LETTURE
MAURIZIO BARLETTA
      

Le domeniche con Gadda – quando veniva a casa mia

 

Roma, Robin Edizioni - Biblioteca del Vascello, 2014, pp. 145, € 12,00

    

      


di Mario Quattrucci

 

 

Ci si è chiesti, in sede di Giuria del Premio Feronia, come si dovesse intendere questo libro di Barletta di rara finissima fattura. Non romanzo, non racconto nell’accezione usuale del termine, vale, s’è detto, quale felice narrazione. E tale esso è; e come tale ha ricevuto, per il 2014,  il riconoscimento che ottennero già scrittori quali, per citarne solo alcuni e restare agli italiani, Malerba e Tadini, Delli Santi e Perriera, Carla Vasio e Celati, Buzzi, Consolo, Sanavio, Piemontese, Renzo Rosso, Gianni Toti, Tabucchi, Fontana...

Una narrazione, dunque, e per di più – almeno apparentemente e parzialmente – un tratto di vita: della sua  propria vita.

Ma se questo testo fosse scritto in terza persona e coi nomi dei protagonisti diversi dai veri – o quando letto da chi, per avventura, non sappia niente di Gadda, e del suo stare al mondo, e della sua opera letteraria – esso prenderebbe la mente (e la pancia) come il più godibile e scenografico racconto che potremmo desiderare. E, per giunta, scritto in una lingua luminosa e perfetta come un neoclassico (si fa per dire) reperto.

Uno straordinario, racconto. Pieno di personaggi veri, che erano lì al tempo di cui si narra e che (come tutti i grandi tipi di ogni letteratura), mutato tutto ciò che è mutato, sono qui oggi fra noi diversi ma eterni (perché storici e umani), con i volti, le movenze, i tic, i pensieri, il garbuglio delle loro correlazioni. Personaggi anzi personae della umana commedia, e perciò all’altezza di quella grande letteratura – da Balzac a Pirandello a... Gadda – che ci narra la vita e la storia delle creature.  

Personaggi, dicevo. Anche se in senso opposto a quel che dice dei suoi (ma si tratta solo della sua parola) il protagonista eminente di questo racconto, e cioè il medesimo Gadda in veste di auto−esegeta. Quelli, com’egli ci vuol indurre a pensarli, inventati di sana pianta, persone immaginate o sognate, appartenenti alla storia dei suoi sogni..., non verosimili tanto da apparire ritratti ma idee di persone vagheggiate di suo, sognate di notte e a volte tratteggiate su carta ai risvegli e quasi in stato di trance; questi, invece, persone in carne ed ossa – il Gaddus, lo zio Arcamone, il narratore..., altri ancora... − ma a muoversi sulla scena di quella sua casa di ragazzo in cui lo veniva crescendo il suo padre adottivo, come una troupe variegata e vivace che dia vita a una novella pirandelliana...,  o a una  commedia italiana di Germi..., o ad un romanzo di Brancati o, infine, a un racconto (ma dei maggiori) per l’appunto del Gadda.

Sono la storia di un’amicizia e di una iniziazione alla vita (e alla cultura,  alla letteratura, al teatro..., al valore dell’amicizia) queste Domeniche con Gadda di Maurizio Barletta: o piuttosto di amicizie tra grandi e di iniziazione per lui, lo scrittore di oggi, il narratore che finalmente decide di mettere mano al computer..., pardon: alla penna..., dopo decenni di resistenze e pudori, e metter fuori quella sua speciale storia di ragazzino − e poi giovane e quindi uomo alla toga virile − e di raccontarcene i tratti e i succhi sostanziosi che lo hanno nutrito e fatto quello che è stato e che è. Di rompere finalmente gli indugi (dei decenni in cui, come direbbe il Gran Romano, cià avuto antro da penzà) e mettere su carta questo denso, commovente, divertente, a volte esilarante ritratto di Scrittore con gruppo. O forse di Ragazzo con Zio ed Ingegnere; o forse, ancora, di Gruppo con ragazzo e Amico e Ingegnere Scrittore...

Di questa storia, è ben chiaro, la figura centrale, il personaggio−persōna intorno a cui tutto ruota, è naturalmente – come da titolo −  il Gadda di Roma. E cioè il Gran Lombardo che in questa nostra spampanata (allora e da sempre) e insieme serrata città (serrata nelle sue cinte di clero e di generone e di nobiltà decaduta, ma sempre al potere e di borghesia proterva o stracciona e di popolaccio e di popolo poco assai proletario e di tormentati o succubi intellettuali dal difficile ubi consistam, e di tanti e comunque povericristi..., e insomma de li du generi umani, padroni e servitori) sbarca dalla Firenze delle Giubbe Rosse e del Vieusseux nel Cinquanta: e se ne appropria, la capisce quanto nessuno, a parte quell’altro, il Belli Giuseppe Gioachino (ma quello romano de Roma), l’ha mai capita; e ne fa il magistrale, crudo, spietato e commosso ritratto (seppur retrodatato) che è il Pasticciaccio: metafora, allegoria (con derisione e pietà) di quello gnommero che è l’esistenza e la storia e la vita dell’òmo. E in cui, in quella Roma dei Cinquanta − Sessanta  conosce finalmente il successo, la fama, anzi la gloria, per poi in brevi anni rapidamente lasciarla, distaccarsene in un ritroso silenzio, ricusarla (insieme alla vita) chiudendosi nella sua solitudine definitiva ed estrema.

Ma in nessun altro libro su Gadda   né di analisi critica né di rappresentazione biografica – ho trovato un Ingegnere così ben scolpito nella sua fusione di persona ed artista, di viaggiatore del suo tempo e di scrittore, come in questo ritratto che ne fa Maurizio Barletta.

Vi è, cioè, una narrazione di episodi e di fatti che raccontano il Gadda, se così si può dire, privato, perfino en pantoufles, ma da cui si vede in trasparenza, o meglio si evince e si intende, la qualità, la sostanza, la verità – di contenuti e di forma – dello Scrittore.

E ciò proprio nella trama sostanziale del libro: e cioè non solo nel tratteggio di quell’omone, o zione, che ogni domenica arriva nella casa sul Tevere con appeso all’indice della mano sinistra, come il suo pasticcesco Commendator Angeloni, il pacchetto di paste dello storico pasticcere Faggiani, ma proprio nella relazione poliedrica dell’Ingegnere con le altre figure della commedia qui messa in scena; e proprio – e qui è l’arte sua, del Barletta – nel felicissimo trattamento degli altri numerosi e variegati personaggi con cui il grande Gadda, in silenziosa ma attenta fagocitante presenza del giovane acquisito nipote, nella casa dell’amico s’incontra.

Un trattamento, si può ben dire, alla maniera dell’autore dell’Adalgisa e di Via Keplero, del descrittore del ducentodicinnove della Via de li merli. Una sfilata, un balletto, una magoga serrata  di personaggi semplici e grandi – la splendida Lina di Poppi (splendida di forme e d’arte artusiana); l’invadente e ciarliero avvocato Capece; Tecchi e Palazzeschi, nientemeno...; il Germi del Maledetto Imbroglio (il cui incontro con Gadda è sceneggiato come in uno di quei mitici film che dettero inizio alla commedia all’italiana); e via via piccoli e grandi comprimari fino a Malipiero e Ghedini e Toscanini.... E quadri e scene di storia patria o mondiale visti con gli occhi dell’Ingegnere attraverso i quali (personaggi ed episodi ed incontri) − per la mediazione dei sarcastici corrosivi amari giudizi del più grande scrittore che l’Italia abbia avuto nel XX secolo, ma anche per l’idea che già allora veniva facendosi, a tu per tu con quei popò di ermeneuti, l’apprendista scrittore Maurizio − appare in controluce, o talvolta in pienissima, la società e la cultura italiana del tempo: con quanto di storico e transeunte e di storico e permanente essa ha. «Quell’imperdonabile adorazione di sé, quell’egotismo, quel ponderoso narcisismo... che ha sempre tagliato le gambe della borghesia intellettuale italiana. Bramosa di ricopiare le smorfie della piccola borghesia, di sposare tutte le avventure che non richiedano fedeltà e disposizione al sacrificio piuttosto che “prestare doverosa attenzione agli alterni rintocchi della ragione e della logica che risuonano all’intelletto anche nei tempi di peste”. Pronta poi sempre a raccogliere l’occasione per sbracarsi in sublimazioni retoriche e patetiche, “fino ad annegare in un libidinoso miscuglio dove non c’è sentore né di vita civile né di vita affettiva”».

E così, al centro, il ritratto del  Gran Lombardo che si era fatto romano e in ciò, e quanto più era stato capace di calarsi nel purgatorio sguaiato della Città, tanto più, se possibile, s’era fatto universale ed umano.

Quell’Uomo che lottava contro la solitudine coltivando un’antica e intangibile amicizia; che curava il suo male profondo rivivendo per sottintesi ed accenni, con questa sua speciale famiglia romana, le lancinanti memorie della sua vita. Che celava (ma il Barletta è invece capace di mostrarcelo in trasparenza per quello che è), che avvolgeva in un manto o piuttosto pastrano di ironia e comico il suo male oscuro, la sua lancinante devastatrice cognizione del dolore. Sentiti in sé medesimo – comico e dolore insieme – e che andava scrutando e riconoscendo sulle facce de la ggente e nei loro comportamenti e movenze: e facendone personae del dramma, fili dello gnommero, elementi vivi delle concause.

Quel grandissimo (e poverissimo), quel nobile (e popolano) che riusciva sotto i suoi occhi (suoi di Maurizio) – in un’Arena di cinema all’aperto o in una osteria; sul tram che lo portava alla RAI o negli studi e corridoi  del grande Ente; o alle corse dei cavalli, o a una cerimonia di Premio, o nello stesso ridotto scenario dell’ospitale casa dell’amico di guerra e di prigionia – e senza quasi che vi pensasse, ad assorbire come una spugna tutti i valori e disvalori e normalità e deformazioni e virtù e vizi palesi ed occulti che ci impiastrano tutti all’esistenza e ci raccontano tutto, ma proprio tutto – basta saperli leggere come sapeva leggerli lui – dell’humana conditio. 

Che è poi la chiave, mi sembra, per intendere il miracolo psicologico e letterario per cui Gadda ha potuto, lui così lombardo e cosmopolita – comprendere a fondo ed esprimere la ggente de Roma.

Ma c’è un altro personaggio, in questo racconto mirabile: ed è lui, il narratore..., il Barletta.

Tenuto nell’ombra per quanto gli è stato possibile, e tuttavia centrale egli stesso. E non solo perché il Gadda che qui è raccontato – ripeto: in figura de perzona e in sostanza di scrittore – ci perviene attraverso gli occhi – e gli orecchi, e la mente via via sempre più aperta – del bambino e poi ragazzo e poi uomo che in quella amicizia particolare da nipote a zione, e in quel particolare e unico rapporto del vero zio−padre col grande narratore che è il Gadda, lo viene scoprendo e comprendendo, e lo rivela e lo fa comprendere a noi..., ma perché egli ci parla della sua iniziazione alla vita proprio nel rievocare i memorabili eventi di quel rapporto speciale della sua vita al tempo di Gadda, e perché scopre oggi e rivela nel fare, e nel fare in quella singolare maniera, quel tratto della sua biografia – scopre sul filo dei ricordi, e rivela, che lì, in quel tempo, in quella casa, in quelle domeniche, in quel rapporto, viene posta in radice la sostanza della sua esistenza futura..., cioè del suo bell’avvenire che ha già dietro alle spalle e di quello che ancora lo attende.

Scopre, cioè, scopre oggi, – o meglio: induce da quell’esperienza –, che «i ricordi non sono soltanto i fili del tempo ma forse la nostra stessa visione della vita». E che da quelle domeniche assaporate lungo più di un decennio egli ha in realtà ricevuto il lascito più importante. Lascito che lui riconduce, anch’esso, alla comprensione di Gadda ma che allo smaliziato lettore apparirà con ogni evidenza l’intendimento del mondo: dell’umano mondo delle crature, e ancor più di quelle creature così umane ma anche speciali che sono gli artisti: gli scrittori, i creativi, gli inventori di storie da cui la condizione nostra, il nostro essere nel mondo e nell’historico tempo che ci fu dato, si può capire davvero. Poiché «il lascito più straordinario di una personalità complessa come quella di Gadda consiste proprio nella sua sofferta umanità, cangiante, caleidoscopica, materica e mai ripetitiva come mai ripetitive erano le oscillazioni del suo linguaggio...».

Ma il Barletta che scrive, e che scrive a molta distanza da quei mirabili eventi (però, da futuro scrittore e critico quale sarebbe poi divenuto, accuratamente allora annotati), il Barletta uomo che ha dedicato poi la sua vita all’impegno civile e politico in postazioni assai diverse da quelle del Gadda, ha preso di lui? Ha ripetuto e ripete in sé quel “lascito straordinario”? Agli occhi di chi legga attentamente queste Domeniche, e di chi come me ne conosce la vita pubblica e privata e, vorrei dire, tutte le increspature della personalità e del pensiero e, perfino, i tic inconsapevoli, le manie, le maniere e, in sostanza, la sua concezione del mondo realizzata nel fare, parrebbe proprio di sì. Nella sostanza, sì.

Nella diversità, naturalmente. Perché la sua, di sofferta umanità cangiante materica e mai ripetitiva, e le sue, di oscillazioni del linguaggio e (aggiungo io) come in Gadda di pensiero e di azione, sono di una persona diversa, e molto diversa,  dall’uomo che gli è stato Maestro: e anche perché a quel decisivo suo tempo i maestri furono due: l’Ingegnere e lo zio−padre Arcamone: antifascista, azionista, affascinante e ricercato e tutt’altro che misogino uomo di Stato, mai solo e in solitudine ed anzi circondato sempre da amici da ospiti da personaggi...

Barletta, dunque, è uomo assai diverso dallo zio Gadda: non c’è in lui né la realtà né la nostalgia della solitudine; non la misoginia; non le nevrosi e psicosi dell’autore della Cognizione; diverso e alternativo è il suo rapporto col mondo e con gli altri. E perfino artisticamente − al di là dell’immensa ammirazione per l’autore del Ducato in fiamme e del Diario di guerra e di prigionia, del Pasticciaccio e degli Accoppiamenti giudiziosi..., e della permanente arrovellata cangiante sperimentazione di Gadda – il suo principale riferimento è ad altri scrittori ed artisti non meno, ma diversamente, sofferti: il Brancati, il Germi, il Landolfi, Palazzeschi, Arbasino..., la cui drammaticità è sempre (ma ciò del resto era abbondantemente anche nel Gran Lombardo) rivestita dall’ironia o addirittura intrisa di comico.  E ciò, sia detto di passaggio, al di là (o al di qua, non saprei dire...) della lineare, non barocca, non sperimentale e, come accennato, quasi neoclassica scrittura delle Domeniche. Ma...

Ma c’è quell’assorbimento, quell’assimilazione. Che ora e qui si palesa in forma di ricordi (e perciò, come dice, in forma di «visione della vita») e che è anche (correndo sul filo di un tema manniano) assimilazione del nesso (o identità? o dissidio?) tra vita e arte, vita e letteratura: ed è soprattutto ciò che Gadda, già da quell’approccio adolescenziale e giovanile e poi, ancor più, dalle sue creazioni gli consegna per sempre: la vita e la letteratura come permanente conoscenza e ricerca della realtà, dei significati del tempo, dell’umanità via via mutante ed eterna, la vita e la letteratura come descrizione e appropriazione. E appropriazione della realtà non meno che di sé..., di sé attraverso l’appropriazione degli altri. E dunque vita come tessitura intricata di rapporti, vita come un Pasticciaccio irrisolto e come Un maledetto imbroglio.

Maurizio Barletta, insomma, e questo libro ce ne dà conto in forma e contenuto, è vissuto e vive – anche quando non scrive perché cià antro da fa – anche quando fa e non si rinserra nel rovello del suo foro interiore – come scrittore che pensa e vive il mondo e la storia mentre ne scrive.

Solo che in lui lo scrivere è spesso segreto; e l’ironia non è soltanto un pastrano, ma tutt’uno e un’unica cosa..., unica e sua..., – in quanto linguaggio –, con la sua struttura di umana creatura. A dirla tutta: Maurizio è, in figura de perzona, ve lo assicuro, un personaggio di Gadda. Uscito dritto dritto da uno di quegli splendidi  giudiziosi Accoppiamenti... O entrato...?




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