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CONVERSAZIONE SU STEFANO D’ARRIGO
Nel ‘locus solus’ di uno scrittore ossessionato dalla sua fera marina


      
Un ampio, inedito e bellissimo colloquio con lo scrittore Stefano Docimo che rievoca il tempo, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’90, in cui si trovò a vivere nella medesima palazzina in cui abitava a Roma, a Monte Sacro, l’autore di “Horcynus Orca”. Ne emerge una testimonianza sagace, laterale, mai mitologica, talora struggente sul romanziere di Alì Terme, sulla sua vita appartata, quasi di recluso della letteratura, sui suoi pensieri, manie, paranoie, sul rapporto esclusivo con la moglie dominatrice. Cui si aggiunge, nel corpo dell’intervista, una magistrale analisi critica di Mario Lunetta del suo libro capitale.
      



      

 

 

di Gualberto Alvino

 

 

Mio carissimo Rino, trovo finalmente un momento di requie per scriverti dopo i giorni di rivoluzione del trasloco (che non sono affatto finiti perché, come immagini, ci vorrà ancora molto prima che elettricista, falegname, e compagnia bella non vadano e vengano da casa nostra). Qui però è bellissimo tutto, casa e luogo, con grandi alberi davanti e ai lati, e giardini e villini (ma tu conosci questa parte di Roma detta città-giardino che si biforca a Monte Sacro, su e giù lungo l’Aniene? Solo che noi siamo in alto e non abbiamo l’umidità del fiume che da qui non si vede nemmeno) […]. Hai preso bene l’indirizzo nuovo? Via dell’Assietta, 4.

(Da una lettera di D’Arrigo a Cesare Zipelli del 1° aprile 1958)

 

 

Dal ʼ77 al ʼ92 hai abitato nello stesso stabile di Stefano D’Arrigo, in via dell’Assietta 4, dove ancora oggi brilla una targa d’ottone con incisi i nomi dello scrittore siciliano e di sua moglie Jutta Bruto. So che lo frequentasti assiduamente in quel quindicennio. Cosa ricordi del primo incontro?

 

Si tratta di tornare indietro di trentasette anni, o giù di lì, e mi perdonerai se procederò in maniera disordinata e frammentaria. Fu mia moglie Ornella a invitare i D’Arrigo la prima volta. Lui si distese con tutto il corpo sul divano di velluto rosso a coste marroni e Jutta, fissandomi dritto negli occhi, volle attribuirmi un carattere melanconico (ma cercava il termine melancolia, che non le veniva in mente). Quando affermai la mia devozione alla scrittura, l’importanza che rivestiva nella mia vita, mi confidò che anche Stefano, non appena la conobbe, le aveva detto la stessa cosa. Lui era di buonumore e, sempre sdraiato, osservava divertito la scena. Poco dopo, guardandosi attorno, notò che la veranda, con le tende marroni lungo la vetrata, aveva l’aspetto di una baita: «Sembra di stare in montagna». Scendeva da molti anni al pianterreno della palazzina, dov’era l’appartamento con giardino dei miei futuri suoceri, poi abitato dalla loro figlia Ornella e da me.

 

Si era trasferito in via dell’Assietta nel ʼ58.

 

A quei tempi i colloqui avvenivano tra lui e mio suocero, anch’egli siciliano, ma della provincia di Ragusa, la provincia «babba», diceva. Era uno dei fornitori diretti, e da lui si faceva dare alcune parole o locuzioni che non ricordava, o comunque voleva verificare. A distanza di tempo fa un certo effetto ritrovare quelle espressioni nel testo darrighiano, o immaginare quali potessero essere, data la conoscenza che avevo di mio suocero. Era il periodo in cui stava scrivendo quello che poi sarebbe divenuto Horcynus Orca, con Enza, la figlia della portiera, che lo assisteva cercando di mettere ordine tra la mole sterminata di carte, in parte giacenti sul pavimento e in parte appese con mollette lungo dei fili, quasi si trattasse di biancheria stesa ad asciugare. Sosteneva anche lei, come il professor Negri, che non era ormai più possibile avere con lui una qualche forma di rapporto…

 

Antimo Negri, lo storico della filosofia salernitano, studioso di Hegel e dell’attualismo?

 

Sì. Secondo lui D’Arrigo non percepiva più nulla della realtà; la qual cosa, a me che lo frequentavo, sembrava inesatta. A riprova della sua attenzione verso il mondo esterno, Stefano mi disse di non riuscire ad ascoltare le notizie del telegiornale, tanta era la sua partecipazione. Da starne male. Mentre molti anni prima era riuscito ad estrarre — con un’operazione molto delicata, usando una pinzetta — una pallina di vetro infilatasi nel naso del fratello di Ornella, allora bambino.

Ma, a questo proposito, andrebbero menzionati anche gl’interventi scritti sui fogli dei verbali condominiali, in cui — altro che torre d’avorio — invitava i condomini alla riflessione sull’orario di riscaldamento più consono, tenendo presente l’esigenza di un più razionale consumo: «Si rifletta», così iniziava una delle sue note a margine che lessi alla luce d’una lampada, sul tavolino con sopra un telefono marrone, accanto alla porta di casa dove spesso avvenivano, quasi furtivamente (Stefano era perennemente, direi costituzionalmente circospetto) i nostri incontri. Ma anche sul pianerottolo, vicino all’ascensore, dove una volta, su suggerimento d’una vecchia conoscenza come Valentino Zeichen, che considerava comunque D’Arrigo una specie di tonno sott’olio, gli allungai qualche foglio dattiloscritto di un breve monologo da me ritenuto “difficile” per la presenza di costrutti complicati, vocaboli desueti o ricercati, insieme a un altro più lungo e disteso, che lui stesso commentò, senza esporsi troppo, com’era suo costume. Credo preferisse quello breve e difficile.

 

Eri un ragazzo aperto ed esuberante, l’opposto dei D’Arrigo: non saranno mancate burrasche, dissapori…

 

Devo dire che mostravano molta pazienza col giovane irruente che ero allora. Ricordo, ad esempio, che quando presentai loro il mio amico Marco Palladini, sempre davanti alla porta di casa, Jutta, squadrandolo, immediatamente esclamò: «Ma lui è più giovane!» (con voce bassa e roca come quella del marito), tanto da spiazzarmi e irritarmi con quell’uscita inattesa (perché darmi del vecchio? arrivai a pensare), mentre Marco li osservava cercando di tenere un certo contegno.

Per loro il mio trasferimento in via dell’Assietta, dove per tanti anni era vissuta Ornella, doveva apparire come qualcosa di predestinato, da applaudire e temere al tempo stesso. La curiosità era grande, insieme alla speranza che la mia presenza potesse in qualche modo giovare a D’Arrigo, almeno a parere di Jutta; ma anche il timore che la loro proverbiale riservatezza — data anche la mia attività culturale, comprese le serate con amici poeti, scrittori e critici, che avvenivano proprio in via dell’Assietta — potesse in qualche modo venirne violata. Non ricordo che si fossero mai spinti a varcare la soglia del giardino, forse per la presenza dei cani che infastidivano entrambi (non sopportavano sentirli abbaiare in nostra assenza, e una volta Stefano, con molta cautela, ci invitò a prendere gli opportuni provvedimenti per zittirli); ma anche con la nostra gatta il rapporto non era dei più idilliaci: una sera, dopo aver bussato alla nostra porta, si accorse che Matissa, attratta dagli odori, stava per uscire sul pianerottolo, e la ricacciò quasi a calci dentro casa.

 

Come definiresti il tuo rapporto con lui?

 

Non credo si sia mai instaurato fra noi un rapporto di identificazione reciproca, né tantomeno padre-figlio, ma qualcosa di molto simile veniva ritenuto probabile da entrambi.





Stefano D'Arrigo (ph. Maria Sanminiatelli Odescalchi)


Parlavate spesso di letteratura? Suppongo si trattasse di conversazioni molto accese, vista la sua avversione per l’avanguardia, di cui tu eri uno dei più attivi esponenti. D’Arrigo ignorava il grigio: era capace di grandi amori e ferocissimi odî: quali erano i suoi auctores e contro chi si scagliava?

 

Per quanto cercassi di spostare il discorso sul terreno che mi era più congeniale, mentre ci attardavamo lungo la scesa riottosa di via dell’Assietta (che anche allora appariva dolce e appartata) mi sentivo obiettare — sempre con la pacatezza che mostrava nei miei confronti, come a volermi evitare un qualche dispiacere per un suo giudizio troppo efferato — che l’avanguardia, a suo parere, era una cosa effimera, passeggera, e anche quando cercavo di problematizzare un tema per me ancora allo stato embrionale, mi guatava con quelle sue occhiate oblique che non lasciavano dubbi, ma al tempo stesso attento alle mie reazioni. In una specie di studiolo-tinello del suo appartamento, ricavato tra la cucina e lo studio-biblioteca, mi disse che in quel periodo a casa sua circolavano libri di Tolstoj, anche se il suo maggior punto di riferimento restava il Verga dei Malavoglia e di Mastro don Gesualdo: ne parlava con ammirata devozione, come del resto di Joyce. Accadde una sera da me, quando, spingendosi fino al mobile svedese che separava il salotto dalla veranda, si accorse della presenza di alcuni titoli joyciani, tra cui spiccava la copertina verde e nera di Finnegans Wake, edizione Faber & Faber, London, accanto a quella di Ulysses della Random House di New York. Anche quando mi parlò di Il Maestro e Margherita mi trovò del tutto impreparato, dal momento che i miei gusti letterari gravitavano altrove. Il romanzo di Michail Bulgakov nell’edizione einaudiana del 1967 veniva salutato come il più clamoroso caso letterario di quegli anni. Non so se D’Arrigo si fosse identificato con quel libro, anche per via della sua sorte editoriale, fatto sta che me ne parlò in modo quasi ispirato, sempre in quel suo studiolo, dove avevo l’impressione di sentire il suo fiato. Una sera, accortosi della collezione di «Carte Segrete», la storica rivista diretta da Domenico Javarone, troneggiante su uno scaffale della libreria, mi chiese di prestargli il numero di ottobre-dicembre 1972, (vi, 20), dove tra l’altro, in copertina si leggeva «Bulgakov, uno dei due geni ogni mille».

Era invece inorridito da Pasolini, benché lo avesse fortemente voluto per una parte in un film da lui diretto.

 

Nel 1961 D’Arrigo accettò d’interpretare il ruolo del giudice istruttore in Accattone, ma non amava Pasolini. Il 23 luglio 1957 aveva scritto a Zipelli: «è per me sottile motivo di piacere che alcuni mi citino in funzione antipasoliniana»; e l’8 novembre dell’anno dopo: «Tutti i giorni spero di trovare la chiave, la soluzione dell’enigma (perché tale per me è, un quesito della Sfinge: e sono inguaribile, gli esempi dei Pasolini che vanno facili al successo come le divette che partono puntando sul pane e sul resto, non riescono a sciogliermi dai miei dubbi, dalle mie preoccupazioni, ecc.)». Walter Pedullà: «D’Arrigo si irritò molto quando vide il glossario che Vittorini aveva aggiunto ai due episodi del “Menabò”. Scrisse circa cinquanta telegrammi di protesta, anche se ne spedì uno solo. Il ‘maestro’ aveva fatto un errore di grammatica: non aveva capito che I fatti della fera non era come Una vita violenta. Pier Paolo Pasolini non era un buon modello di narratore: non era da imitare, secondo D’Arrigo. Il quale non tollerava d’essere considerato uno scrittore dialettale. Come il lombardo Gadda, il siciliano voleva scrivere in italiano» (Introduzione a S. D’Arrigo, I fatti della fera, a cura di Andrea Cedola e Siriana Sgavicchia, Milano, Rizzoli, 2000, p. xxiii).

 

Si diceva disgustato dallo scrittore friulano, e il suo giudizio morale, ancor prima che estetico, era di una brutalità sconcertante: ci raccontò episodi raccapriccianti a cui aveva assistito durante la lavorazione del film, come lo schieramento delle comparse nude al fine di eccitarsi.

Parlava quasi scandalizzato del successo della Morante, e anche di Sciascia, che come scrittore non godeva della sua stima. Del resto, in un’intervista, dichiarò senza mezzi termini di essere la letteratura.

 

Avesti modo d’interrogarlo sulla lingua orcinusa?

 

Non parlammo quasi mai di questioni formali. Mi disse che andava molto fiero del fatto di non aver mai usato una parentesi in tutto Horcynus Orca, marcando una caratteristica a suo giudizio fondante della propria scrittura, che sembrava esser passata del tutto inosservata; un dettaglio cui teneva al punto di comunicarlo a Pedullà, suo grandissimo amico, che si stava occupando della sua opera.

 

Non ha mai smesso di occuparsene: da qualche anno cura l’omnia darrighiana per Rizzoli. Una lunga fedeltà.

 

Un’altra volta, scendendo con me in ascensore dal terzo piano, dov’era il suo appartamento, mi scrutò di traverso, per via della cervicale che lo martoriava, e mormorò: «Guarda che da uno come Hemingway non si ricava nulla», cercando di mettere in crisi l’interesse che in quel periodo nutrivo per quel grande scrittore.

Spesso ci guardavamo tristemente, come due randagi che non avrebbero mai potuto camminare insieme. Questo almeno il mio sentimento d’allora.

 

Com’era il suo rapporto con Jutta? Si sa che era una donna molto energica e — posso dirlo con cognizione di causa per averla conosciuta quando lavoravo alle lettere di D’Arrigo a Zipelli — estremamente possessiva e autoritaria. Ritieni giustificata la dedica di Horcynus Orca («A Jutta, che meriterebbe di figurare in copertina col suo Stefano»)? Quale fu il suo ruolo durante la composizione dell’opera?

 

Credo che tutto quanto è stato tramandato del rapporto con Jutta, incluso l’invalicabile muro eretto con successo da lei sulla reale natura del male oscuro che la stesura del romanzo era costata a D’Arrigo, come si evince da una lettera del 1964 all’amico Zipelli, sia del tutto veritiero: «Sto male da parecchio tempo, sapendo che se interrompevo non ce l’avrei più fatta a riprendere le fila del libro. Quello che ho, i disturbi di cui soffro, che solo io vedo, non l’ho detto nemmeno a Jutta, perché significherebbe smetterla con il libro». Ma fu in occasione del ricovero per depressione in una casa di cura di Arcinazzo Romano che il loro rapporto rischiò la rottura, con Jutta che arrivò a minacciarlo: «O finisci il libro o ci lasciamo». Penso si riferisse a quel periodo il racconto che mi fece tempo dopo mio suocero, su una tresca tra Jutta, allora dirigente Inps, e un suo collega più giovane che lei si portava a casa. Anche nell’intervista a tutto tondo rilasciata a Stefano Lanuzza in calce a quel libro pionieristico su Horcynus Orca (Scill’e Cariddi. Luoghi di «Horcynus Orca», Acireale, Lunarionuovo, 1985) dichiarò: «Rispondo, ora, che il romanzo del mio romanzo potrebbe, meglio di me, scriverlo mia moglie Jutta, la più continua testimone, che racconterebbe la storia di tutto ciò che mi è stato contro per impedirmi di scrivere, di accrescere un godimento che stava per costarmi la vita, fino a quando, l’otto settembre millenovecentosettantaquattro, non ho definitivamente alzato la penna dal libro» (p. 139).

Posso dire senza tema di smentita che della moglie aveva un timore reverenziale, se non paura; anche se, naturalmente, più sentimenti s’intrecciavano.

Un giorno, mentre uscivamo di casa, Jutta volle mettere in guardia Ornella: entrambe non avevano avuto figli e tendevano a far da madri ai loro rispettivi mariti.

Ma vorrei ricordare un aneddoto ancor più significativo. Stefano mi dette il suo numero di telefono; poco dopo bussò alla porta in preda al panico scongiurandomi di buttarlo cancellarlo bruciarlo, ché altrimenti Jutta si sarebbe infuriata, dal momento che non l’aveva dato mai a nessuno, neanche ai parenti.





Stefano Docimo


Si dice fossero entrambi molto diffidenti nei confronti di chiunque, perfino dei più intimi amici, come se dovessero costantemente proteggersi da chissà quali minacce e pericoli.

 

Ti basti pensare che in tanti anni non ho mai visto la loro casa se non di sfuggita. Una sera, rientrando dopo aver attraversato il cortiletto esterno con la vasca dei pesci, lungo il corridoio che portava all’ascensore gli dissi di avere due figli piccoli, nati da una precedente unione, che dormivano in salotto durante il week end. Mi osservò bene in faccia: sospettava che gli avessi mentito. Era visibilmente scosso, tanto che mi dispiacque di averglielo detto, e volle vedere i bambini. Aprii l’uscio e li intravide, senza però entrare, per non disturbarli; poi tornò a testa bassa verso l’ascensore.

Tempo dopo mi sussurrò in un orecchio, come in confessionale: «Non fare a Ornella ciò che io ho fatto a Jutta»: si riferiva, con rammarico, ai sacrifici chiesti a sua moglie per tutto il lungo periodo di gestazione di Horcynus: vent’anni. Era molto legato a Ornella, come si evince dalla dedica apposta sulla quarta di copertina nell’edizione mondadoriana, con biro blu scuro: un breve scritto ben impaginato, che tradisce una qualche emozione:

 

a Ornella C.,

fa dedica, sinceramente

commosso, il suo vecchio

amico Stefano D’Arrigo

che potrebbe dire

(anche per lei) che ha

quasi la stessa età

di questo libro cresciuto

come lei in Via dell’Assietta quattro.

 

Ma non bisogna immaginare che fosse perennemente torvo e cupo: anche se immerso nel suo lavoro, a volte, quand’era in vena di battute, non lesinava il loro apporto; come la mattina in cui, mentre lo accompagnavamo nella nostra Dyane 6 carta da zucchero, con Jutta sempre vigile, per giustificare il suo doppio nome disse sornione che mentre Stefano lo spendeva all’esterno, Fortunato se lo teneva stretto in tasca. O quando ci raccontò che la mattina, davanti a Jutta, bastava pronunciare una parola, o una semplice asserzione come «Piove», per scatenare tutta la sua ira. A far ridere era l’inespressività del volto, unita a quel tono di voce grave, con cui raccontava queste storielle quotidiane.

Commentando un acquarello di Ornella intitolato Ponte Milvio e utilizzato come riquadro di copertina nel mio libro Ponti d’oro, osservò ironicamente che, più che un fiume, quello rappresentato sembrava un oceano; mentre alcune altre opere di Ornella gli ricordavano Chagall. Era un fine intenditore di pittura.

 

Finissimo: non tutti sanno che cominciò come mercante e critico d’arte. Ma com’era nel quotidiano? Infatuazioni, scatti d’ira, vizi, virtù… Quali dèmoni lo tormentavano?

 

Solo una volta, per la verità, mi ricordo di averlo sentito alzare la voce ed esclamare al telefono: «Ma chi è quel pinocchietto!», dopo che qualcuno, dall’altra parte del filo, gli aveva riportato un giudizio affrettato su di lui; ma non ricordo chi fosse il pinocchietto. Ogni volta che capitava d’incontrarci, cosa che avveniva abbastanza spesso, diceva che sarebbe passato a prendere un whisky con Jutta nel pomeriggio, invece non si faceva vivo. Una mattina promise che sarebbe sceso a trovarci, ma poi bussò alla porta in stato d’agitazione: tirò fuori dal loden delle medicine e disse che si era sentito male, perdeva sangue dal naso e doveva andare dal medico. Soffriva di forti emicranie, che cercò di curare ricorrendo in ultimo all’agopuntura, data l’inefficacia dei farmaci.

Un giorno d’estate lo trovai trafelato, con un fazzoletto rosso al collo e i quotidiani aperti sul pavimento dell’ingresso. Cercava con foga qualcosa che lo riguardava, i piedi nudi e ben arpionati al pavimento. Non mi disse cosa, ma era evidente si trattasse di articoli su di lui. Era molto sensibile alla critica: ricordo che mi chiese in prestito una radiolina rossa, bassa e lunga, a batteria, per ascoltare qualcosa che lo riguardava.

Mi confessò di nascondere le bottiglie di whisky negli abat-jour per sottrarle alla vista di Jutta. Credo bevesse molto. Lo incontravamo spesso a piazzale Jonio, dove si trovava un ingrosso di superalcolici. Ricordo che si lamentò del fatto che il compenso di 100.000 lire, offertogli per la collaborazione a un giornale, gli sarebbe appena bastato per il consumo mensile di whisky.

 

Avesti mai l’impressione che continuasse a nuotare immedicabilmente nella placenta di Horcynus anche dopo la pubblicazione del romanzo?

 

Riteneva che Horcynus viaggiasse ormai da tempo «per conto suo»; il problema era poter scrivere qualcosa dopo, qualcosa che si trovasse «a mille miglia di distanza dal suo capolavoro, di molto semplice e di molto breve». Non capivo allora perché avesse questo problema, e quando lessi Cima delle nobildonne mi parve d’intuire che il nuovo romanzo avesse in qualche modo a che fare con Jutta, come in seguito lui stesso ci confidò. Era lei ad averlo voluto, insieme a Leonardo Mondadori, se non ricordo male. Nel 1982 D’Arrigo rompe il suo proverbiale silenzio per rilasciare qualche fugace dichiarazione: «Ma cosa scrivere dopo l’Horcynus? Questo è stato, per anni, il mio angoscioso interrogativo, finché tre o quattro anni fa, non ho maturato in mente il progetto del libro che, su un altro versante, ha come suo primo privilegio quello di onorare l’Horcynus […]. Sì, l’Horcynus si è oramai staccato da me e il nuovo libro riguarda l’unità che sta dietro la porta del ricercatore. È il rapporto, rivolto al futuro, tra l’uomo e la scienza […]. Dal punto di vista linguistico […] non mi troverò per nulla nei paraggi dell’Horcynus. Userò, anzi sto usando, l’italiano ma il mio italiano» («Il Messaggero», 3 settembre 1982).





Il giorno dopo disse a un altro intervistatore: «Ho avuto anni angosciosi e tormentosi. Il mio dramma era di trovare qualcosa che fosse degno, competitivo, come si dice oggi, dell’Horcynus. Sennò veramente ci sarebbe voluto il colpo di pistola dove dico io. Adesso sono abbastanza contento: mi sento al polo nord dell’Horcynus […]. Lavoravo un tempo a tentativi che sapevo abortiti. Rimessomi finalmente in salute il problema era, scusa, di mettere il culo su un altro lavoro. Dopo tutto questo travaglio credo, anche se posso sbagliare, di aver trovato quello che andava trovato: un dopo Horcynus insomma […]. Non voglio, non posso dire di più. Il polo nord significa distanza e superamento […]. Lo spunto l’ho trovato in Roland Barthes, uno scrittore che tuttavia non mi è simpatico. Dice Barthes: “Il romanzo è sempre in ogni pagina in stato di profezia”. Così è in questo libro: così è avvenuto lavorando all’idea del romanzo, alla struttura, perché si tratta del romanzo meno romanzo che si potesse scrivere, e nello stesso tempo del romanzo più romanzo. C’è pure della fantascienza in questo libro! Sono come uno che sta davanti ad un laboratorio di ricerca» («Il resto del Carlino», 4 settembre 1982).

 

In quell’espressione, «mettere il culo sul lavoro», si ritrova tutto D’Arrigo, che infatti mi ripeteva: «Quando ti metti a lavorare non levi più il culo dalla sedia». Poi, pensando che l’avessi preso troppo alla lettera, si correggeva con frasi del tipo: «Be’, cerca di capire», magari sulla soglia dell’ascensore, dove avvenivano molte delle nostre chiacchierate. Ma in quell’angolo in penombra si poteva assistere anche a spassosi diverbi, come quello con un’inquilina che lo mandò platealmente a quel paese (aggiungendo alle parole un gesto eloquente) perché non le aveva dato la precedenza in ascensore (secondo me a ragione). Quella volta non c’era Jutta a difenderlo.

 

D’Arrigo resta un auctor unius libri: la sua seconda prova narrativa fu così deludente da parer stesa da altra mano. Come considerava davvero Cima delle nobildonne?

 

Fu un tributo a Jutta, per gli anni di sacrificio cui l’aveva sottoposta. Dal silenzio degli ultimi dieci anni credo che, benché avesse considerato l’operazione tanto dovuta quanto commerciale, non ne fosse granché soddisfatto, e in una fase di profonda amarezza mi confessò che scrivere, in fondo, non gli era servito a niente. Comunque sia, avevo letto il libro con interesse, come risulta da un breve saggio del 24 dicembre 1985, apparso sulla terza pagina dell’«Umanità».

 

Lo ricordo benissimo: La tormentata ricerca estetica e linguistica di Stefano D’Arrigo: «D’Arrigo è lo scrittore isolato, l’amico che si ama per la sua estraneità dal mondo, ma al tempo stesso tanto partecipe da ammalarsene […]. In una parola è l’amico del profondo, colui che non disdegna di accoglierti nel più caloroso dei disagi mediterranei, con una scontrosità amabile quanto la sua parsimonia di parole. È strano come lo scrittore di Horcynus Orca, il padre di questa nostra tormentata lingua contemporanea, l’esuberante neologista e moltiplicatore di frase, sia tanto avaro di parole, in privato […]. A ripercorrere il testo [Cima delle nobildonne], così come ci si presenta, vale a dire senza schemi critici preconfezionati […] si avverte subito la strana confluenza o mistura linguistica operata a livello alto fra il classico descrittivo e il veleno barocco del comico, sapientemente contenuti ai limiti d’una perfidia che declassa, mentre lo codifica a livelli alti […] in una dialettica nascosta, tra monstrum narrativo e lettura sempre critica del testo, in realtà solo apparentemente classico. Il fatto è che ci si trova davanti ad un’opera onestamente e faticosamente sperimentale, pur nel suo nicchiare, quasi a far finta di nulla, con le strutture ordinate della narrazione. D’Arrigo raggiunge la sua piena grandezza nell’offrirci un capolavoro con l’aria dell’esordio, ai limiti della deistituzionalizzazione. Gioca con le macrostrutture narrative per dirci poi che ciò che conta è la sapienza artigianale, quasi ossessiva. In questo suo mondo straniato o si entra e se ne resta abbagliati, o si rimane per sempre sulla soglia, senza capirlo».

 

A volte pensavamo, insieme a qualche amico, che il suo caso fosse stato una montatura editoriale, come si andava vociferando e scrivendo, e quando uscì Cima delle nobildonne in molti restammo sconcertati, anche se a qualche critico era piaciuto, come mi venne detto proprio da uno di loro, Raffaele Manica, durante una delle nostre serate in via dell’Assietta, con Giovanni Fontana e altri amici poeti. Il fatto è che a leggerlo credo fossero stati veramente in pochi.

 

Questo non significa molto: in letteratura qualità e successo sono quasi sempre antipodi. Piuttosto, che tu sappia, quella che lui chiamava «la mia pazzia» («Ti prego di salutare affettuosamente per me tua moglie e cerca di scusarmi presso di lei. Spero sappia anche lei della mia pazzia o quasi», lettera s.d. a Zipelli, ma 1946) era depressione o cos’altro?

 

Credo si riferisse a quello che Jutta chiamava «il piccolo male», una forma di epilessia che gli provocava, tra l’altro, improvvise perdite di coscienza: era terrorizzata dal fatto che potesse avere una crisi durante le ore in cui era lontana per motivi di lavoro, e mi fece capire che sarebbe stata più tranquilla se io, qualche volta, avessi potuto salire da lui, per controllare che tutto fosse a posto. Lui tendeva a sminuire la cosa, scuotendo la testa in segno di diniego, quasiché attribuisse un diverso significato alle paure della moglie.

 

Come scrittore puoi dire di aver imparato qualcosa da lui? Era inevitabile che un giovane come te cercasse d’instaurare con lo scrittore più anziano e famoso una qualche forma di dialogo. Ovviamente non in una dimensione anodina di apprendistato.

 

Non saprei. Certo, un’opera come Horcynus non poteva non agire in profondità, in modo anche indiretto, come ad esempio nel mio poemetto Natanti: «Allumava dalla spiaggia al rimorchio / dove la morse in ambedue le cosce / irrefrenabile continuo implacabile / dalla carena al porto per l’inconscio mondo / dove la piva sciarrava impazzita da raptus / fra altalenanti rovine di morra e rughio / nell’andirivieni sagomato d’una rotta / ben salda nella sua promessa sconclusione / di natante ignavo per troppo rugumare»; ma ci sono anche riferimenti più diretti a D’Arrigo e alla palazzina dove abitavamo: «la palazzina letterata del demone gambamarza / sconvogliatore di panorama all’andazzo del nuraghe».

La verità è che rifiutavo quel modulo narrativo ad ampissimo respiro entro cui, al contrario, si moltiplicavano le innovazioni linguistiche, la commistione dei dialetti e tutto ciò che rendeva indigesta quell’opera, non solo al grande pubblico, ma anche a quella élite di lettori che di fatto continuava a ignorarla. Una letteratura ancora poggiante su una narrazione di tipo ottocentesco, dunque da rimuovere: così mi pareva a quel tempo Horcynus, che una critica forse troppo frettolosa aveva paragonato al capolavoro joyciano, benché non vi fosse l’ironia, il gusto dello spiazzamento e la summa della cultura europea, dalle origini ad oggi.

 

Dunque, non hai amato Horcynus?

 

No, quell’operazione non mi coinvolse più di tanto: qualcosa mi respingeva, a causa del suo linguaggio, che percepivo come insistentemente monodico e ripetitivo. Avrei preferito un D’Arrigo scrittore di nicchia: avrei voluto vederlo pubblicato da una casa editrice di qualità, o al limite da Einaudi, con un romanzo sfrondato di un cospicuo numero di pagine. Questa era la mia opinione in quegli anni, giusta o sbagliata che fosse. Una sera, in una di quelle riunioni, discussi la cosa con Mario Lunetta, sottoponendogli la lettura di un mio pezzo su D’Arrigo. Alla fine d’un’attentissima lettura, lui esclamò che certo, comunque, si trattava d’uno scrittore. Lì per lì non capii: chi metteva in dubbio il fatto che D’Arrigo fosse uno scrittore? Poi mi spiegò d’aver scritto, subito dopo la pubblicazione di Horcynus, una recensione che sarebbe dovuta uscire su «Rinascita» e che rimase inedita. S’intitolava Horcynus Orca: la bussola cieca della mitologia, e rende benissimo l’atteggiamento che molti di noi avevano nei confronti di quell’opera smisurata:





“ 1. Ogni impresa che onestamente sia costata umana fatica è degna di forte considerazione, tanto più se chi vi si è dedicato ne ha fatto la sua centrale e definitiva ragione di vita: pur con tutti i rischi, beninteso, dell’ossessività, della monomania, del fanatismo circolare che può rivelarsi per l’autore, di volta in volta, sogno liberatorio o incubo spiralico. Ma in fondo, poi, non ci sono mille e mille modi di mordersi indefinitamente la coda anche in letteratura, magari nella convinzione di aprirsi al mondo come nessun altro, in forza della propria immane colluttazione linguistica, vissuta insieme come scommessa mortale e vittoria sull’effimero?

Nessuno, quindi, negherà rispetto a chi, come Stefano D’Arrigo, si può ben dire abbia identificato le ragioni della propria esistenza, in toto, con le ragioni dell’esistenza di quell’opera smisurata che si pasce di sé per 1257 fittissime pagine, si nomina, con secca e catastrofica allitterazione, Horcynus Orca (Mondadori), e pare, dopo l’ultima parola, tutt’altro che sazia di divorare continenti verbali, pianeti di immagini, galassie di suoni, di figure retoriche, di allegorie. Ci si trova, insomma, di fronte a una congestione prolungata all’infinito senza che la sincope mortale vi ponga, letterariamente parlando, l’estremo rimedio. In questo senso, davvero un’opera aperta impossibilitata a chiudersi non per via di ratio teorica ma per inesauribile ingordigia, perché, anche al suo termine grafico, ancora alla ricerca di un significato centrale che sia la sintesi degli altri innumerevoli inseguiti e agganciati (ma anche perduti in uno scialo irrefrenabile) durante il terrificante raid terracqueo compiuto dallo scrittore, e possa perentoriamente suggellare l’opera.

Che era già leggendaria, caso più che raro in Italia, molto prima della sua pubblicazione. Il mito di un libro che salvo pochissimi intimi nessuno conosceva se non nel suo primissimo nòcciolo, quando apparve (1960) nel n. 3 del «Menabò» di Vittorini col titolo I giorni della fera, cresceva col passare degli anni, col silenzio pubblico di quest’autore come «morto al mondo», il quale sembrava sempre più dividere, anche biologicamente, il destino del suo onnivoro testo; infine, meno “naturalmente”, con le periodiche e sapienti sortite dell’industria culturale la cui pubblicità annunciava di tempo in tempo l’imminente uscita dell’opera, senza che l’evento poi si verificasse. Non certo per colpa dell’autore, dolorosamente intrigato dalla sua disumana lotta con le parole che più ne uccideva più continuavano a figliare, incontenibilmente, e dell’Assenza pareva avesse fatto la sua ferrea divisa: e che, si andava dicendo e scrivendo, era incapace di staccarsi dalla sua mostruosa creatura, al punto che soltanto una crudele decisione editoriale, un diktat imperioso, avrebbe potuto produrre il miracolo di privarlo del suo manoscritto per darlo finalmente alle stampe. Un caso clinico, al dilà del caso creativo. Una sorta di simbiosi di identificazione, per dirla alla svelta con una formula psicoanalitica: quasi che l’Orca si fosse trasformata in D’Arrigo fino a condividerne l’esistenza fisica in un vicendevole, forsennato appartenersi.

Una gestazione terribile, quella del romanzo, felicemente conclusasi nel gennaio di quest’anno. Ora il libro è lì, coi suoi (suppongo) pochi lettori e le sue molte vendite, mentre s’è già spento il clamore martellante di un battage che per un paio di mesi ha inondato le pagine di giornali europei e americani. È quindi possibile che adesso si possa provare a parlarne con più relativa calma e più distaccata serenità.

 

2. Dunque, com’è nella maggiore tradizione del romanzo occidentale, anche Horcynus Orca cresce attorno all’idea-archetipo del Viaggio. Due spettri giganteschi, quello del massimo antenato arcaico e quello del massimo antenato moderno, insomma i due Ulisse greco e irlandese, tra i quali si accampa la presenza egemonica del bianco cetaceo di Melville, paiono continuamente evocati dal controllatissimo paroliberismo della sterminata nenia di D’Arrigo: ma in realtà si tratta di non più che un miraggio, dal momento che l’operazione dello scrittore messinese si dispone su una linea “dialettale” e “provinciale” in tutti i sensi inconiugabile con quei tirannici esempi, malgrado la “facilità” di certi tòpoi: il nòstos, l’azione racchiusa in pochi giorni, la costante ossessione del mare e dell’Orca mostruosa, epifania in qualche modo divina.

Probabilmente, ciò che interpone tanta distanza e tanta diversità fra il romanzo darrighiano e certi schiaccianti precedenti è il fatto che in questo libro è esilissimo il mood dell’allegria antagonistica che anima l’uomo nei confronti del mondo e del suo tragico modificarsi, è invece preponderante il sentimento della morte come Assoluto, che finisce per vanificare e comunque ridurre a evanescenza i tentativi di rendere dialettico l’immenso racconto, pur nel proliferare (si direbbe quasi sconsiderato) degli episodi, delle figure, delle storie interne alla storia.

Lo afferma il suo autore: Horcynus Orca è «il racconto di un ritorno»; e la definizione ha un’aria di beffa carica di finta modestia. In realtà, il libro è sì il racconto di un ritorno, ma del ritorno maniacale del linguaggio su sé stesso, sui luoghi dai quali è partito, a caccia di un Segno Definitivo che abbia la forza di farlo finalmente fermare. Perché anche il protagonista umano del romanzo, ʼNdrja Cambria, «nocchiero semplice della fu Regia Marina» che ai primi di ottobre 1943 discende la costa tirrenica della Calabria fino allo Stretto, per tentare di approdare all’opposta sponda e toccare il suo paese di pescatori, non gode di una sua vera autonomia, pressato com’è, e come tutti i personaggi del libro vessato, dal vero dèspota che è il linguaggio. Non che lo Stretto, troppi oceani di parola dovrebbe attraversare anche lui per giungere alla liberazione e uscire dai gorghi verbali nei quali in realtà è imprigionato. È qui, in quest’impossibile riscatto, la sua vera Cariddi.

Che nel romanzo, invece, lo affascina con tutti i più angosciosi e gioiosi filtri della nostalgia, dalla sponda siciliana piena di profumi, di sapori, di strazianti ricordi. Come vuole la Tradizione Occidentale, come vogliono il romanzo ellenistico, e quello tardo-romano, e quello picaresco (e quale altro ancora?), ʼNdrja s’imbatte in esseri umani e in esseri animali, nelle selvagge «femminote», specie di piratesse dello Stretto audaci e sensuali, generose e violente; e nelle «fere», delfini dalla doppia anima, soccorrevole e trucida, quasi soprannaturali creature notturne giocose e perfide: e conosce individui e paesi, passa attraverso le rovine della guerra, la distruzione, il massacro, la desolazione sempre ritmati nel racconto dalla corda oscillante senza tregua del realistico e del simbolico, del cronistico e dell’allegorico di natura scolastica; si reinserisce nella comunità da cui fu brutalmente strappato, prende parte attiva all’arenamento di un’orca terrificante (l’«assassino dei mari», come la definiscono certi pittoreschi manuali marinareschi), e trova una morte repentina e casuale su cui il libro si chiude: «’Ndrja fece per alzare gli occhi alla immensa, allarmante fiancata della portaerei, e fu come se porgesse volontariamente la fronte alla pallottola, che gli scoppiò in mezzo agli occhi con una vampata che lo gettò per sempre nelle tenebre».

Il sacrificio è «volontariamente» consumato. ʼNdrja è la vittima bella, purissima e giovane di una curiosa religione laico-paganeggiante, la cui sola modernità è data dalla Morte Insensata. E si rivela, allora, come l’Eroe Predestinato di una vicenda stracolma di personaggi eroici, tutti più alti di una spanna rispetto al personaggio-uomo dai tratti dimessi, slabbrati e disperatamente quotidiani del romanzo contemporaneo più consapevole.

Ecco dove l’impresa di D’Arrigo mostra, con tutto lo sperpero di immaginazione lirica (e muscolare) che accumula e disperde, la sua vera debolezza. Nella disposizione che lo scrittore, e perciò la scrittura, assumono nei confronti del mondo: che è una disposizione mitologica nella quale, fatalmente, anche il dato storico, l’elemento sociale e la cronaca politica vengono enfatizzati e dilatati in funzione delle necessità favolose e “ingenue” dentro le quali l’intero romanzo agisce. I poveri, gli sfruttati, i vinti di D’Arrigo vestono sempre una loro regale grandezza, si muovono in una loro statuaria eleganza: e parlano, parlano a non finire, si saziano delle loro parole, le infilano senza posa come perle, se ne coprono come di trine luminose. Anche qui riposa la mistificazione involontaria dello scrittore, che, al dilà dei termini prettamente ideologici, si dipana in termini prettamente stilistici nell’incapacità di stringere energicamente alla gola le situazioni per staccarle dal magma e renderle autonome nel loro significato drammatico, pur nella carenza di ironia che caratterizza l’intero epos narrativo del romanzo. La mancata drammaturgia si risolve così in teatralità diluita, in cui tutto lo spazio è occupato da personaggi che appaiono afflitti da un’inguaribile, forsennata logorrea: proprio, si direbbe con un’analogia quasi ovvia, come avviene nel teatro dei pupi, che lo scrittore siciliano custodisce certamente nel piccolo pantheon dei suoi lari domestici: con la differenza che in quel tipo di teatro la discorsività esagerata e i recitativi senza fine sono la struttura stessa dell’azione, non rispondono certamente a velleità aggiuntive, a princìpi di corollario esornativo, come troppo spesso accade nei duetti o nei cori di Horcynus Orca.

Una strana, particolarissima puperìa, s’intende. Perché in questo ribollente vulcano allestito dal romanziere con implacabile furia demiurgica, e a cui paiono concorrere le potenze alleate del cielo del mare della terra della leggenda e del destino, circola a lungo andare, proprio in forza di una ripetitività stilistica e di tono da cui egli sembra incapace di svincolarsi, una sorta di musica di andamento rococò, tale da ricordare le colorite eleganze arcadiche di un Meli rivisitato in tono sanguigno e visionario da un finto naif novecentesco. Il vezzo di cincischiare senza misura su invenzioni che in partenza hanno una loro magica forza epica, o una loro magica delicatezza, sottrae a tanta parte del libro l’effetto fulmineo della sorpresa. Lo straniamento, intuìto da D’Arrigo in certi momenti di poderosa efficacia, non è perseguito da lui come fondamentale strategia narrativa, tanto da cedere quasi sistematicamente a qualcosa che potremmo definire principio di accrescimento dell’identico. Nel suo immane poema in prosa il romanziere messinese mostra davvero di non avere assimilato in modi modernamente critici la grande lezione dei suoi padri, tra i quali volentieri includerei a contrario l’Ariosto. Le fratture in cui il cantore di Orlando è maestro, i bruschi mutamenti di piano e di ritmo, il senso “cinematografico” della dialettica delle cadenze pur all’interno di un tessuto in apparenza uniforme, insomma la sensibilità della “prosa” dentro la poesia, gli sono estranei: con la conseguenza che il suo romanzo appare tutto “musicato”, secondo la misura di un cursus costante, alla lunga tedioso come la trenodìa di un cantastorie riproposta da un trascrittore colto.

L’equivoco di D’Arrigo è anche qui. Egli regredisce al linguaggio favoloso e “popolare”, ma lo usa da letterato che appartiene irrimediabilmente a un’altra cultura, giocandoci su anche quando lo attribuisca (con un’operazione artificiosa e “poetizzante”) ai suoi personaggi “semplici”. Ecco perché paradossalmente sono portato a credere che Horcynus Orca potrebbe essere tranquillamente voltato in versi senza che troppo cambi. Sottraendosi alla responsabilità di decidersi a optare tra mito e racconto, tra canto e narrazione, D’Arrigo ha realizzato un prodotto iper-ibrido che non possiede la distanza ironico-critica propria del grande manierismo, né l’ingenuità robusta di quella che chiamiamo (per pura comodità) arte naive. Il linguaggio impiegato dallo scrittore soffre questo cumulo di contraddizioni: proprio perché al linguaggio egli si è affidato perdutamente, in una gara titanica quanto, alla fine, stucchevole: e ci si passi l’iperbole, “provinciale”.





Bruno Caruso, Stefano D'Arrigo e i fantasmi del mare, 1998


Nessuna mimesi dialettale, in questo sbalorditivo romanzo: semmai l’ambizione di fruire delle varie parlate dello Stretto inserendole in una sintassi che è tutta inventata, e risponde, come poco sopra dicevo, a un’esigenza melodica, di armonia lirica, perfino (incredibilmente!) di bella scrittura. Il gioco paziente e cocciuto della fantasia verbale darrighiana sfrutta soprattutto i radicali vernacoli, fino a far esplodere inusitate sincronie metalinguistiche, a produrre allitterazioni ingegnose, assonanze, consonanze, legamenti inusitati di parole. I risultati non sono sempre felici, e spesso si risolvono in una sequela di esercitazioni al confine della frivolezza. Ed ecco infatti tornare senza tregua nel libro la manìa dei diminutivi (muccuselli, sbarbatelli, bastardello, bottonelli), l’ossessione delle saldature non indispensabili (pietrebambine, cameraperdormire, ventottodicembre); e poi ancora l’orgia dei neologismi troppo facili intinti nel sugo dialettale, come purparlé, sanguoso, maniamento, alliamento, spensieramento, strabiliamento, fantasiato, porcherioso etc. etc., come in una giostra che riconduca puntualmente, a ogni giro, i suoi cavallucci e le sue automobiline davanti agli occhi perplessi di chi guarda.

 

3. Soverchiato dall’accumulo ciclico di questi spropositati materiali, Horcynus Orca conserva il suo cuore profondo in certe straordinarie intuizioni il cui splendore viene tuttavia offuscato dall’irrefrenabile alluvione delle metafore che fanno affollatissima postillazione: e sono amori selvaggi e repentini, vendette spietate, fatiche violente e malripagate di pescatori (i pellisquadre); finalmente l’apparizione apocalittica dell’Orca, che porta in sé la malattia e l’esizio nello squarcio immenso che le strazia il fianco, e la cui unica funzione è di diffondere appestamento e lutto, solcare il mare per portare distruzione ed òbito, vivere nelle grandi acque mediterranee per dare la morte: essere infine l’incarnazione stessa della Morte.

Far morire la Morte è certo un’energica invenzione: e ciò s’impegna a fare lo scrittore per mezzo delle fere che spolpano e ridicolizzano il mostro. Ma ancora una volta, il senso di tutto ciò gronda di mitologia, il simbolo ha bisogno in pagine e pagine di caricarsi di zavorre allegoriche, di superflui accessori eloquenti: e il narratore epografo è costretto a affidarsi, pagando in efficacia un prezzo altissimo, al descrittivismo esasperato che, per quanto prestigioso, sappiamo bene come risulti inesorabilmente una coperta troppo corta, anche se sontuosa.

 

4. La mia severità di lettura, sia chiaro, tiene in gran conto le grandi ambizioni di un testo per tanti versi eccezionale; ed è comunque impari, sia chiaro altrettanto, al clamore della grottesca innografia che da troppe parti, da destra e da sinistra, da chi fa in piena legittimità il proprio mestiere di imbonitore a chi con legittimità almeno istituzionalmente più attenta fa il proprio mestiere di critico, si è levata in questi mesi attorno a un’impresa che è costata, in piena onestà e dispendio di risorse fantastiche, tanta umana fatica. Non me ne voglia Stefano D’Arrigo, a cui va il mio incondizionato rispetto. ”

 

La verità, come banalmente era accaduto per altri detrattori, è che io di quell’opera immensa avevo letto solo qualche stralcio, distrattamente e annoiandomene dopo poco, nonostante il suo autore abitasse qualche metro sopra di me e mi onorasse della sua amicizia.

 

Così D’Arrigo a p. 136 del libro di Lanuzza: «… che il mio libro sia stato rimosso da qualcuno con una frase d’insofferenza, un esorcismo arrogante, una battuta superficiale. Non sarei sincero se dicessi che tutto ciò mi ha deluso perché non sarebbe lecito affermare che certe fiere del vaniloquio abbiano davvero espresso un qualsiasi rapporto col romanzo, cui non credo possa accadere più qualcosa di male». Il tuo giudizio è mutato nel tempo?

 

Sostanzialmente no. Però non mancarono gli apprezzamenti ‒ gliene feci parecchi ‒ verso alcune prese di posizione polemiche dell’autore di Horcynus Orca, o D’Arrigus Orca, come qualcuno all’epoca lo aveva apostrofato, cosa che a lui era comunque piaciuta.

 

Quindi, apprezzavi più l’uomo che lo scrittore?

 

Amavo il suo essere appartato, indipendente, mai compromesso con la società letteraria; ad esempio il fatto che avesse «dato buca» a una diretta tv condotta da Enzo Siciliano e che volesse assistere, dal suo piccolo schermo in bianco e nero, alla replica di un film di Chiaretta Gelli, Il birichino di papà, appena venuto a sapere che la cantante protagonista era mia madre.

Detto ciò, un’influenza seppur implicita credo ci fosse stata: D’Arrigo stesso l’aveva riconosciuta quando gli feci leggere La città di Liebeshandel o alcuni frammenti di Tratto di scena (flugfly). Tra le poesie, mi disse che gli piacevano le più lunghe, i cosiddetti poemetti: fu l’unica volta che lo sentii esprimere un giudizio su quei versi, dal momento che non esprimeva mai giudizi, affermando che non era a lui che dovevano piacere, mentre proprio a lui mi sarebbe interessato che piacessero. Scherzando, andava poi dicendo che gli venivo dietro, riferendosi ad alcuni miei testi, ma quando si trattò di scrivermi una dedica sull’edizione economica negli Oscar Mondadori del giugno 1982, quel passaggio di testimone gli parve troppo azzardato:

 

da Stefano a Stefano

cogli auguri (facilmente im-

maginabili) che uno Stefano

fa all’altro

 

La vergò sulla poltrona girevole del nostro studio-salotto con la solita penna biro. Jutta sedeva sul divano e, come a volerlo spronare, gli aveva suggerito di scrivermi una bella frase, cosa che fece con molta concentrazione, anche se subito dopo scosse la testa dicendo che non avrebbe dovuto scriverla così; continuò a scuoterla ancora a lungo, come a voler sottolineare tutto il disappunto. Era una sera settembrina dellʼ82.

Poco dopo mi disse che un regista voleva ricavare un film da Horcynus Orca, ma la cosa non mi pare gli garbasse: scrollava il capo in senso di diniego, sorridendo. Immagino che ne fosse lusingato, ma non digeriva il fatto che la sceneggiatura si basasse tutta sull’orca-delfino, una specie di racconto d’avventura, insomma. So che non dette mai l’assenso e non se ne fece nulla.





D'Arrigo in un'immagine di Gianluca Cataldo


Cosa ricordi di quel 2 maggio 1992?

 

Una splendida giornata di sole. Ero in giardino quando mi telefonò mio figlio sedicenne. Aveva appreso la notizia alla radio. Rimasi inebetito: sono qui a due passi e non ne ho saputo nulla? Mi precipitai al terzo piano, non ricordo chi ci aprì la porta. Jutta era seduta su una poltroncina di fronte al salotto, composta nel suo dolore e spaventata da quanto ancora poteva accadere. Indicò con un gesto della mano il luogo dove andare a posare l’ultimo sguardo. Ornella, dopo aver dato una rapida occhiata a quel suo vecchio amico, senza riconoscerlo se non come citazione di qualcuno che ora non era, si era seduta per un poco accanto a Jutta, che sgranò quel racconto di allucinate parole che non sanno più di cosa si vada a parlare. Diceva di non aver voluto permettere che infierissero con l’autopsia sul cadavere del marito: «A che pro? preferisco che lo lascino in pace». Ora che a tacere era lui, il silenzio si andava annidando tra i discorsi senza più senso degli astanti che, pur mormorando qualcosa, erano come assorbiti da quel lontano silenzio forzato, come se fosse tutto ciò che restava di quella giornata, che pure poteva configurarsi come una voce fuori campo, nel bailamme di astronauti frastornati da quel lungo viaggio, ora che la salma era ricomposta nella stanzuccia ricavata dopo i lavori di muratura, sul cui piccolo scrittoio restava poggiato un pacchetto aperto di Rothmans Leggera ultrasottili. Finché il calpestio rapido degli addetti alle pompe funebri lungo la rampa di scale che scendeva fino all’ingresso soleggiato del portone di ferro e vetro in cattivo stato della palazzina in cui aveva abitato e atteso alla stesura del suo capolavoro, suggellò anche la fine del nostro rapporto.

In strada si era già radunata qualche persona. Riconobbi la poetessa Marcia Teophilo, che passeggiava nervosamente avanti e indietro, gettando improvvisi sguardi oltre il cancello, in attesa del feretro, e altri dell’ufficialità, che per noi “antagonisti” rappresentavano il nemico da abbattere. Non ricordo altro di quella giornata, se non che i funerali si svolsero in forma religiosa nella chiesa di piazza Monte Gennaro. Salutai qualcuno che conoscevo, poi mi ritirai in fretta.

 

Continuasti a frequentare Jutta?

 

La rividi solo un anno dopo, in occasione di una riunione condominiale: fu molto gentile sia con me che con Ornella. Poi mi trasferii al Flaminio, quartiere dove avevo abitato fin da piccolo, e là Jutta mi telefonò per dirmi che stava organizzando un convegno su Stefano. Il cambiamento di casa, che fu per me anche un cambiamento di vita, mi allontanò lentamente da via dell’Assietta. Non mi feci più sentire: una condotta che oggi giudico imperdonabile. Quella coppia che incontravo così spesso lungo la scesa, con D’Arrigo che si trascinava a testa bassa qualche metro dietro di lei, e a cui mi ero per tanto tempo abituato, aveva cessato di esistere. Mi immersi in una sorta di Vita nova. Resta il ricordo di quel piccolo androne, dove anni addietro s’erano raccolti nottetempo e in pigiama molti inquilini dello stabile, spaventati da una forte scossa di terremoto. Lui era sceso con Jutta scuotendo la testa e, ironizzando sulla loro paura, cercava di tranquillizzarli, tenendo banco e distraendoli con battute aneddoti memorie: tentava in ogni modo di convincerli che non si trattava di un terremoto come quello di Messina, e che non c’era niente da temere. Finché, rassicurati e stanchi per l’ora tarda, tutti si ritirarono nelle loro case.

Aveva ragione: il terremoto tacque.




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