di Gualberto Alvino
Mio
carissimo Rino, trovo finalmente un momento di requie per scriverti dopo i
giorni di rivoluzione del trasloco (che non sono affatto finiti perché, come
immagini, ci vorrà ancora molto prima che elettricista, falegname, e compagnia
bella non vadano e vengano da casa nostra). Qui però è bellissimo tutto, casa e
luogo, con grandi alberi davanti e ai lati, e giardini e villini (ma tu conosci
questa parte di Roma detta città-giardino che si biforca a Monte Sacro, su e
giù lungo l’Aniene? Solo che noi siamo in alto e non abbiamo l’umidità del
fiume che da qui non si vede nemmeno) […]. Hai preso bene l’indirizzo nuovo? Via dell’Assietta, 4.
(Da una lettera
di D’Arrigo a Cesare Zipelli del 1° aprile 1958)
Dal
ʼ77 al ʼ92 hai abitato nello stesso stabile di Stefano D’Arrigo, in via
dell’Assietta 4, dove ancora oggi brilla una targa d’ottone con incisi i nomi
dello scrittore siciliano e di sua moglie Jutta Bruto. So che lo frequentasti
assiduamente in quel quindicennio. Cosa ricordi del primo incontro?
Si tratta di tornare indietro di trentasette anni, o giù di lì,
e mi perdonerai se procederò in maniera disordinata e frammentaria. Fu mia
moglie Ornella a invitare i D’Arrigo la prima volta. Lui si distese con tutto
il corpo sul divano di velluto rosso a coste marroni e Jutta, fissandomi dritto
negli occhi, volle attribuirmi un carattere melanconico (ma cercava il termine melancolia, che non le veniva in mente).
Quando affermai la mia devozione alla scrittura, l’importanza che rivestiva nella
mia vita, mi confidò che anche Stefano, non appena la conobbe, le aveva detto
la stessa cosa. Lui era di buonumore e, sempre sdraiato, osservava divertito la
scena. Poco dopo, guardandosi attorno, notò che la veranda, con le tende
marroni lungo la vetrata, aveva l’aspetto di una baita: «Sembra di stare in
montagna». Scendeva da molti anni al pianterreno della palazzina, dov’era l’appartamento
con giardino dei miei futuri suoceri, poi abitato dalla loro figlia Ornella e da
me.
Si era trasferito in via dell’Assietta nel ʼ58.
A quei tempi i colloqui avvenivano tra lui e mio suocero, anch’egli
siciliano, ma della provincia di Ragusa, la provincia «babba», diceva. Era uno
dei fornitori diretti, e da lui si
faceva dare alcune parole o locuzioni che non ricordava, o comunque voleva
verificare. A distanza di tempo fa un certo effetto ritrovare quelle espressioni
nel testo darrighiano, o immaginare quali potessero essere, data la conoscenza
che avevo di mio suocero. Era il periodo in cui stava scrivendo quello che poi
sarebbe divenuto Horcynus Orca, con
Enza, la figlia della portiera, che lo assisteva cercando di mettere ordine tra
la mole sterminata di carte, in parte giacenti sul pavimento e in parte appese
con mollette lungo dei fili, quasi si trattasse di biancheria stesa ad
asciugare. Sosteneva anche lei, come il professor Negri, che non era ormai più
possibile avere con lui una qualche forma di rapporto…
Antimo Negri, lo storico della filosofia salernitano, studioso
di Hegel e dell’attualismo?
Sì. Secondo lui D’Arrigo non percepiva più nulla della realtà;
la qual cosa, a me che lo frequentavo, sembrava inesatta. A riprova della sua
attenzione verso il mondo esterno, Stefano mi disse di non riuscire ad
ascoltare le notizie del telegiornale, tanta era la sua partecipazione. Da
starne male. Mentre molti anni prima era riuscito ad estrarre — con un’operazione
molto delicata, usando una pinzetta — una pallina di vetro infilatasi nel naso
del fratello di Ornella, allora bambino.
Ma, a questo proposito, andrebbero menzionati anche
gl’interventi scritti sui fogli dei verbali condominiali, in cui — altro che
torre d’avorio — invitava i condomini alla riflessione sull’orario di
riscaldamento più consono, tenendo presente l’esigenza di un più razionale
consumo: «Si rifletta», così iniziava una delle sue note a margine che lessi
alla luce d’una lampada, sul tavolino con sopra un telefono marrone, accanto
alla porta di casa dove spesso avvenivano, quasi furtivamente (Stefano era
perennemente, direi costituzionalmente circospetto) i nostri incontri. Ma anche
sul pianerottolo, vicino all’ascensore, dove una volta, su suggerimento d’una
vecchia conoscenza come Valentino Zeichen, che considerava comunque
D’Arrigo una specie di tonno sott’olio, gli allungai qualche foglio dattiloscritto di
un breve monologo da me ritenuto “difficile” per la presenza di costrutti
complicati, vocaboli desueti o ricercati, insieme a un altro più lungo e
disteso, che lui stesso commentò, senza esporsi troppo, com’era suo costume.
Credo preferisse quello breve e difficile.
Eri un ragazzo aperto ed esuberante, l’opposto dei D’Arrigo: non
saranno mancate burrasche, dissapori…
Devo dire che mostravano molta pazienza col giovane irruente che
ero allora. Ricordo, ad esempio, che quando presentai loro il mio amico Marco
Palladini, sempre davanti alla porta di casa, Jutta, squadrandolo, immediatamente
esclamò: «Ma lui è più giovane!» (con voce bassa e roca come quella del marito),
tanto da spiazzarmi e irritarmi con quell’uscita inattesa (perché darmi del
vecchio? arrivai a pensare), mentre Marco li osservava cercando di tenere un
certo contegno.
Per loro il mio trasferimento in via dell’Assietta, dove per
tanti anni era vissuta Ornella, doveva apparire come qualcosa di predestinato,
da applaudire e temere al tempo stesso. La curiosità era grande, insieme alla
speranza che la mia presenza potesse in qualche modo giovare a D’Arrigo, almeno
a parere di Jutta; ma anche il timore che la loro proverbiale riservatezza —
data anche la mia attività culturale, comprese le serate con amici poeti,
scrittori e critici, che avvenivano proprio in via dell’Assietta — potesse in
qualche modo venirne violata. Non ricordo che si fossero mai spinti a varcare
la soglia del giardino, forse per la presenza dei cani che infastidivano
entrambi (non sopportavano sentirli abbaiare in nostra assenza, e una volta
Stefano, con molta cautela, ci invitò a prendere gli opportuni provvedimenti
per zittirli); ma anche con la nostra gatta il rapporto non era dei più
idilliaci: una sera, dopo aver bussato alla nostra porta, si accorse che Matissa, attratta dagli odori, stava per
uscire sul pianerottolo, e la ricacciò quasi a calci dentro casa.
Come definiresti il tuo rapporto con lui?
Non credo si sia mai instaurato fra noi un rapporto di identificazione
reciproca, né tantomeno padre-figlio, ma qualcosa di molto simile veniva
ritenuto probabile da entrambi.
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Stefano D'Arrigo (ph. Maria Sanminiatelli Odescalchi)
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Parlavate spesso di letteratura? Suppongo si trattasse di conversazioni
molto accese, vista la sua avversione per l’avanguardia, di cui tu eri uno dei
più attivi esponenti. D’Arrigo ignorava il grigio: era capace di grandi amori e
ferocissimi odî: quali erano i suoi auctores e contro chi si scagliava?
Per quanto cercassi di spostare il discorso sul terreno che mi
era più congeniale, mentre ci attardavamo lungo la scesa riottosa di via dell’Assietta
(che anche allora appariva dolce e appartata) mi sentivo obiettare — sempre con
la pacatezza che mostrava nei miei confronti, come a volermi evitare un qualche
dispiacere per un suo giudizio troppo efferato — che l’avanguardia, a suo
parere, era una cosa effimera, passeggera, e anche quando cercavo di
problematizzare un tema per me ancora allo stato embrionale, mi guatava con
quelle sue occhiate oblique che non lasciavano dubbi, ma al tempo stesso attento
alle mie reazioni. In una specie di studiolo-tinello del suo appartamento,
ricavato tra la cucina e lo studio-biblioteca, mi disse che in quel periodo a
casa sua circolavano libri di Tolstoj, anche se il suo maggior punto di riferimento
restava il Verga dei Malavoglia e di Mastro don Gesualdo: ne parlava con
ammirata devozione, come del resto di Joyce. Accadde una sera da me, quando,
spingendosi fino al mobile svedese che separava il salotto dalla veranda, si
accorse della presenza di alcuni titoli joyciani, tra cui spiccava la copertina
verde e nera di Finnegans Wake,
edizione Faber & Faber, London, accanto a quella di Ulysses della Random House di New York. Anche quando mi parlò di Il Maestro e Margherita mi trovò del
tutto impreparato, dal momento che i miei gusti letterari gravitavano altrove.
Il romanzo di Michail Bulgakov nell’edizione einaudiana del 1967 veniva
salutato come il più clamoroso caso letterario di quegli anni. Non so se D’Arrigo
si fosse identificato con quel libro, anche per via della sua sorte editoriale,
fatto sta che me ne parlò in modo quasi ispirato, sempre in quel suo studiolo,
dove avevo l’impressione di sentire il suo fiato. Una sera, accortosi della
collezione di «Carte Segrete», la storica rivista diretta da Domenico Javarone,
troneggiante su uno scaffale della libreria, mi chiese di prestargli il numero
di ottobre-dicembre 1972, (vi, 20),
dove tra l’altro, in copertina si leggeva «Bulgakov, uno dei due geni ogni
mille».
Era invece inorridito da Pasolini, benché lo avesse fortemente voluto
per una parte in un film da lui diretto.
Nel 1961 D’Arrigo accettò d’interpretare il ruolo del giudice
istruttore in Accattone, ma non amava Pasolini. Il 23 luglio 1957
aveva scritto a Zipelli: «è per me sottile motivo di piacere che alcuni mi
citino in funzione antipasoliniana»; e l’8 novembre dell’anno dopo: «Tutti i
giorni spero di trovare la chiave, la soluzione dell’enigma (perché tale per me
è, un quesito della Sfinge: e sono inguaribile, gli esempi dei Pasolini che
vanno facili al successo come le divette che partono puntando sul pane e sul
resto, non riescono a sciogliermi dai miei dubbi, dalle mie preoccupazioni,
ecc.)». Walter Pedullà: «D’Arrigo
si irritò molto quando vide il glossario che Vittorini aveva aggiunto ai due
episodi del “Menabò”. Scrisse circa cinquanta telegrammi di protesta, anche se
ne spedì uno solo. Il ‘maestro’ aveva fatto un errore di grammatica: non aveva
capito che I fatti della fera non era come Una vita violenta. Pier Paolo Pasolini non era un buon
modello di narratore: non era da imitare, secondo D’Arrigo. Il quale non
tollerava d’essere considerato uno scrittore dialettale. Come il lombardo
Gadda, il siciliano voleva scrivere in italiano» (Introduzione a S. D’Arrigo, I fatti della fera, a cura di Andrea Cedola e Siriana
Sgavicchia, Milano, Rizzoli, 2000, p. xxiii).
Si diceva disgustato dallo scrittore friulano, e il suo giudizio
morale, ancor prima che estetico, era di una brutalità sconcertante: ci
raccontò episodi raccapriccianti a cui aveva assistito durante la lavorazione
del film, come lo schieramento delle comparse nude al fine di eccitarsi.
Parlava quasi scandalizzato del successo della Morante, e anche di
Sciascia, che come scrittore non godeva della sua stima. Del resto, in un’intervista,
dichiarò senza mezzi termini di essere la letteratura.
Avesti modo d’interrogarlo sulla lingua orcinusa?
Non parlammo quasi mai di questioni formali. Mi disse che andava
molto fiero del fatto di non aver mai usato una parentesi in tutto Horcynus Orca, marcando una
caratteristica a suo giudizio fondante della propria scrittura, che sembrava
esser passata del tutto inosservata; un dettaglio cui teneva al punto di
comunicarlo a Pedullà, suo grandissimo amico, che si stava occupando della sua
opera.
Non ha mai smesso di occuparsene: da qualche anno cura l’omnia
darrighiana per Rizzoli. Una lunga fedeltà.
Un’altra volta, scendendo con me in ascensore dal terzo piano,
dov’era il suo appartamento, mi scrutò di traverso, per via della cervicale che
lo martoriava, e mormorò: «Guarda che da uno come Hemingway non si ricava
nulla», cercando di mettere in crisi l’interesse che in quel periodo nutrivo
per quel grande scrittore.
Spesso ci guardavamo tristemente, come due randagi che non
avrebbero mai potuto camminare insieme. Questo almeno il mio sentimento d’allora.
Com’era il suo rapporto con Jutta? Si sa che era una donna molto
energica e — posso dirlo con cognizione di causa per averla conosciuta quando
lavoravo alle lettere di D’Arrigo a Zipelli — estremamente possessiva e
autoritaria. Ritieni giustificata la dedica di Horcynus Orca («A Jutta,
che meriterebbe di figurare in copertina col suo Stefano»)? Quale fu il suo
ruolo durante la composizione dell’opera?
Credo che tutto quanto è stato tramandato del rapporto con
Jutta, incluso l’invalicabile muro eretto con successo da lei sulla reale
natura del male oscuro che la stesura
del romanzo era costata a D’Arrigo, come si evince da una lettera del 1964 all’amico
Zipelli, sia del tutto veritiero: «Sto male da parecchio tempo, sapendo che se
interrompevo non ce l’avrei più fatta a riprendere le fila del libro. Quello
che ho, i disturbi di cui soffro, che solo io vedo, non l’ho detto nemmeno a
Jutta, perché significherebbe smetterla con il libro». Ma fu in occasione del
ricovero per depressione in una casa di cura di Arcinazzo Romano che il loro
rapporto rischiò la rottura, con Jutta che arrivò a minacciarlo: «O finisci il
libro o ci lasciamo». Penso si riferisse a quel periodo il racconto che mi fece
tempo dopo mio suocero, su una tresca tra Jutta, allora dirigente Inps, e un suo collega più giovane che
lei si portava a casa. Anche nell’intervista a tutto tondo rilasciata a Stefano
Lanuzza in calce a quel libro pionieristico su Horcynus Orca (Scill’e
Cariddi. Luoghi di «Horcynus Orca», Acireale, Lunarionuovo, 1985) dichiarò:
«Rispondo, ora, che il romanzo del mio romanzo potrebbe, meglio di me,
scriverlo mia moglie Jutta, la più continua testimone, che racconterebbe la
storia di tutto ciò che mi è stato contro per impedirmi di scrivere, di
accrescere un godimento che stava per costarmi la vita, fino a quando, l’otto
settembre millenovecentosettantaquattro, non ho definitivamente alzato la penna
dal libro» (p. 139).
Posso dire senza tema di smentita che della moglie aveva un
timore reverenziale, se non paura; anche se, naturalmente, più sentimenti s’intrecciavano.
Un giorno, mentre uscivamo di casa, Jutta volle mettere in
guardia Ornella: entrambe non avevano avuto figli e tendevano a far da madri ai
loro rispettivi mariti.
Ma vorrei ricordare un aneddoto ancor più significativo. Stefano
mi dette il suo numero di telefono; poco dopo bussò alla porta in preda al panico
scongiurandomi di buttarlo cancellarlo bruciarlo, ché altrimenti Jutta si
sarebbe infuriata, dal momento che non l’aveva dato mai a nessuno, neanche ai
parenti.
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Stefano Docimo
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Si dice fossero entrambi molto diffidenti nei confronti di
chiunque, perfino dei più intimi amici, come se dovessero costantemente
proteggersi da chissà quali minacce e pericoli.
Ti basti pensare che in tanti anni non ho mai visto la loro casa
se non di sfuggita. Una sera, rientrando dopo aver attraversato il cortiletto
esterno con la vasca dei pesci, lungo il corridoio che portava all’ascensore
gli dissi di avere due figli piccoli, nati da una precedente unione, che
dormivano in salotto durante il week end.
Mi osservò bene in faccia: sospettava che gli avessi mentito. Era visibilmente
scosso, tanto che mi dispiacque di averglielo detto, e volle vedere i bambini.
Aprii l’uscio e li intravide, senza però entrare, per non disturbarli; poi tornò
a testa bassa verso l’ascensore.
Tempo dopo mi sussurrò in un orecchio, come in confessionale:
«Non fare a Ornella ciò che io ho fatto a Jutta»: si riferiva, con rammarico,
ai sacrifici chiesti a sua moglie per tutto il lungo periodo di gestazione di Horcynus: vent’anni. Era molto legato a
Ornella, come si evince dalla dedica apposta sulla quarta di copertina nell’edizione
mondadoriana, con biro blu scuro: un breve scritto ben impaginato, che tradisce
una qualche emozione:
a Ornella C.,
fa dedica, sinceramente
commosso, il suo vecchio
amico Stefano D’Arrigo
che potrebbe dire
(anche per lei) che ha
quasi la stessa età
di questo libro cresciuto
come lei in Via dell’Assietta quattro.
Ma non bisogna immaginare che fosse perennemente torvo e cupo:
anche se immerso nel suo lavoro, a volte, quand’era in vena di battute, non
lesinava il loro apporto; come la mattina in cui, mentre lo accompagnavamo
nella nostra Dyane 6 carta da
zucchero, con Jutta sempre vigile, per giustificare il suo doppio nome disse
sornione che mentre Stefano lo spendeva all’esterno, Fortunato se lo teneva
stretto in tasca. O quando ci raccontò che la mattina, davanti a Jutta,
bastava pronunciare una parola, o una semplice asserzione come «Piove», per
scatenare tutta la sua ira. A far ridere era l’inespressività del volto, unita
a quel tono di voce grave, con cui raccontava queste storielle quotidiane.
Commentando un acquarello di Ornella intitolato Ponte Milvio e utilizzato come riquadro
di copertina nel mio libro Ponti d’oro,
osservò ironicamente che, più che un fiume, quello rappresentato sembrava un
oceano; mentre alcune altre opere di Ornella gli ricordavano Chagall. Era un
fine intenditore di pittura.
Finissimo: non tutti sanno che cominciò come mercante e critico
d’arte. Ma com’era nel quotidiano? Infatuazioni, scatti d’ira, vizi, virtù… Quali
dèmoni lo tormentavano?
Solo una volta, per la verità, mi ricordo di averlo sentito
alzare la voce ed esclamare al telefono: «Ma chi è quel pinocchietto!», dopo
che qualcuno, dall’altra parte del filo, gli aveva riportato un giudizio
affrettato su di lui; ma non ricordo chi fosse il pinocchietto. Ogni volta che
capitava d’incontrarci, cosa che avveniva abbastanza spesso, diceva che sarebbe
passato a prendere un whisky con Jutta nel pomeriggio, invece non si faceva
vivo. Una mattina promise che sarebbe sceso a trovarci, ma poi bussò alla porta
in stato d’agitazione: tirò fuori dal loden delle medicine e disse che si era
sentito male, perdeva sangue dal naso e doveva andare dal medico. Soffriva di
forti emicranie, che cercò di curare ricorrendo in ultimo all’agopuntura, data
l’inefficacia dei farmaci.
Un giorno d’estate lo trovai trafelato, con un fazzoletto rosso
al collo e i quotidiani aperti sul pavimento dell’ingresso. Cercava con foga qualcosa
che lo riguardava, i piedi nudi e ben arpionati al pavimento. Non mi disse cosa,
ma era evidente si trattasse di articoli su di lui. Era molto sensibile alla
critica: ricordo
che mi chiese in prestito una radiolina rossa, bassa e lunga, a batteria, per
ascoltare qualcosa che lo riguardava.
Mi confessò di nascondere le bottiglie di whisky negli abat-jour
per sottrarle alla vista di Jutta. Credo bevesse molto. Lo incontravamo spesso
a piazzale Jonio, dove si trovava un ingrosso di superalcolici. Ricordo che si
lamentò del fatto che il compenso di 100.000 lire, offertogli per la
collaborazione a un giornale, gli sarebbe appena bastato per il consumo mensile
di whisky.
Avesti mai l’impressione che continuasse a nuotare
immedicabilmente nella placenta di Horcynus anche dopo la pubblicazione del romanzo?
Riteneva che Horcynus
viaggiasse ormai da tempo «per conto suo»; il problema era poter scrivere
qualcosa dopo, qualcosa che si trovasse «a mille miglia di distanza dal suo capolavoro, di molto semplice e di
molto breve». Non capivo allora perché avesse questo problema, e quando lessi Cima delle nobildonne mi parve d’intuire
che il nuovo romanzo avesse in qualche modo a che fare con Jutta, come in
seguito lui stesso ci confidò. Era lei ad averlo voluto, insieme a Leonardo
Mondadori, se non ricordo male. Nel 1982 D’Arrigo rompe il suo proverbiale
silenzio per rilasciare qualche fugace dichiarazione: «Ma cosa scrivere dopo l’Horcynus? Questo è stato, per anni, il
mio angoscioso interrogativo, finché tre o quattro anni fa, non ho maturato in
mente il progetto del libro che, su un altro versante, ha come suo primo
privilegio quello di onorare l’Horcynus
[…]. Sì, l’Horcynus si è oramai
staccato da me e il nuovo libro riguarda l’unità che sta dietro la porta del
ricercatore. È il rapporto, rivolto al futuro, tra l’uomo e la scienza […]. Dal
punto di vista linguistico […] non mi troverò per nulla nei paraggi dell’Horcynus. Userò, anzi sto usando, l’italiano
ma il mio italiano» («Il Messaggero»,
3 settembre 1982).
Il giorno dopo disse a un altro intervistatore: «Ho avuto anni
angosciosi e tormentosi. Il mio dramma era di trovare qualcosa che fosse degno,
competitivo, come si dice oggi, dell’Horcynus. Sennò veramente ci sarebbe
voluto il colpo di pistola dove dico io. Adesso sono abbastanza contento: mi
sento al polo nord dell’Horcynus […]. Lavoravo un tempo a tentativi che
sapevo abortiti. Rimessomi finalmente in salute il problema era, scusa, di
mettere il culo su un altro lavoro. Dopo tutto questo travaglio credo, anche se
posso sbagliare, di aver trovato quello che andava trovato: un dopo Horcynus
insomma […]. Non voglio, non posso dire di più. Il polo nord significa distanza
e superamento […]. Lo spunto l’ho trovato in Roland Barthes, uno scrittore che
tuttavia non mi è simpatico. Dice Barthes: “Il romanzo è sempre in ogni pagina
in stato di profezia”. Così è in questo libro: così è avvenuto lavorando
all’idea del romanzo, alla struttura, perché si tratta del romanzo meno romanzo
che si potesse scrivere, e nello stesso tempo del romanzo più romanzo. C’è pure
della fantascienza in questo libro! Sono come uno che sta davanti ad un
laboratorio di ricerca» («Il resto del Carlino», 4 settembre 1982).
In quell’espressione, «mettere il culo sul lavoro», si ritrova
tutto D’Arrigo, che infatti mi ripeteva: «Quando ti metti a lavorare non levi
più il culo dalla sedia». Poi, pensando che l’avessi preso troppo alla lettera,
si correggeva con frasi del tipo: «Be’, cerca di capire», magari sulla soglia
dell’ascensore, dove avvenivano molte delle nostre chiacchierate. Ma in quell’angolo
in penombra si poteva assistere anche a spassosi diverbi, come quello con un’inquilina
che lo mandò platealmente a quel paese (aggiungendo alle parole un gesto
eloquente) perché non le aveva dato la precedenza in ascensore (secondo me a
ragione). Quella volta non c’era Jutta a difenderlo.
D’Arrigo
resta un auctor unius libri: la sua seconda prova narrativa fu così
deludente da parer stesa da altra mano. Come considerava davvero Cima delle nobildonne?
Fu un tributo a Jutta, per gli anni di sacrificio cui l’aveva
sottoposta. Dal silenzio degli ultimi dieci anni credo che, benché avesse
considerato l’operazione tanto dovuta quanto commerciale, non ne fosse granché
soddisfatto, e in una fase di profonda amarezza mi confessò che scrivere, in
fondo, non gli era servito a niente. Comunque sia, avevo letto il libro con
interesse, come risulta da un breve saggio del 24 dicembre 1985, apparso sulla
terza pagina dell’«Umanità».
Lo ricordo benissimo: La
tormentata ricerca estetica e linguistica di Stefano D’Arrigo: «D’Arrigo
è lo scrittore isolato, l’amico che si ama per la sua estraneità dal mondo, ma
al tempo stesso tanto partecipe da ammalarsene […]. In una parola è l’amico del
profondo, colui che non disdegna di accoglierti nel più caloroso dei disagi
mediterranei, con una scontrosità amabile quanto la sua parsimonia di parole. È
strano come lo scrittore di Horcynus Orca, il padre di questa nostra tormentata lingua contemporanea,
l’esuberante neologista e moltiplicatore di frase, sia tanto avaro di parole,
in privato […]. A ripercorrere il testo [Cima delle nobildonne], così come ci si presenta, vale a dire
senza schemi critici preconfezionati […] si avverte subito la strana confluenza
o mistura linguistica operata a livello alto fra il classico descrittivo e il
veleno barocco del comico, sapientemente contenuti ai limiti d’una perfidia che
declassa, mentre lo codifica a livelli alti […] in una dialettica nascosta, tra
monstrum narrativo e lettura sempre critica del testo, in realtà solo
apparentemente classico. Il fatto è che ci si trova davanti ad un’opera
onestamente e faticosamente sperimentale, pur nel suo nicchiare, quasi a far
finta di nulla, con le strutture ordinate della narrazione. D’Arrigo raggiunge
la sua piena grandezza nell’offrirci un capolavoro con l’aria dell’esordio, ai
limiti della deistituzionalizzazione. Gioca con le macrostrutture narrative per
dirci poi che ciò che conta è la sapienza artigianale, quasi ossessiva. In
questo suo mondo straniato o si entra e se ne resta abbagliati, o si rimane per
sempre sulla soglia, senza capirlo».
A volte pensavamo, insieme a qualche amico, che il suo caso fosse stato una montatura
editoriale, come si andava vociferando e scrivendo, e quando uscì Cima delle nobildonne in molti restammo
sconcertati, anche se a qualche critico era piaciuto, come mi venne detto
proprio da uno di loro, Raffaele Manica, durante una delle nostre serate in via
dell’Assietta, con Giovanni Fontana e altri amici poeti. Il fatto è che a
leggerlo credo fossero stati veramente in pochi.
Questo non significa molto: in letteratura qualità e successo sono
quasi sempre antipodi. Piuttosto, che tu sappia, quella che lui chiamava «la
mia pazzia» («Ti prego di salutare affettuosamente per me tua moglie e cerca di
scusarmi presso di lei. Spero sappia anche lei della mia pazzia o quasi»,
lettera s.d. a Zipelli, ma 1946) era depressione o cos’altro?
Credo si riferisse a quello che Jutta chiamava «il piccolo
male», una forma di epilessia che gli provocava, tra l’altro, improvvise
perdite di coscienza: era terrorizzata dal fatto che potesse avere una crisi
durante le ore in cui era lontana per motivi di lavoro, e mi fece capire che
sarebbe stata più tranquilla se io, qualche volta, avessi potuto salire da lui,
per controllare che tutto fosse a posto. Lui tendeva a sminuire la cosa,
scuotendo la testa in segno di diniego, quasiché attribuisse un diverso
significato alle paure della moglie.
Come scrittore puoi dire di aver imparato qualcosa da lui? Era
inevitabile che un giovane come te cercasse d’instaurare con lo scrittore più
anziano e famoso una qualche forma di dialogo. Ovviamente non in una dimensione
anodina di apprendistato.
Non saprei. Certo, un’opera come Horcynus non poteva non agire in profondità, in modo anche
indiretto, come ad esempio nel mio poemetto Natanti:
«Allumava dalla spiaggia al rimorchio / dove la morse in ambedue le cosce /
irrefrenabile continuo implacabile / dalla carena al porto per l’inconscio mondo
/ dove la piva sciarrava impazzita da raptus / fra altalenanti rovine di morra
e rughio / nell’andirivieni sagomato d’una rotta / ben salda nella sua promessa
sconclusione / di natante ignavo per troppo rugumare»; ma ci sono anche
riferimenti più diretti a D’Arrigo e alla palazzina dove abitavamo: «la
palazzina letterata del demone gambamarza / sconvogliatore di panorama all’andazzo
del nuraghe».
La verità è che rifiutavo quel modulo narrativo ad ampissimo
respiro entro cui, al contrario, si moltiplicavano le innovazioni linguistiche,
la commistione dei dialetti e tutto ciò che rendeva indigesta quell’opera, non
solo al grande pubblico, ma anche a quella élite
di lettori che di fatto continuava a ignorarla. Una letteratura ancora
poggiante su una narrazione di tipo ottocentesco, dunque da rimuovere: così mi pareva a quel tempo Horcynus, che una critica forse troppo
frettolosa aveva paragonato al capolavoro joyciano, benché non vi fosse l’ironia,
il gusto dello spiazzamento e la summa
della cultura europea, dalle origini ad oggi.
Dunque, non hai amato Horcynus?
No, quell’operazione non mi coinvolse più di tanto: qualcosa mi
respingeva, a causa del suo linguaggio, che percepivo come insistentemente monodico e ripetitivo. Avrei preferito
un D’Arrigo scrittore di nicchia: avrei voluto vederlo pubblicato da una casa
editrice di qualità, o al limite da Einaudi, con un romanzo sfrondato di un
cospicuo numero di pagine. Questa era la mia opinione in quegli anni, giusta o
sbagliata che fosse. Una sera, in una di quelle riunioni, discussi la cosa con
Mario Lunetta, sottoponendogli la lettura di un mio pezzo su D’Arrigo. Alla
fine d’un’attentissima lettura, lui esclamò che certo, comunque, si trattava
d’uno scrittore. Lì per lì non capii: chi metteva in dubbio il fatto che
D’Arrigo fosse uno scrittore? Poi mi spiegò d’aver scritto, subito dopo la
pubblicazione di Horcynus, una
recensione che sarebbe dovuta uscire su «Rinascita» e che rimase inedita.
S’intitolava Horcynus Orca: la bussola
cieca della mitologia, e rende benissimo l’atteggiamento che molti di noi
avevano nei confronti di quell’opera smisurata:
“ 1. Ogni impresa che onestamente sia costata umana fatica è
degna di forte considerazione, tanto più se chi vi si è dedicato ne ha fatto la
sua centrale e definitiva ragione di vita: pur con tutti i rischi, beninteso,
dell’ossessività, della monomania, del fanatismo circolare che può rivelarsi
per l’autore, di volta in volta, sogno liberatorio o incubo spiralico. Ma in
fondo, poi, non ci sono mille e mille modi di mordersi indefinitamente la coda
anche in letteratura, magari nella convinzione di aprirsi al mondo come nessun
altro, in forza della propria immane colluttazione linguistica, vissuta insieme
come scommessa mortale e vittoria sull’effimero?
Nessuno, quindi, negherà rispetto a chi, come Stefano
D’Arrigo, si può ben dire abbia identificato le ragioni della propria
esistenza, in toto, con le ragioni
dell’esistenza di quell’opera smisurata che si pasce di sé per 1257 fittissime
pagine, si nomina, con secca e catastrofica allitterazione, Horcynus Orca (Mondadori), e pare, dopo
l’ultima parola, tutt’altro che sazia di divorare continenti verbali, pianeti
di immagini, galassie di suoni, di figure retoriche, di allegorie. Ci si trova,
insomma, di fronte a una congestione prolungata all’infinito senza che la
sincope mortale vi ponga, letterariamente parlando, l’estremo rimedio. In
questo senso, davvero un’opera aperta
impossibilitata a chiudersi non per via di ratio
teorica ma per inesauribile ingordigia, perché, anche al suo termine grafico,
ancora alla ricerca di un significato centrale che sia la sintesi degli altri
innumerevoli inseguiti e agganciati (ma anche perduti in uno scialo
irrefrenabile) durante il terrificante raid
terracqueo compiuto dallo scrittore, e possa perentoriamente suggellare
l’opera.
Che era già leggendaria, caso più che raro in Italia, molto
prima della sua pubblicazione. Il mito di un libro che salvo pochissimi intimi
nessuno conosceva se non nel suo primissimo nòcciolo, quando apparve (1960) nel
n. 3 del «Menabò» di Vittorini col titolo I
giorni della fera, cresceva col passare degli anni, col silenzio pubblico
di quest’autore come «morto al mondo», il quale sembrava sempre più dividere,
anche biologicamente, il destino del suo onnivoro testo; infine, meno
“naturalmente”, con le periodiche e sapienti sortite dell’industria culturale
la cui pubblicità annunciava di tempo in tempo l’imminente uscita dell’opera,
senza che l’evento poi si verificasse. Non certo per colpa dell’autore, dolorosamente
intrigato dalla sua disumana lotta con le parole che più ne uccideva più
continuavano a figliare, incontenibilmente, e dell’Assenza pareva avesse fatto
la sua ferrea divisa: e che, si andava dicendo e scrivendo, era incapace di
staccarsi dalla sua mostruosa creatura, al punto che soltanto una crudele
decisione editoriale, un diktat imperioso, avrebbe potuto produrre il miracolo
di privarlo del suo manoscritto per darlo finalmente alle stampe. Un caso
clinico, al dilà del caso creativo. Una sorta di simbiosi di identificazione,
per dirla alla svelta con una formula psicoanalitica: quasi che l’Orca si fosse
trasformata in D’Arrigo fino a condividerne l’esistenza fisica in un
vicendevole, forsennato appartenersi.
Una gestazione terribile, quella del romanzo, felicemente
conclusasi nel gennaio di quest’anno. Ora il libro è lì, coi suoi (suppongo)
pochi lettori e le sue molte vendite, mentre s’è già spento il clamore
martellante di un battage che per un
paio di mesi ha inondato le pagine di giornali europei e americani. È quindi
possibile che adesso si possa provare a parlarne con più relativa calma e più
distaccata serenità.
2. Dunque, com’è nella maggiore tradizione del romanzo
occidentale, anche Horcynus Orca
cresce attorno all’idea-archetipo del Viaggio. Due spettri giganteschi, quello
del massimo antenato arcaico e quello del massimo antenato moderno, insomma i
due Ulisse greco e irlandese, tra i quali si accampa la presenza egemonica del
bianco cetaceo di Melville, paiono continuamente evocati dal controllatissimo
paroliberismo della sterminata nenia di D’Arrigo: ma in realtà si tratta di non
più che un miraggio, dal momento che l’operazione dello scrittore messinese si
dispone su una linea “dialettale” e “provinciale” in tutti i sensi
inconiugabile con quei tirannici esempi, malgrado la “facilità” di certi tòpoi: il nòstos, l’azione racchiusa in pochi giorni, la costante ossessione
del mare e dell’Orca mostruosa, epifania in qualche modo divina.
Probabilmente, ciò che interpone tanta distanza e tanta diversità
fra il romanzo darrighiano e certi schiaccianti precedenti è il fatto che in
questo libro è esilissimo il mood
dell’allegria antagonistica che anima l’uomo nei confronti del mondo e del suo
tragico modificarsi, è invece preponderante il sentimento della morte come
Assoluto, che finisce per vanificare e comunque ridurre a evanescenza i
tentativi di rendere dialettico l’immenso racconto, pur nel proliferare (si
direbbe quasi sconsiderato) degli episodi, delle figure, delle storie interne
alla storia.
Lo afferma il suo autore: Horcynus Orca è «il racconto di un ritorno»; e la definizione ha
un’aria di beffa carica di finta modestia. In realtà, il libro è sì il racconto
di un ritorno, ma del ritorno maniacale del linguaggio su sé stesso, sui luoghi
dai quali è partito, a caccia di un Segno Definitivo che abbia la forza di
farlo finalmente fermare. Perché anche il protagonista umano del romanzo,
ʼNdrja Cambria, «nocchiero semplice della fu Regia Marina» che ai primi di
ottobre 1943 discende la costa tirrenica della Calabria fino allo Stretto, per
tentare di approdare all’opposta sponda e toccare il suo paese di pescatori,
non gode di una sua vera autonomia, pressato com’è, e come tutti i personaggi
del libro vessato, dal vero dèspota che è il linguaggio. Non che lo Stretto,
troppi oceani di parola dovrebbe attraversare anche lui per giungere alla
liberazione e uscire dai gorghi verbali nei quali in realtà è imprigionato. È
qui, in quest’impossibile riscatto, la sua vera Cariddi.
Che nel romanzo, invece, lo affascina con tutti i più
angosciosi e gioiosi filtri della nostalgia, dalla sponda siciliana piena di
profumi, di sapori, di strazianti ricordi. Come vuole la Tradizione
Occidentale, come vogliono il romanzo ellenistico, e quello tardo-romano, e
quello picaresco (e quale altro ancora?), ʼNdrja s’imbatte in esseri umani
e in esseri animali, nelle selvagge «femminote», specie di piratesse dello
Stretto audaci e sensuali, generose e violente; e nelle «fere», delfini dalla
doppia anima, soccorrevole e trucida, quasi soprannaturali creature notturne
giocose e perfide: e conosce individui e paesi, passa attraverso le rovine
della guerra, la distruzione, il massacro, la desolazione sempre ritmati nel
racconto dalla corda oscillante senza tregua del realistico e del simbolico,
del cronistico e dell’allegorico di natura scolastica; si reinserisce nella
comunità da cui fu brutalmente strappato, prende parte attiva all’arenamento di
un’orca terrificante (l’«assassino dei mari», come la definiscono certi
pittoreschi manuali marinareschi), e trova una morte repentina e casuale su cui
il libro si chiude: «’Ndrja fece per alzare gli occhi alla immensa, allarmante
fiancata della portaerei, e fu come se porgesse volontariamente la fronte alla
pallottola, che gli scoppiò in mezzo agli occhi con una vampata che lo gettò
per sempre nelle tenebre».
Il sacrificio è «volontariamente» consumato. ʼNdrja è
la vittima bella, purissima e giovane di una curiosa religione
laico-paganeggiante, la cui sola modernità è data dalla Morte Insensata. E si
rivela, allora, come l’Eroe Predestinato di una vicenda stracolma di personaggi
eroici, tutti più alti di una spanna rispetto al personaggio-uomo dai tratti
dimessi, slabbrati e disperatamente quotidiani del romanzo contemporaneo più
consapevole.
Ecco dove l’impresa di D’Arrigo mostra, con tutto lo
sperpero di immaginazione lirica (e muscolare) che accumula e disperde, la sua
vera debolezza. Nella disposizione che lo scrittore, e perciò la scrittura,
assumono nei confronti del mondo: che è una disposizione mitologica nella
quale, fatalmente, anche il dato storico, l’elemento sociale e la cronaca
politica vengono enfatizzati e dilatati in funzione delle necessità favolose e
“ingenue” dentro le quali l’intero romanzo agisce. I poveri, gli sfruttati, i
vinti di D’Arrigo vestono sempre una loro regale grandezza, si muovono in una
loro statuaria eleganza: e parlano, parlano a non finire, si saziano delle loro
parole, le infilano senza posa come perle, se ne coprono come di trine
luminose. Anche qui riposa la mistificazione involontaria dello scrittore, che,
al dilà dei termini prettamente ideologici, si dipana in termini prettamente
stilistici nell’incapacità di stringere energicamente alla gola le situazioni
per staccarle dal magma e renderle autonome nel loro significato drammatico,
pur nella carenza di ironia che caratterizza l’intero epos narrativo del romanzo. La mancata drammaturgia si risolve così
in teatralità diluita, in cui tutto lo spazio è occupato da personaggi che
appaiono afflitti da un’inguaribile, forsennata logorrea: proprio, si direbbe
con un’analogia quasi ovvia, come avviene nel teatro dei pupi, che lo scrittore
siciliano custodisce certamente nel piccolo pantheon dei suoi lari domestici:
con la differenza che in quel tipo di teatro la discorsività esagerata e i
recitativi senza fine sono la struttura stessa dell’azione, non rispondono
certamente a velleità aggiuntive, a princìpi di corollario esornativo, come
troppo spesso accade nei duetti o nei cori di Horcynus Orca.
Una strana, particolarissima puperìa, s’intende. Perché in
questo ribollente vulcano allestito dal romanziere con implacabile furia
demiurgica, e a cui paiono concorrere le potenze alleate del cielo del mare
della terra della leggenda e del destino, circola a lungo andare, proprio in
forza di una ripetitività stilistica e di tono da cui egli sembra incapace di
svincolarsi, una sorta di musica di andamento rococò, tale da ricordare le
colorite eleganze arcadiche di un Meli rivisitato in tono sanguigno e
visionario da un finto naif
novecentesco. Il vezzo di cincischiare senza misura su invenzioni che in
partenza hanno una loro magica forza epica, o una loro magica delicatezza,
sottrae a tanta parte del libro l’effetto fulmineo della sorpresa. Lo
straniamento, intuìto da D’Arrigo in certi momenti di poderosa efficacia, non è
perseguito da lui come fondamentale strategia narrativa, tanto da cedere quasi
sistematicamente a qualcosa che potremmo definire principio di accrescimento
dell’identico. Nel suo immane poema in prosa il romanziere messinese mostra
davvero di non avere assimilato in modi modernamente critici la grande lezione
dei suoi padri, tra i quali volentieri includerei a contrario l’Ariosto. Le fratture in cui il cantore di Orlando è
maestro, i bruschi mutamenti di piano e di ritmo, il senso “cinematografico”
della dialettica delle cadenze pur all’interno di un tessuto in apparenza
uniforme, insomma la sensibilità della “prosa” dentro la poesia, gli sono
estranei: con la conseguenza che il suo romanzo appare tutto “musicato”,
secondo la misura di un cursus
costante, alla lunga tedioso come la trenodìa di un cantastorie riproposta da
un trascrittore colto.
L’equivoco di D’Arrigo è anche qui. Egli regredisce al
linguaggio favoloso e “popolare”, ma lo usa da letterato che appartiene
irrimediabilmente a un’altra cultura, giocandoci su anche quando lo attribuisca
(con un’operazione artificiosa e “poetizzante”) ai suoi personaggi “semplici”.
Ecco perché paradossalmente sono portato a credere che Horcynus Orca potrebbe essere tranquillamente voltato in versi
senza che troppo cambi. Sottraendosi alla responsabilità di decidersi a optare
tra mito e racconto, tra canto e narrazione, D’Arrigo ha realizzato un prodotto
iper-ibrido che non possiede la distanza ironico-critica propria del grande
manierismo, né l’ingenuità robusta di quella che chiamiamo (per pura comodità)
arte naive. Il linguaggio impiegato
dallo scrittore soffre questo cumulo di contraddizioni: proprio perché al
linguaggio egli si è affidato perdutamente, in una gara titanica quanto, alla
fine, stucchevole: e ci si passi l’iperbole, “provinciale”.
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Bruno Caruso, Stefano D'Arrigo e i fantasmi del mare, 1998
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Nessuna mimesi dialettale, in questo sbalorditivo romanzo:
semmai l’ambizione di fruire delle varie parlate dello Stretto inserendole in
una sintassi che è tutta inventata, e risponde, come poco sopra dicevo, a
un’esigenza melodica, di armonia lirica, perfino (incredibilmente!) di bella
scrittura. Il gioco paziente e cocciuto della fantasia verbale darrighiana
sfrutta soprattutto i radicali vernacoli, fino a far esplodere inusitate
sincronie metalinguistiche, a produrre allitterazioni ingegnose, assonanze,
consonanze, legamenti inusitati di parole. I risultati non sono sempre felici,
e spesso si risolvono in una sequela di esercitazioni al confine della
frivolezza. Ed ecco infatti tornare senza tregua nel libro la manìa dei
diminutivi (muccuselli, sbarbatelli, bastardello, bottonelli),
l’ossessione delle saldature non indispensabili (pietrebambine, cameraperdormire,
ventottodicembre); e poi ancora
l’orgia dei neologismi troppo facili intinti nel sugo dialettale, come purparlé, sanguoso, maniamento, alliamento, spensieramento, strabiliamento,
fantasiato, porcherioso etc. etc., come in una giostra che riconduca
puntualmente, a ogni giro, i suoi cavallucci e le sue automobiline davanti agli
occhi perplessi di chi guarda.
3. Soverchiato dall’accumulo ciclico di questi spropositati
materiali, Horcynus Orca conserva il
suo cuore profondo in certe straordinarie intuizioni il cui splendore viene
tuttavia offuscato dall’irrefrenabile alluvione delle metafore che fanno
affollatissima postillazione: e sono amori selvaggi e repentini, vendette
spietate, fatiche violente e malripagate di pescatori (i pellisquadre); finalmente l’apparizione apocalittica dell’Orca, che
porta in sé la malattia e l’esizio nello squarcio immenso che le strazia il
fianco, e la cui unica funzione è di diffondere appestamento e lutto, solcare
il mare per portare distruzione ed òbito, vivere nelle grandi acque
mediterranee per dare la morte: essere infine l’incarnazione stessa della
Morte.
Far morire la Morte è certo un’energica invenzione: e ciò
s’impegna a fare lo scrittore per mezzo delle fere che spolpano e ridicolizzano il mostro. Ma ancora una volta,
il senso di tutto ciò gronda di mitologia, il simbolo ha bisogno in pagine e
pagine di caricarsi di zavorre allegoriche, di superflui accessori eloquenti: e
il narratore epografo è costretto a affidarsi, pagando in efficacia un prezzo
altissimo, al descrittivismo esasperato che, per quanto prestigioso, sappiamo
bene come risulti inesorabilmente una coperta troppo corta, anche se sontuosa.
4. La mia severità di lettura, sia chiaro, tiene in gran
conto le grandi ambizioni di un testo per tanti versi eccezionale; ed è
comunque impari, sia chiaro altrettanto, al clamore della grottesca innografia
che da troppe parti, da destra e da sinistra, da chi fa in piena legittimità il
proprio mestiere di imbonitore a chi con legittimità almeno istituzionalmente
più attenta fa il proprio mestiere di critico, si è levata in questi mesi
attorno a un’impresa che è costata, in piena onestà e dispendio di risorse
fantastiche, tanta umana fatica. Non me ne voglia Stefano D’Arrigo, a cui va il
mio incondizionato rispetto. ”
La verità, come banalmente era accaduto per altri detrattori, è
che io di quell’opera immensa avevo letto solo qualche stralcio, distrattamente
e annoiandomene dopo poco, nonostante il suo autore abitasse qualche metro
sopra di me e mi onorasse della sua amicizia.
Così D’Arrigo a p. 136 del libro di Lanuzza: «… che il mio libro
sia stato rimosso da qualcuno con una frase d’insofferenza, un esorcismo
arrogante, una battuta superficiale. Non sarei sincero se dicessi che tutto ciò
mi ha deluso perché non sarebbe lecito affermare che certe fiere del vaniloquio
abbiano davvero espresso un qualsiasi rapporto col romanzo, cui non credo possa
accadere più qualcosa di male». Il tuo giudizio è mutato nel tempo?
Sostanzialmente no. Però non mancarono gli apprezzamenti ‒
gliene feci parecchi ‒ verso alcune prese di posizione polemiche dell’autore
di Horcynus Orca, o D’Arrigus Orca, come qualcuno all’epoca
lo aveva apostrofato, cosa che a lui era comunque piaciuta.
Quindi, apprezzavi più l’uomo che lo scrittore?
Amavo il suo essere appartato, indipendente, mai compromesso con
la società letteraria; ad esempio il fatto che avesse «dato buca» a una diretta
tv condotta da Enzo Siciliano e che volesse assistere, dal suo piccolo schermo
in bianco e nero, alla replica di un film di Chiaretta Gelli, Il birichino di papà, appena venuto a
sapere che la cantante protagonista era mia madre.
Detto ciò, un’influenza seppur implicita credo ci fosse stata: D’Arrigo
stesso l’aveva riconosciuta quando gli feci leggere La città di Liebeshandel o alcuni frammenti di Tratto di scena (flugfly). Tra le poesie, mi disse che gli
piacevano le più lunghe, i cosiddetti poemetti: fu l’unica volta che lo sentii
esprimere un giudizio su quei versi, dal momento che non esprimeva mai giudizi,
affermando che non era a lui che dovevano piacere, mentre proprio a lui mi
sarebbe interessato che piacessero. Scherzando, andava poi dicendo che gli
venivo dietro, riferendosi
ad alcuni miei testi, ma quando si trattò di scrivermi una dedica sull’edizione
economica negli Oscar Mondadori del giugno 1982, quel passaggio di testimone
gli parve troppo azzardato:
da Stefano a Stefano
cogli auguri (facilmente im-
maginabili) che uno Stefano
fa all’altro
La vergò sulla poltrona girevole del nostro studio-salotto con
la solita penna biro. Jutta sedeva sul divano e, come a volerlo spronare, gli
aveva suggerito di scrivermi una bella frase, cosa che fece con molta
concentrazione, anche se subito dopo scosse la testa dicendo che non avrebbe
dovuto scriverla così; continuò a scuoterla ancora a lungo, come a voler
sottolineare tutto il disappunto. Era una sera settembrina dellʼ82.
Poco dopo mi disse che un regista voleva ricavare un film da
Horcynus Orca, ma la cosa non mi pare
gli garbasse: scrollava il capo in senso di diniego, sorridendo. Immagino che
ne fosse lusingato, ma non digeriva il fatto che la sceneggiatura si basasse
tutta sull’orca-delfino, una specie di racconto d’avventura, insomma. So che
non dette mai l’assenso e non se ne fece nulla.
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D'Arrigo in un'immagine di Gianluca Cataldo
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Cosa ricordi di quel 2 maggio 1992?
Una splendida giornata di sole. Ero in giardino quando mi
telefonò mio figlio sedicenne. Aveva appreso la notizia alla radio. Rimasi
inebetito: sono qui a due passi e non ne ho saputo nulla? Mi precipitai al
terzo piano, non ricordo chi ci aprì la porta. Jutta era seduta su una
poltroncina di fronte al salotto, composta nel suo dolore e spaventata da
quanto ancora poteva accadere. Indicò con un gesto della mano il luogo dove
andare a posare l’ultimo sguardo. Ornella, dopo aver dato una rapida occhiata a
quel suo vecchio amico, senza riconoscerlo se non come citazione di qualcuno
che ora non era, si era seduta per un poco accanto a Jutta, che sgranò quel
racconto di allucinate parole che non sanno più di cosa si vada a parlare.
Diceva di non aver voluto permettere che infierissero con l’autopsia sul
cadavere del marito: «A che pro? preferisco che lo lascino in pace». Ora che a
tacere era lui, il silenzio si andava annidando tra i discorsi senza più senso
degli astanti che, pur mormorando qualcosa, erano come assorbiti da quel
lontano silenzio forzato, come se fosse tutto ciò che restava di quella
giornata, che pure poteva configurarsi come una voce fuori campo, nel bailamme
di astronauti frastornati da quel lungo viaggio, ora che la salma era
ricomposta nella stanzuccia ricavata dopo i lavori di muratura, sul cui piccolo
scrittoio restava poggiato un pacchetto aperto di Rothmans Leggera ultrasottili. Finché il calpestio rapido degli
addetti alle pompe funebri lungo la rampa di scale che scendeva fino
all’ingresso soleggiato del portone di ferro e vetro in cattivo stato della
palazzina in cui aveva abitato e atteso alla stesura del suo capolavoro,
suggellò anche la fine del nostro rapporto.
In strada si era già radunata qualche persona. Riconobbi la
poetessa Marcia Teophilo, che passeggiava nervosamente avanti e indietro,
gettando improvvisi sguardi oltre il cancello, in attesa del feretro, e altri
dell’ufficialità, che per noi “antagonisti” rappresentavano il nemico da
abbattere. Non ricordo altro di quella giornata, se non che i funerali si
svolsero in forma religiosa nella chiesa di piazza Monte Gennaro. Salutai
qualcuno che conoscevo, poi mi ritirai in fretta.
Continuasti a frequentare Jutta?
La rividi solo un anno dopo, in occasione di una riunione
condominiale: fu molto gentile sia con me che con Ornella. Poi mi trasferii al
Flaminio, quartiere dove avevo abitato fin da piccolo, e là Jutta mi telefonò
per dirmi che stava organizzando un convegno su Stefano. Il cambiamento di
casa, che fu per me anche un cambiamento di vita, mi allontanò lentamente da
via dell’Assietta. Non mi feci più sentire: una condotta che oggi giudico
imperdonabile. Quella coppia che incontravo così spesso lungo la scesa, con
D’Arrigo che si trascinava a testa bassa qualche metro dietro di lei, e a cui
mi ero per tanto tempo abituato, aveva cessato di esistere. Mi immersi in una
sorta di Vita nova. Resta il ricordo
di quel piccolo androne, dove anni addietro s’erano raccolti nottetempo e in
pigiama molti inquilini dello stabile, spaventati da una forte scossa di
terremoto. Lui era sceso con Jutta scuotendo la testa e, ironizzando sulla loro
paura, cercava di tranquillizzarli, tenendo banco e distraendoli con battute
aneddoti memorie: tentava in ogni modo di convincerli che non si trattava di un
terremoto come quello di Messina, e che non c’era niente da temere. Finché,
rassicurati e stanchi per l’ora tarda, tutti si ritirarono nelle loro case.
Aveva ragione: il terremoto tacque.