|
di Mario Quattrucci
Ci
si è chiesti, in sede di Giuria del Premio Feronia, come si dovesse intendere questo
libro di Barletta di rara finissima fattura. Non romanzo, non racconto
nell’accezione usuale del termine, vale, s’è detto, quale felice narrazione. E tale esso è; e come tale
ha ricevuto, per il 2014, il riconoscimento che ottennero già
scrittori quali, per citarne solo alcuni e restare agli italiani, Malerba e Tadini,
Delli Santi e Perriera, Carla Vasio e Celati, Buzzi,
Consolo, Sanavio, Piemontese, Renzo Rosso, Gianni
Toti, Tabucchi, Fontana...
Una
narrazione, dunque, e per di più – almeno apparentemente e parzialmente – un
tratto di vita: della sua propria
vita.
Ma
se questo testo fosse scritto in terza persona e coi nomi dei protagonisti
diversi dai veri – o quando letto da chi, per avventura, non sappia niente di Gadda,
e del suo stare al mondo, e della sua opera letteraria – esso prenderebbe la
mente (e la pancia) come il più godibile e scenografico racconto che potremmo desiderare. E, per giunta, scritto in una
lingua luminosa e perfetta come un neoclassico (si fa per dire) reperto.
Uno
straordinario, racconto. Pieno di personaggi
veri, che erano lì al tempo di cui si narra e che (come tutti i grandi tipi di ogni letteratura), mutato tutto
ciò che è mutato, sono qui oggi fra noi diversi ma eterni (perché storici e umani), con i volti, le
movenze, i tic, i pensieri, il garbuglio delle loro correlazioni. Personaggi
anzi personae
della umana commedia, e perciò all’altezza di quella grande letteratura – da
Balzac a Pirandello a... Gadda – che ci narra la vita
e la storia delle creature.
Personaggi,
dicevo. Anche se in senso opposto a quel che dice dei suoi (ma si tratta solo
della sua parola) il protagonista eminente di questo racconto, e cioè il medesimo
Gadda in veste di auto−esegeta. Quelli, com’egli ci vuol indurre a
pensarli, inventati di sana pianta, persone immaginate o sognate, appartenenti
alla storia dei suoi sogni..., non verosimili
tanto da apparire ritratti ma idee di persone vagheggiate di suo, sognate
di notte e a volte tratteggiate su carta ai risvegli e quasi in stato di trance;
questi, invece, persone in carne ed ossa – il Gaddus,
lo zio Arcamone, il narratore..., altri ancora...
− ma a muoversi sulla scena di quella sua
casa di ragazzo in cui lo veniva crescendo il suo padre adottivo, come una troupe
variegata e vivace che dia vita a una novella pirandelliana..., o a una commedia
italiana di Germi..., o ad un romanzo
di Brancati o, infine, a un racconto (ma dei maggiori) per l’appunto del Gadda.
Sono
la storia di un’amicizia e di una iniziazione alla vita (e alla cultura, alla letteratura, al teatro..., al valore dell’amicizia)
queste Domeniche con Gadda di
Maurizio Barletta: o piuttosto di amicizie tra grandi e di iniziazione per lui,
lo scrittore di oggi, il narratore che finalmente decide di mettere mano al
computer..., pardon: alla penna..., dopo decenni di resistenze e pudori, e metter
fuori quella sua speciale storia di ragazzino − e poi giovane e quindi uomo
alla toga virile − e di raccontarcene i tratti e i succhi sostanziosi che
lo hanno nutrito e fatto quello che è stato e che è. Di rompere finalmente gli
indugi (dei decenni in cui, come direbbe il Gran Romano, cià avuto antro da penzà) e mettere su carta
questo denso, commovente, divertente, a volte esilarante ritratto di Scrittore
con gruppo. O forse di Ragazzo con Zio ed Ingegnere;
o forse, ancora, di Gruppo con ragazzo e Amico e Ingegnere Scrittore...
Di
questa storia, è ben chiaro, la figura centrale, il personaggio−persōna intorno
a cui tutto ruota, è naturalmente – come da titolo − il Gadda di Roma. E cioè il Gran Lombardo che
in questa nostra spampanata (allora e
da sempre) e insieme serrata città (serrata nelle sue cinte di clero e di generone
e di nobiltà decaduta, ma sempre al potere e di borghesia proterva o stracciona
e di popolaccio e di popolo poco assai proletario e di tormentati o succubi
intellettuali dal difficile ubi consistam,
e di tanti e comunque povericristi..., e insomma de li du generi
umani, padroni e servitori) sbarca dalla Firenze delle Giubbe Rosse e del Vieusseux nel Cinquanta:
e se ne appropria, la capisce quanto nessuno,
a parte quell’altro, il Belli Giuseppe Gioachino (ma quello romano de Roma), l’ha mai capita; e ne
fa il magistrale, crudo, spietato e commosso ritratto (seppur retrodatato) che
è il Pasticciaccio: metafora,
allegoria (con derisione e pietà) di quello gnommero che è l’esistenza e la storia e la vita dell’òmo. E in cui, in quella Roma
dei Cinquanta − Sessanta conosce finalmente il successo, la
fama, anzi la gloria, per poi in brevi anni rapidamente lasciarla, distaccarsene in un ritroso silenzio, ricusarla (insieme
alla vita) chiudendosi nella sua
solitudine definitiva ed estrema.
Ma
in nessun altro libro su Gadda − né di analisi critica né di
rappresentazione biografica – ho trovato un Ingegnere
così ben scolpito nella sua fusione di persona ed artista, di viaggiatore
del suo tempo e di scrittore, come in questo ritratto che ne fa Maurizio Barletta.
Vi
è, cioè, una narrazione di episodi e di fatti che raccontano il Gadda, se così
si può dire, privato, perfino en pantoufles, ma da cui si vede in trasparenza, o meglio
si evince e si intende, la qualità, la sostanza, la verità – di contenuti e di forma – dello Scrittore.
E
ciò proprio nella trama sostanziale del libro: e cioè non solo nel tratteggio
di quell’omone, o zione, che ogni domenica arriva nella casa sul Tevere con
appeso all’indice della mano sinistra, come il suo pasticcesco Commendator Angeloni, il pacchetto di paste dello storico pasticcere
Faggiani, ma proprio nella relazione poliedrica
dell’Ingegnere con le altre figure della commedia
qui messa in scena; e proprio – e qui è l’arte sua, del Barletta – nel felicissimo
trattamento degli altri numerosi e variegati personaggi con cui il grande
Gadda, in silenziosa ma attenta fagocitante presenza del giovane acquisito nipote, nella casa dell’amico
s’incontra.
Un
trattamento, si può ben dire, alla maniera dell’autore dell’Adalgisa e di Via Keplero, del
descrittore del ducentodicinnove della Via de li merli. Una sfilata, un balletto, una magoga serrata di personaggi semplici e grandi – la splendida
Lina di Poppi (splendida di forme e d’arte artusiana);
l’invadente e ciarliero avvocato Capece; Tecchi e Palazzeschi, nientemeno...; il Germi del Maledetto Imbroglio (il cui incontro con
Gadda è sceneggiato come in uno di quei mitici film che dettero inizio alla commedia all’italiana); e via via piccoli
e grandi comprimari fino a Malipiero e Ghedini e Toscanini....
E quadri e scene di storia patria o mondiale visti con gli occhi dell’Ingegnere attraverso i quali (personaggi
ed episodi ed incontri) − per la mediazione dei sarcastici corrosivi
amari giudizi del più grande scrittore che l’Italia abbia avuto nel XX secolo,
ma anche per l’idea che già allora veniva facendosi, a tu per tu con quei popò
di ermeneuti, l’apprendista scrittore
Maurizio − appare in controluce, o talvolta in pienissima, la società e
la cultura italiana del tempo: con quanto di storico e transeunte e di storico e permanente essa ha. «Quell’imperdonabile
adorazione di sé, quell’egotismo, quel ponderoso narcisismo... che ha sempre
tagliato le gambe della borghesia intellettuale italiana. Bramosa di ricopiare
le smorfie della piccola borghesia, di sposare tutte le avventure che non
richiedano fedeltà e disposizione al sacrificio piuttosto che “prestare
doverosa attenzione agli alterni rintocchi della ragione e della logica che
risuonano all’intelletto anche nei tempi di peste”. Pronta poi sempre a
raccogliere l’occasione per sbracarsi in sublimazioni retoriche e patetiche, “fino
ad annegare in un libidinoso miscuglio dove non c’è sentore né di vita civile
né di vita affettiva”».
E
così, al centro, il ritratto del Gran Lombardo che si era fatto romano e in
ciò, e quanto più era stato capace di calarsi nel purgatorio sguaiato della
Città, tanto più, se possibile, s’era fatto universale ed umano.
Quell’Uomo
che lottava contro la solitudine coltivando un’antica e intangibile amicizia;
che curava il suo male profondo rivivendo per sottintesi ed accenni, con questa
sua speciale famiglia romana, le lancinanti memorie della sua vita. Che celava
(ma il Barletta è invece capace di mostrarcelo in trasparenza per quello che è),
che avvolgeva in un manto o piuttosto pastrano
di ironia e comico il suo male oscuro, la sua lancinante devastatrice
cognizione del dolore. Sentiti in sé medesimo
– comico e dolore insieme – e che
andava scrutando e riconoscendo sulle facce de la ggente e nei loro comportamenti e
movenze: e facendone personae del dramma, fili dello gnommero,
elementi vivi delle concause.
Quel
grandissimo (e poverissimo), quel
nobile (e popolano) che riusciva
sotto i suoi occhi (suoi di Maurizio) – in un’Arena di cinema all’aperto o in
una osteria; sul tram che lo portava alla RAI o negli studi e corridoi del grande Ente; o alle corse dei cavalli, o
a una cerimonia di Premio, o nello stesso ridotto scenario dell’ospitale casa
dell’amico di guerra e di prigionia – e senza quasi che vi pensasse, ad
assorbire come una spugna tutti i valori e disvalori e normalità e deformazioni
e virtù e vizi palesi ed occulti che ci impiastrano
tutti all’esistenza e ci raccontano tutto, ma proprio tutto – basta saperli
leggere come sapeva leggerli lui – dell’humana conditio.
Che
è poi la chiave, mi sembra, per intendere il miracolo psicologico e letterario
per cui Gadda ha potuto, lui così lombardo e cosmopolita – comprendere a fondo
ed esprimere la ggente de Roma.
Ma
c’è un altro personaggio, in questo racconto mirabile: ed è lui, il
narratore..., il Barletta.
Tenuto nell’ombra
per quanto gli è stato possibile, e tuttavia centrale egli stesso. E non solo
perché il Gadda che qui è raccontato – ripeto: in figura de perzona e in sostanza di
scrittore – ci perviene attraverso gli occhi – e gli orecchi, e la mente via
via sempre più aperta – del bambino e poi ragazzo e poi uomo che in quella
amicizia particolare da nipote a
zione, e in quel particolare e unico rapporto del vero zio−padre col
grande narratore che è il Gadda, lo viene scoprendo e comprendendo, e lo rivela
e lo fa comprendere a noi..., ma perché egli ci parla della sua iniziazione
alla vita proprio nel rievocare i memorabili eventi di quel rapporto speciale
della sua vita al tempo di Gadda, e perché
scopre oggi e rivela nel fare, e nel fare in quella singolare maniera, quel
tratto della sua biografia – scopre
sul filo dei ricordi, e rivela, che lì, in quel tempo, in quella casa, in
quelle domeniche, in quel rapporto, viene posta in radice la sostanza della sua
esistenza futura..., cioè del suo bell’avvenire che ha già dietro alle spalle e
di quello che ancora lo attende.
Scopre,
cioè, scopre oggi, – o meglio: induce da quell’esperienza –, che «i ricordi non
sono soltanto i fili del tempo ma forse la nostra stessa visione della vita». E
che da quelle domeniche assaporate lungo più di un decennio egli ha in realtà
ricevuto il lascito più importante. Lascito che lui riconduce, anch’esso, alla
comprensione di Gadda ma che allo smaliziato lettore apparirà con ogni evidenza
l’intendimento del mondo: dell’umano
mondo delle crature,
e ancor più di quelle creature così umane
ma anche speciali che sono gli artisti: gli scrittori, i creativi, gli
inventori di storie da cui la condizione nostra, il nostro essere nel mondo e
nell’historico
tempo che ci fu dato, si può capire davvero. Poiché «il lascito più
straordinario di una personalità complessa come quella di Gadda consiste
proprio nella sua sofferta umanità, cangiante, caleidoscopica, materica e mai
ripetitiva come mai ripetitive erano le oscillazioni del suo linguaggio...».
Ma
il Barletta che scrive, e che scrive a molta distanza da quei mirabili eventi (però, da futuro
scrittore e critico quale sarebbe poi divenuto, accuratamente allora annotati),
il Barletta uomo che ha dedicato poi la sua vita all’impegno civile e politico
in postazioni assai diverse da quelle del Gadda, ha preso di lui? Ha ripetuto e ripete in sé quel “lascito
straordinario”? Agli occhi di chi legga attentamente queste Domeniche, e di chi come me ne conosce
la vita pubblica e privata e, vorrei dire, tutte le increspature della
personalità e del pensiero e, perfino, i tic inconsapevoli, le manie, le maniere e, in sostanza, la sua
concezione del mondo realizzata nel fare, parrebbe proprio di sì. Nella
sostanza, sì.
Nella
diversità, naturalmente. Perché la sua,
di sofferta umanità cangiante materica e
mai ripetitiva, e le sue, di
oscillazioni del linguaggio e (aggiungo io) come in Gadda di pensiero e di azione,
sono di una persona diversa, e molto diversa, dall’uomo che gli è stato Maestro: e anche
perché a quel decisivo suo tempo i maestri furono due: l’Ingegnere e lo
zio−padre Arcamone: antifascista, azionista,
affascinante e ricercato e tutt’altro che misogino uomo di Stato, mai solo e in solitudine ed anzi circondato sempre da
amici da ospiti da personaggi...
Barletta,
dunque, è uomo assai diverso dallo zio
Gadda: non c’è in lui né la realtà né la nostalgia della solitudine; non la
misoginia; non le nevrosi e psicosi dell’autore della Cognizione; diverso e alternativo è il suo rapporto col mondo e con
gli altri. E perfino artisticamente
− al di là dell’immensa ammirazione per l’autore del Ducato in fiamme e del Diario
di guerra e di prigionia, del Pasticciaccio
e degli Accoppiamenti giudiziosi...,
e della permanente arrovellata cangiante sperimentazione
di Gadda – il suo principale riferimento è ad altri scrittori ed artisti non
meno, ma diversamente, sofferti: il Brancati, il Germi, il Landolfi,
Palazzeschi, Arbasino..., la cui drammaticità è sempre (ma ciò del resto era
abbondantemente anche nel Gran Lombardo) rivestita dall’ironia o addirittura
intrisa di comico. E ciò, sia detto di passaggio, al di là (o al
di qua, non saprei dire...) della lineare, non barocca, non sperimentale e, come accennato, quasi neoclassica
scrittura delle Domeniche. Ma...
Ma
c’è quell’assorbimento, quell’assimilazione. Che ora e qui si palesa in forma
di ricordi (e perciò, come dice, in forma di «visione della vita») e che è
anche (correndo sul filo di un tema manniano) assimilazione del nesso (o identità? o dissidio?)
tra vita e arte, vita e letteratura: ed è soprattutto ciò che Gadda, già da
quell’approccio adolescenziale e giovanile e poi, ancor più, dalle sue
creazioni gli consegna per sempre: la vita e la letteratura come permanente conoscenza
e ricerca della realtà, dei significati del tempo, dell’umanità via via mutante
ed eterna, la vita e la letteratura come descrizione
e appropriazione. E appropriazione della realtà non meno che di sé..., di sé
attraverso l’appropriazione degli altri. E dunque vita come tessitura intricata
di rapporti, vita come un Pasticciaccio irrisolto
e come Un maledetto imbroglio.
Maurizio
Barletta, insomma, e questo libro ce ne dà conto in forma e contenuto, è
vissuto e vive – anche quando non scrive perché cià antro da fa – anche quando fa e non si rinserra nel rovello del suo foro interiore – come scrittore che
pensa e vive il mondo e la storia mentre ne scrive.
Solo
che in lui lo scrivere è spesso segreto; e l’ironia non è soltanto un pastrano, ma tutt’uno e un’unica cosa...,
unica e sua..., – in quanto linguaggio –, con la sua struttura di umana creatura. A dirla tutta: Maurizio è, in figura de perzona,
ve lo assicuro, un personaggio di
Gadda. Uscito dritto dritto da uno di quegli splendidi giudiziosi Accoppiamenti... O entrato...?
Scarica in formato pdf
|
|