LETTURE
CESARE GREPPI
      

Chronicon

 

Torino, Coup d’idée Edizioni d’Arte di Enrica Dorna, 2014, pp. 62, € 14,00

 

(Postfazione di Giancarlo Pontiggia,

progetto di copertina di Giulio Paolini, 

grafica di Franco Mello)

    

      


di Ugo Piscopo

 

Greppi: poesia in forma di velature del fiore di cardo

Testimonianze e inquisizioni di transiti

 

Cesare Greppi è una specie di anacoreta della poesia. Uso quest’espressione su sua dichiarata accettazione: nella composizione terminale della sua ultima raccolta di liriche, ‒ che poi dovrebbe essere non la terminale, ma il vero punto di partenza per una lettura à rebours della silloge, cioè della poematicità della silloge, (e non solo di questa silloge) ‒, in dialogo ravvicinato col suo alter ego, lo consegna appunto all’icona dell’anacoreta. E come anacoreta qui, subito dopo, è registrato il cielo stesso, quello delle origini, che per transfert si è travasato e si è materializzato in questo “altro”, che, poi, è lui allo specchio.

Ma, se è anacoreta, e lo è, Greppi si è destinato da sempre a un programmatico ed esemplare misticismo laico, modernamente secolarizzato: la sua religione non ha fondamento ontologico, è in un panismo che avvolge reticolarmente e intride capillarmente uomini e cose, notturnità e diurnità, attimi fuggenti ed epoche, sogno e realtà. è cosa sua, questo panismo numinoso, cosa nostra anche e, insieme, res nullius, inafferrabile, impalpabile, presente nell’assenza, assente nella presenza.

In fondo, la vita stessa di Greppi si costituisce sull’opzione del romitaggio ideale, un po’ secondo la regola di San Benedetto dell’ora et labora. Tutto il suo tempo, se lo è speso in una laboriosità intensa, appassionata e vigilatissima, negandosi ai rumori, alla teatralizzazione degli eventi, al presenzialismo, all’occupazione della piazza, così di moda tra intellettuali e artisti ispirati alla modernità.

Ricordo quando, verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso,  facemmo conoscenza a Viareggio, in occasione di un corso di aggiornamento dei docenti di lettere ai licei: mi colpì con la sua compostezza, con la sua sobrietà, con le sue osservazioni, in fatto di letteratura, riguardanti la sapienzialità dell’uso dell’artificio in fatto di scrittura. Insieme anche con un altro coetaneo, Angelo Marchese, scomparso poi prematuramente, che guardava con limpidezza e normatività cartesiane alle geometrie e ai processi chimici della parola, costituimmo un nostro piccolo cenacolo. In tale ambito, tirò fuori tre-quattro sue composizioni e ce le lesse, senza enfasi, con estrema compostezza, come l’allievo di un college britannico, ma anche con una partecipazione ideale, che mi fece pensare ad uno vocato a parte obiecti all’ascesi. E quando, più tardi, vidi che si era confrontato in una traduzione raffinata con San Juan de la Cruz, mi dissi che non avevo sbagliato, che in Greppi c’era il mistico.

E in piena consonanza con tale rigorosa disciplina interiore è quest’ultima raccolta di squisitissimi versi, che poggiano puntualmente su raffinate e persuasive  textures testuali, per dirla con Genette e con quelli della Nouvelle Critique. A partire dal titolo, rigoroso, perentorio, Chronicon.

Chronicon è termine di etimo greco volgarizzato latinamente e diramato nella cultura medievale, tanto da diventare connotativo dell’atteggiamento narratologico ed ermeneutico del Medioevo, a cominciare dagli inizi. Esso segnò un netto spartiacque rispetto alla storiografia classica, egemonizzata dal modello erodoteo, venutosi perfezionando nel corso del tempo, che fondava il racconto della storia non più sulla raccolta dei dettagli, come avveniva presso i logografi, ma sul filtro dell’intelligenza e della responsabilità di chi scriveva. Tacito, ad esempio, scrive gli Annales, non per un tributo al feticcio del susseguirsi degli eventi, ma come un atto di accusa nei confronti di chi ha ucciso il sistema repubblicano, per instaurare sulla fine di quello il potere di una corte brutalmente autoreferenziale. Ma dal IV-V sec. d. C. in poi, avviene una netta inversione di tendenza, che si riconosce nel “chronicon”, nella “cronica”, cioè in un modo di trasmettere i ricordi degli avvenimenti filtrandoli attraverso la testimonianza oculare, esponendoli in tutta umiltà mentale e con cura artigianale del dettaglio.

È, questo, un nuovo atteggiamento mentale ed è significativo che lo alimentino prevalentemente, se non esclusivamente, individui votati alla vita conventuale, al silenzio, alla discrezione, all’impegno di salvare la cultura dalla violenza e dalla barbarie. Solo con l’Umanesimo, si recupererà e si rilancerà il mito della “storia”, si volterà pagina e la “cronaca” sarà sempre più affidata agli archivi, insieme con gli epistolari, i taccuini e dintorni.

Greppi, che è un raffinatissimo intellettuale, educato a lavorare col bulino secondo la norma del togliere e non dell’aggiungere, sceglie non a caso quel titolo per la sua raccolta, per sottolineare che la sua attenzione e la sua sensibilità non amano le grandi narrazioni, la grande storia, quella dei vincitori, diceva Nietzsche. Egli è per un’altra storia, nel senso indicato da Gargani. È per l’ascolto e lo scandaglio di ciò che sfugge all’osservazione comune, fino al dubbio e alla sospensione della ragione di fronte a fenomeni imprendibili, che la ragione, questa nostra ragione, non può indagare, per non schiacciarli su piani cogenti di protocollazioni e registrazioni del convenzionale. Per dirla con un folgorante aforisma di Bergamin, è, questo, il metodo migliore per salvare la ragione, perdendola cioè e scommettendo su un’altra ragione, che comprenda anche le sue sconfitte, ma che non sia umanamente assoggettabile ad appropriazioni e a manipolazioni, che sia intercettabile sì, ma unicamente sul filo del sospetto di altri spazi e di altre situazioni, come quell’“altro mondo”, a cui il poeta accenna in questa poesia:

 

“Cinque volte mille passi, / hai trovato il grande campo / mietuto, è quasi inverno, / è quasi notte, le stoppie / nere macerate, le macchie / d’acqua con tracce di luce. / Il corpo risponde, non gridi, / non senti il respiro dell’altro / mondo che non è lì. / è questo che hai fatto?” (p. 47).

 

Come si vede dal lessico, dall’assolutezza della grammatica, dalle misure metriche, l’espressione è ridotta all’essenziale, direi (conventualmente) alla castigatezza. Il materiale lessicale appartiene all’uso quotidiano: “mille passi”, “campo mietuto”, “quasi inverno” “le stoppie”, “macchie d’acqua”, “tracce di luce”, etc. La punteggiatura è quella canonica. La sintassi è tutta disposta sulla coordinazione delle proposizioni. È la mimesi di uno che vede e riferisce da testimone oculare su particolari che sono proprio quelli e non altri. Eppure tutta questa coerenza, questa adesione all’esistente, questo comportamento testimoniale slittano inavvertitamente su un clinamen che induce verso la lontananza, la perdita del centro, l’ascolto del richiamo di un’altra condizione. Ogni parola, ogni cosa, ogni dettaglio, qui (come altrove in Greppi) si rivelano nient’altro che involucri simbolici di richiami in transito e in divenire, che uno può intravedere appena in filigrana come le velature di un fiore di cardo e che, in certo senso, potremmo dire metafisici. Iscrivibili all’interno di una metafisica come quella proposta alla cultura e al gusto del Novecento dalla grande poesia spagnola (Lorca, Jimenez, Guillén, Diego, sì, soprattutto Gerardo Diego), con cui Greppi è venuto dialogando da tutta una vita, per sempre. Ed è stupefacente che il poeta vi arrivi partendo dalla linea lombarda, come quella tutta cose e tutta norme di un Giovanni Raboni, per artifici e distacchi e svuotamenti, a favore di un Medesimo che si espone al mondo, per cenni e allusioni e attraverso l’incontro con l’altro disponibile a rovesciarsi nell’opposto.

 




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