|
di Ugo Piscopo
Greppi:
poesia in forma di velature del fiore di cardo
Testimonianze
e inquisizioni di transiti
Cesare Greppi è
una specie di anacoreta della poesia. Uso quest’espressione su sua dichiarata
accettazione: nella composizione terminale della sua ultima raccolta di liriche,
‒ che poi dovrebbe essere non la terminale, ma il vero punto di partenza
per una lettura à rebours della silloge, cioè della poematicità della silloge, (e
non solo di questa silloge) ‒, in dialogo ravvicinato col suo alter ego,
lo consegna appunto all’icona dell’anacoreta. E come anacoreta qui, subito
dopo, è registrato il cielo stesso, quello delle origini, che per transfert si
è travasato e si è materializzato in questo “altro”, che, poi, è lui allo
specchio.
Ma, se è
anacoreta, e lo è, Greppi si è destinato da sempre a un programmatico ed
esemplare misticismo laico, modernamente secolarizzato: la sua religione non ha
fondamento ontologico, è in un panismo che avvolge reticolarmente e intride
capillarmente uomini e cose, notturnità e diurnità, attimi fuggenti ed epoche,
sogno e realtà. è cosa sua,
questo panismo numinoso, cosa nostra anche e, insieme, res nullius, inafferrabile, impalpabile, presente nell’assenza,
assente nella presenza.
In fondo, la vita
stessa di Greppi si costituisce sull’opzione del romitaggio ideale, un po’
secondo la regola di San Benedetto dell’ora
et labora. Tutto il suo tempo, se lo è speso in una laboriosità intensa,
appassionata e vigilatissima, negandosi ai rumori, alla teatralizzazione degli
eventi, al presenzialismo, all’occupazione della piazza, così di moda tra
intellettuali e artisti ispirati alla modernità.
Ricordo quando,
verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso, facemmo conoscenza a Viareggio, in occasione
di un corso di aggiornamento dei docenti di lettere ai licei: mi colpì con la
sua compostezza, con la sua sobrietà, con le sue osservazioni, in fatto di
letteratura, riguardanti la sapienzialità dell’uso dell’artificio in fatto di
scrittura. Insieme anche con un altro coetaneo, Angelo Marchese, scomparso poi
prematuramente, che guardava con limpidezza e normatività cartesiane alle
geometrie e ai processi chimici della parola, costituimmo un nostro piccolo
cenacolo. In tale ambito, tirò fuori tre-quattro sue composizioni e ce le
lesse, senza enfasi, con estrema compostezza, come l’allievo di un college
britannico, ma anche con una partecipazione ideale, che mi fece pensare ad uno
vocato a parte obiecti all’ascesi. E
quando, più tardi, vidi che si era confrontato in una traduzione raffinata con
San Juan de la Cruz,
mi dissi che non avevo sbagliato, che in Greppi c’era il mistico.
E in piena consonanza
con tale rigorosa disciplina interiore è quest’ultima raccolta di squisitissimi
versi, che poggiano puntualmente su raffinate e persuasive textures
testuali, per dirla con Genette e con quelli della Nouvelle Critique. A partire dal titolo, rigoroso, perentorio, Chronicon.
Chronicon è termine di etimo greco
volgarizzato latinamente e diramato nella cultura medievale, tanto da diventare
connotativo dell’atteggiamento narratologico ed ermeneutico del Medioevo, a
cominciare dagli inizi. Esso segnò un netto spartiacque rispetto alla
storiografia classica, egemonizzata dal modello erodoteo, venutosi
perfezionando nel corso del tempo, che fondava il racconto della storia non più
sulla raccolta dei dettagli, come avveniva presso i logografi, ma sul filtro
dell’intelligenza e della responsabilità di chi scriveva. Tacito, ad esempio,
scrive gli Annales, non per un
tributo al feticcio del susseguirsi degli eventi, ma come un atto di accusa nei
confronti di chi ha ucciso il sistema repubblicano, per instaurare sulla fine
di quello il potere di una corte brutalmente autoreferenziale. Ma dal IV-V sec.
d. C. in poi, avviene una netta inversione di tendenza, che si riconosce nel “chronicon”,
nella “cronica”, cioè in un modo di trasmettere i ricordi degli avvenimenti filtrandoli
attraverso la testimonianza oculare, esponendoli in tutta umiltà mentale e con
cura artigianale del dettaglio.
È, questo, un
nuovo atteggiamento mentale ed è significativo che lo alimentino
prevalentemente, se non esclusivamente, individui votati alla vita conventuale,
al silenzio, alla discrezione, all’impegno di salvare la cultura dalla violenza
e dalla barbarie. Solo con l’Umanesimo, si recupererà e si rilancerà il mito
della “storia”, si volterà pagina e la “cronaca” sarà sempre più affidata agli
archivi, insieme con gli epistolari, i taccuini e dintorni.
Greppi, che è un
raffinatissimo intellettuale, educato a lavorare col bulino secondo la norma
del togliere e non dell’aggiungere, sceglie non a caso quel titolo per la sua
raccolta, per sottolineare che la sua attenzione e la sua sensibilità non amano
le grandi narrazioni, la grande storia, quella dei vincitori, diceva Nietzsche.
Egli è per un’altra storia, nel senso indicato da Gargani. È per l’ascolto e lo
scandaglio di ciò che sfugge all’osservazione comune, fino al dubbio e alla
sospensione della ragione di fronte a fenomeni imprendibili, che la ragione,
questa nostra ragione, non può indagare, per non schiacciarli su piani cogenti
di protocollazioni e registrazioni del convenzionale. Per dirla con un
folgorante aforisma di Bergamin, è, questo, il metodo migliore per salvare la
ragione, perdendola cioè e scommettendo su un’altra ragione, che comprenda
anche le sue sconfitte, ma che non sia umanamente assoggettabile ad
appropriazioni e a manipolazioni, che sia intercettabile sì, ma unicamente sul
filo del sospetto di altri spazi e di altre situazioni, come quell’“altro
mondo”, a cui il poeta accenna in questa poesia:
“Cinque volte mille
passi, / hai trovato il grande campo / mietuto, è quasi inverno, / è quasi
notte, le stoppie / nere macerate, le macchie / d’acqua con tracce di luce. /
Il corpo risponde, non gridi, / non senti il respiro dell’altro / mondo che non
è lì. / è questo che hai fatto?”
(p. 47).
Come si vede dal
lessico, dall’assolutezza della grammatica, dalle misure metriche,
l’espressione è ridotta all’essenziale, direi (conventualmente) alla
castigatezza. Il materiale lessicale appartiene all’uso quotidiano: “mille
passi”, “campo mietuto”, “quasi inverno” “le stoppie”, “macchie d’acqua”,
“tracce di luce”, etc. La punteggiatura è quella canonica. La sintassi è tutta
disposta sulla coordinazione delle proposizioni. È la mimesi di uno che vede e
riferisce da testimone oculare su particolari che sono proprio quelli e non
altri. Eppure tutta questa coerenza, questa adesione all’esistente, questo
comportamento testimoniale slittano inavvertitamente su un clinamen che induce verso la lontananza, la perdita del centro,
l’ascolto del richiamo di un’altra condizione. Ogni parola, ogni cosa, ogni
dettaglio, qui (come altrove in Greppi) si rivelano nient’altro che involucri
simbolici di richiami in transito e in divenire, che uno può intravedere appena
in filigrana come le velature di un fiore di cardo e che, in certo senso,
potremmo dire metafisici. Iscrivibili all’interno di una metafisica come quella
proposta alla cultura e al gusto del Novecento dalla grande poesia spagnola
(Lorca, Jimenez, Guillén, Diego, sì, soprattutto Gerardo Diego), con cui Greppi
è venuto dialogando da tutta una vita, per sempre. Ed è stupefacente che il
poeta vi arrivi partendo dalla linea lombarda, come quella tutta cose e tutta
norme di un Giovanni Raboni, per artifici e distacchi e svuotamenti, a favore
di un Medesimo che si espone al mondo, per cenni e allusioni e attraverso
l’incontro con l’altro disponibile a rovesciarsi nell’opposto.
Scarica in formato pdf
|
|