LETTURE
ELDA TORRES
      

Lunario dell’anima e del tempo - Vagabondages

 

Milano, Convergenze Ed. & Dite-Pars Edizioni, 2014, pp. 108, € 5,50

    

      


di Elisabetta De Troja

 

 

Poesie, l’opera ultima e nello stesso tempo recuperata agli anni di Elda Torres. In queste liriche la poesia ha teso come un’imboscata a se stessa, un assalto improvviso e violento: è il verso convulso che l’ha aggredita per farle poi ritrovare la strada luminosa e sicura nel Lunario dell’anima e del tempo. Lunario fa balenare il ciclo delle stagioni, la nascita e la morte, le piante che vengono spinte a nuove fioriture, le sublimi contemplazioni di Leopardi e Boccaccio che, in una deliziosa novella, con un ammicco a tutte le fanciulle di tutti i tempi, scrive: “Bocca baciata non perde ventura ma si rinnova come fa la luna”. Intangibilità della virtù quando l’osare è prudente e non va oltre. È un tempo lungo quello di Elda Torres e della sua luna. I versi della raccolta sono composti dal 1985 al 2009; provengono da scelte più vaste, da poesie disperse che hanno poi ritrovato una scansione così fatta: 1) “Lunario dell’anima notturna”; 2) “Lunario del tempo immobile”; 3) “Lunario dell’anima solare”. Ed è bene tenere queste tre fasi, fasi lunari, distinte. Hanno una loro storia individuale, nonostante quella “luna” che sembra fonderle. Ma, in effetti, rispondere alla vita vuol dire non separare né scegliere, ma stare dentro alle cose con i sentimenti accesi, anzi farli ardere, renderli incandescenti e abbaglianti, farli ammalare di luce.

Alfonso Belardinelli giustamente dice che la poesia va difesa anche per un motivo tecnico: per la brevità, l’economicità, l’avarizia e l’intensità che la connotano. Sono regali che ritroviamo in questa raccolta, in questo linguaggio pieno di venature, di grumi di grazia e di sangue: ”io veglio te e tu me nel viaggio notturno” (Plenilunio d’Ottobre); di incanti e di angosce: ”aspre carezze della terra arsa / gialla pungente e spinuta” (Carezze d’estate). E ci si accorge che se Elda Torres è poeta è anche narratrice. La sua poesia è prosa tagliata, scolpita ritmicamente e il taglio è come una resezione fisica che torna puntualmente: ”luce brillante che taglia come / cristallo acuto traversa / a strati le fitte colline”; perché questa scrittura è una zona franca tra lirica, autobiografia, racconto, riflessione, recitazione e su molte di queste scritture poggia un pessimismo scettico, definitivo e senza appello, specialmente nella seconda sezione nata sotto l’influenza della guerra dei Balcani e in cui nuovamente il linguaggio si rattrappisce in cerca di intensità: ”grumi di coatti / nel mondo sparsi / pronti a massacrare / ogni volta nuovo / il solito vecchio antico spettro.”

Ed è presente in queste liriche quello stesso atteggiamento che leggevo in Gide in uno scritto del 1952 (Ainsi soit-il ou Les jeux sont faits): “in presenza di sciagure immani, di disastri moltiplicati in modo abnorme, il sentimento cambia natura; non è più la pietà, bensì l’indignazione a riempirci il cuore e lo spirito; è la rivolta contro l’inammissibile; gli dei, decisamente, hanno fatto fallimento.” La rivolta come risposta ad una sorte oscura e cieca crea in Torres lo stordimento di esser tutti diventati “trottole in bilico sull’orlo del solito abisso”. È fortissimo e disilluso l’orrore di “anni di stragi / realismi di terrore” in una Italia calpestata in cui solo sopravvive “la mediocrità / quando non c’è ferocia”. In questa assolutezza scarna, in questo martellare di versi rotti, si parla di eventi reali, concreti, ripetibili che hanno scelto il frammento, la tessera, l’epigrafe che scava il marmo e che lì si colloca, finalmente paga di aver trovato il “luogo”.

In questo poetare franco e stratificato la lingua può essere colloquiale ma anche colta, familiare ma anche citazionale. Leggendo Nox: ”il giorno riemerge in azione / di disturbo Emily leggo / per pensare in compagnia / a long long sleep / latita invece il sonno dal cuscino / dalle mie palpebre lasse / assetate d’oblio;” è lo stesso desiderio della Dickinson che vorrebbe, anch’essa, un lungo, lungo sonno eccelso, “a famous” di quelli che non accennano all’alba, un sonno che “non sbatte le palpebre e non stira le membra (…) né mai levar lo sguardo della luce del  giorno alla ricerca” (scrive la Dickinson: “A long-long Sleep - A famous Sleep / That makes no show for Morn / By Stretch of Limb – or stir of Lid / An independant One”).

Questa ricerca di un sonno-sogno che non arriva, l’incertezza tra la veglia ed un dormire atteso e forse già profanato dalla luce del giorno (scrive Elda: “il giorno riemerge in azione / di disturbo”), riattraversa il corpo mai quieto come quello di Emily e l’attesa dell’alba che scaccia un torpore non diventato completo abbandono. E il fraseggio è frastagliato e senza respiro. Versi liberi e corti, incisivi, ritmici scheggiati e puntuti che sfasano la normale scansione della sintassi quasi come una sincope musicale.

Nel Lunario del tempo immobile è il tempo che domina, Giano bifronte,  e tutto si brucia  perché il tempo bisognerebbe incatenarlo, chiuderlo in un cristallo; è lui che fa brillare le cose nella loro luce vera e nella struggente fragilità che le connota: noi ci adagiamo nel tempo come Ofelia nell’acqua. Ma vale la pena di sopportarlo? Il prima ed il poi non sono vicinissimi? “Voglio che ci sia la luce e l’oscurità subito dopo (…) ieri non c’è più, non c’è più neppure il domani” diceva Apollinaire in una lettera. È talmente breve il passaggio che il Principe Myskin nell’Idiota ripeteva l’affermazione dell’Apocalisse: “Non esisterà più il tempo”. La seconda parte di questa raccolta, quasi una risposta alle righe precedenti, si apre con un testo dal titolo Tempus sine tempore e vive in un movimento oscillatorio tra tempo ed eternità, tra la vita che fugge e gli orizzonti che cambiano; per noi “qui umani e umanoidi” ci sono solo delle tregue, quei “fragili equilibri penduli / sbilenchi” che rappresentano l’illusione di una armonia che non c’è. E il mondo troppo spesso si fa deserto perché la vita si prosciuga e noi viviamo in una terra di nessuno dove c’è solo indifferenza: è quando l’innocente all’improvviso può essere colpito a tradimento perché tutto è ottimismo smisurato; scrive la Torres: “tristi avari e aridi furbi / accaparrano intanto / bear my contempt of oppressorsor”. Il segno poetico allora diventa un colpo di bisturi, un ferire la ferita, la rivelazione per eccellenza. Heidegger diceva che si fugge, per comodità, dall’esserCI: essere lì in quel luogo, in quelle responsabilità, essere nel mondo. I poeti, all’incontrario, sono sempre in situazione: dicono il taciuto, dischiudono l’avventura della vita e ci sottraggono al rinvio abituale dei pensieri e delle parole.

Quando Emily scrive “The Brain - is Wider than the sky - for put them side by side” (è più vasto del cielo / il cervello / prova a metterli accanto) è come se ci rivelasse  zone infinite in un confronto imprevisto, in un sobbalzo di verità mai sfiorate, segreti che si dischiudono quasi per caso. I poeti dunque ci sono. Perché,  (ancora Heidegger), “i poeti sono i mortali che seguono le tracce degli dei fuggiti, rimangono su queste tracce e così ritrovano la direzione del divino per i loro fratelli, per gli uomini”. Perché è nel linguaggio e soprattutto nella poesia la dimora dell’essere: i pensatori ed i poeti sono i custodi di questo luogo sacro. Nello stesso tempo sono coloro che traggono fuori, alla luce, le cose. E quanta luce, vera luce, è presente nel Lunario dell’anima solare; il succedersi dei mesi rammenta le sculture dei portali delle cattedrali romaniche in cui si susseguono luoghi, circostanze, azioni: la caccia con il falcone, la mietitura, l’uva nei tini; quadri circoscritti,  immagini di vita in cui la natura avvolge l’uomo e ne è corrisposta. Anche nella sua poesia Elda Torres capta momenti epifanici, i doni di luce del tempo e dei giorni. Cose, fiori, strade si bagnano nella luce fresca del plein-air. Attilio Bertolucci invocava “un po’ di luce vera” come  questa: “giù a occidente il mare brilla / scintilla al meriggio limpido / e gelido di primo gennaio” (Hieme) mentre le stagioni si rincorrono: “tiepida la luce è annuncio / di precoce primavera” (Primo-vere).

I Vagabondages, l’ultima parte della raccolta, ci portano di città in città, di continente in continente, come istanti fatali dell’esistenza, quando in un  baleno è possibile intravedere una realtà diversa o una diversa disposizione della realtà, per afferrare un senso, un rapporto imprevisto, inaspettato, come la luce che gioca a Lisbona e che “splende e riflette sulla bianca / pietra dei gonfi campanili”. Ed è bellissima a Sintra l’immagine di quelle “case imbuiite da grossi nuvoli / grigi che guadagnano il cielo / inspessito”, mentre a Foz de Alerho la “brezza morbida come pianto / cadeva leggera e fitta dal basso / cielo carico di striati grigi”.

Ma l’imprevidibilità dell’attimo eterno può venirci incontro anche dall’azione consueta, anzi consunta, colta all’improvviso quasi volgendo di colpo la testa dietro un richiamo: “come ladro d’immagini colgo / in un lampo da una finestra / aperta sull’alba un vecchio / al tavolo di cucina curvo / sopra una tazza fumante” (Languedocienne). Un attimo, tutto è finito ma quel piccolo tutto forse ha toccato un frammento di tempo assoluto.     

                                                                                 




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