: è stato un momento
veramente bello. La mattina facevamo le prove a Pavana, dove risiede Francesco:
andavamo a dormire lì vicino e si mangiava tutti insieme. Abbiamo fatto per
quindici giorni vita di gruppo: è stato un momento molto importante, in cui la
musica veniva dopo il rapporto conviviale.
Di
Francesco ho il massimo della considerazione sia come uomo che come autore:
secondo me lui e De André sono i due poeti della canzone d’autore italiana, senza
nulla togliere a De Gregori e a coloro che sono venuti dopo. Adesso non canta
più, ma io credo che Francesco sia stato di una coerenza unica: la mia stima
per lui è immensa, in quanto le sue sono vere e proprie liriche.
Più
che politico, alle canzoni di Francesco darei un valore sociale: se noi affermiamo
che Auschwitz è una canzone politica
è un errore, anche se La locomotiva
può avere una certa parvenza in tal senso. Io credo che Francesco non abbia
puntato il suo comporre dal punto di vista umano: lui ha le sue idee che vanno
rispettate, ma Il vecchio e il bambino
non è una canzone politica, Dio è morto
è un brano di speranza, Auschwitz
racconta quello che è successo e Noi non
ci saremo è una canzone apocalittica”.
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Beppe Carletti
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