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di Elisabetta De Troja
Poesie,
l’opera ultima e nello stesso tempo recuperata agli anni di Elda Torres. In
queste liriche la poesia ha teso come un’imboscata a se stessa, un assalto
improvviso e violento: è il verso convulso che l’ha aggredita per farle poi
ritrovare la strada luminosa e sicura nel Lunario
dell’anima e del tempo. Lunario
fa balenare il ciclo delle stagioni, la nascita e la morte, le piante che
vengono spinte a nuove fioriture, le sublimi contemplazioni di Leopardi e
Boccaccio che, in una deliziosa novella, con un ammicco a tutte le fanciulle di
tutti i tempi, scrive: “Bocca baciata non perde ventura ma si rinnova come fa
la luna”. Intangibilità della virtù quando l’osare è prudente e non va oltre. È
un tempo lungo quello di Elda Torres e della sua luna. I versi della raccolta
sono composti dal 1985 al 2009; provengono da scelte più vaste, da poesie
disperse che hanno poi ritrovato una scansione così fatta: 1) “Lunario
dell’anima notturna”; 2) “Lunario
del tempo immobile”; 3) “Lunario
dell’anima solare”. Ed è bene tenere queste tre fasi, fasi lunari, distinte.
Hanno una loro storia individuale, nonostante quella “luna” che sembra
fonderle. Ma, in effetti, rispondere alla vita vuol dire non separare né
scegliere, ma stare dentro alle cose con i sentimenti accesi, anzi farli
ardere, renderli incandescenti e abbaglianti, farli ammalare di luce.
Alfonso
Belardinelli giustamente dice che la poesia va difesa anche per un motivo
tecnico: per la brevità, l’economicità, l’avarizia e l’intensità che la
connotano. Sono regali che ritroviamo in questa raccolta, in questo linguaggio
pieno di venature, di grumi di grazia e di sangue: ”io veglio te e tu me nel
viaggio notturno” (Plenilunio d’Ottobre); di incanti e di angosce: ”aspre
carezze della terra arsa / gialla pungente e spinuta” (Carezze d’estate). E ci
si accorge che se Elda Torres è poeta è anche narratrice. La sua poesia è prosa
tagliata, scolpita ritmicamente e il taglio è come una resezione fisica che
torna puntualmente: ”luce brillante che taglia come / cristallo acuto traversa /
a strati le fitte colline”; perché questa scrittura è una zona franca tra
lirica, autobiografia, racconto, riflessione, recitazione e su molte di queste
scritture poggia un pessimismo scettico, definitivo e senza appello,
specialmente nella seconda sezione nata sotto l’influenza della guerra dei
Balcani e in cui nuovamente il linguaggio si rattrappisce in cerca di
intensità: ”grumi di coatti / nel mondo sparsi / pronti a massacrare / ogni
volta nuovo / il solito vecchio antico spettro.”
Ed
è presente in queste liriche quello stesso atteggiamento che leggevo in Gide in
uno scritto del 1952 (Ainsi soit-il ou
Les jeux sont faits): “in
presenza di sciagure immani, di disastri moltiplicati in modo abnorme, il
sentimento cambia natura; non è più la pietà, bensì l’indignazione a riempirci
il cuore e lo spirito; è la rivolta contro l’inammissibile; gli dei,
decisamente, hanno fatto fallimento.” La rivolta come risposta ad una sorte
oscura e cieca crea in Torres lo stordimento di esser tutti diventati “trottole
in bilico sull’orlo del solito abisso”. È fortissimo e disilluso l’orrore di
“anni di stragi / realismi di terrore” in una Italia calpestata in cui solo sopravvive “la mediocrità /
quando non c’è ferocia”. In questa assolutezza scarna, in questo martellare di
versi rotti, si parla di eventi reali, concreti, ripetibili che hanno scelto il
frammento, la tessera, l’epigrafe che scava il marmo e che lì si colloca,
finalmente paga di aver trovato il “luogo”.
In
questo poetare franco e stratificato la lingua può essere colloquiale ma anche
colta, familiare ma anche citazionale. Leggendo Nox: ”il giorno riemerge
in azione / di disturbo Emily leggo / per pensare in compagnia / a long long
sleep / latita invece il sonno dal cuscino / dalle mie palpebre lasse / assetate
d’oblio;” è lo stesso desiderio della Dickinson che vorrebbe, anch’essa, un
lungo, lungo sonno eccelso, “a famous” di quelli che non accennano all’alba, un
sonno che “non sbatte le palpebre e non stira le membra (…) né mai levar lo
sguardo della luce del giorno alla ricerca”
(scrive la Dickinson: “A long-long Sleep - A famous Sleep / That makes no show
for Morn / By Stretch of Limb – or stir of Lid / An independant One”).
Questa
ricerca di un sonno-sogno che non arriva, l’incertezza tra la veglia ed un
dormire atteso e forse già profanato dalla luce del giorno (scrive Elda: “il
giorno riemerge in azione / di disturbo”), riattraversa il corpo mai quieto
come quello di Emily e l’attesa dell’alba che scaccia un torpore non diventato
completo abbandono. E il fraseggio è frastagliato e senza respiro. Versi liberi
e corti, incisivi, ritmici scheggiati e puntuti che sfasano la normale
scansione della sintassi quasi come una sincope musicale.
Nel
Lunario del tempo immobile è il tempo
che domina, Giano bifronte, e tutto si
brucia perché il tempo bisognerebbe
incatenarlo, chiuderlo in un cristallo; è lui che fa brillare le cose nella
loro luce vera e nella struggente fragilità che le connota: noi ci adagiamo nel
tempo come Ofelia nell’acqua. Ma vale la pena di sopportarlo? Il prima ed il
poi non sono vicinissimi? “Voglio che ci sia la luce e l’oscurità subito dopo
(…) ieri non c’è più, non c’è più neppure il domani” diceva Apollinaire in una
lettera. È talmente breve il passaggio che il Principe Myskin nell’Idiota ripeteva l’affermazione dell’Apocalisse: “Non esisterà più il
tempo”. La seconda parte di questa raccolta, quasi una risposta alle righe
precedenti, si apre con un testo dal titolo Tempus
sine tempore e vive in un movimento oscillatorio tra tempo ed eternità, tra
la vita che fugge e gli orizzonti che cambiano; per noi “qui umani e umanoidi”
ci sono solo delle tregue, quei “fragili equilibri penduli / sbilenchi” che
rappresentano l’illusione di una armonia che non c’è. E il mondo troppo spesso
si fa deserto perché la vita si prosciuga e noi viviamo in una terra di nessuno
dove c’è solo indifferenza: è quando l’innocente all’improvviso può essere
colpito a tradimento perché tutto è ottimismo smisurato; scrive la Torres: “tristi
avari e aridi furbi / accaparrano intanto / bear my contempt of oppressorsor”.
Il segno poetico allora diventa un colpo di bisturi, un ferire la ferita, la
rivelazione per eccellenza. Heidegger diceva che si fugge, per comodità,
dall’esserCI: essere lì in quel luogo, in quelle responsabilità, essere nel
mondo. I poeti, all’incontrario, sono sempre in situazione: dicono il taciuto,
dischiudono l’avventura della vita e ci sottraggono al rinvio abituale dei
pensieri e delle parole.
Quando
Emily scrive “The Brain - is Wider than the sky - for put them side by side” (è
più vasto del cielo / il cervello / prova a metterli accanto) è come se ci
rivelasse zone infinite in un confronto
imprevisto, in un sobbalzo di verità mai sfiorate, segreti che si dischiudono
quasi per caso. I poeti dunque ci sono.
Perché, (ancora Heidegger), “i poeti
sono i mortali che seguono le tracce degli dei fuggiti, rimangono su queste
tracce e così ritrovano la direzione del divino per i loro fratelli, per gli
uomini”. Perché è nel linguaggio e soprattutto nella poesia la dimora
dell’essere: i pensatori ed i poeti sono i custodi di questo luogo sacro. Nello
stesso tempo sono coloro che traggono fuori, alla luce, le cose. E quanta luce,
vera luce, è presente nel Lunario
dell’anima solare; il succedersi dei mesi rammenta le sculture dei portali
delle cattedrali romaniche in cui si susseguono luoghi, circostanze, azioni: la
caccia con il falcone, la mietitura, l’uva nei tini; quadri circoscritti, immagini di vita in cui la natura avvolge
l’uomo e ne è corrisposta. Anche nella sua poesia Elda Torres capta momenti
epifanici, i doni di luce del tempo e dei giorni. Cose, fiori, strade si bagnano
nella luce fresca del plein-air. Attilio Bertolucci invocava “un po’ di luce
vera” come questa: “giù a occidente il
mare brilla / scintilla al meriggio limpido / e gelido di primo gennaio” (Hieme) mentre le stagioni si rincorrono: “tiepida la luce è annuncio / di
precoce primavera” (Primo-vere).
I
Vagabondages, l’ultima parte della raccolta, ci portano di città in città, di
continente in continente, come istanti fatali dell’esistenza, quando in un baleno è possibile intravedere una realtà
diversa o una diversa disposizione della realtà, per afferrare un senso, un
rapporto imprevisto, inaspettato, come la luce che gioca a Lisbona e che
“splende e riflette sulla bianca / pietra dei gonfi campanili”. Ed è bellissima
a Sintra l’immagine di quelle “case imbuiite da grossi nuvoli / grigi che
guadagnano il cielo / inspessito”, mentre a Foz de Alerho la “brezza morbida
come pianto / cadeva leggera e fitta dal basso / cielo carico di striati
grigi”.
Ma
l’imprevidibilità dell’attimo eterno può venirci incontro anche dall’azione
consueta, anzi consunta, colta all’improvviso quasi volgendo di colpo la testa
dietro un richiamo: “come ladro d’immagini colgo / in un lampo da una finestra /
aperta sull’alba un vecchio / al tavolo di cucina curvo / sopra una tazza
fumante” (Languedocienne). Un attimo, tutto è finito ma quel
piccolo tutto forse ha toccato un frammento di tempo assoluto.
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