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di
Fernando Maramai
Non ha distintivi
letterari all’occhiello Ignazio Apolloni, non sta in categorie, si tiene alla
larga da ogni opportunismo di scrittura e, sul piano stilistico, da ogni
restrizione di genere. Maestro dell’interlinguistico e del metalinguaggio,
affabulatore e virtuoso del racconto per frammenti, ha una visione
spiritualistica del mondo, e anche se ama mostrarsi come prosatore la sua lente
è la poesia, quella poesia che, come dice Bontempelli nell’Avventura novecentista «è tutta favola. Per questo è tutta verità».
E attraverso la poesia Apolloni approda ad una personale Weltanschauung che si esprime
nella terra di confine tra cielo e terra, tra realtà e fantasia. Nelle sue
creazioni eteroclite anche gli accidenti della vita appaiono piccole cose viste
da lontano, perché la poesia – intesa come atto filosofico – è capace di
riassorbirli e trasformarli in una transizione variopinta. La poesia, nel suo
caso, è trasformazione, asciuga, toglie le scorie e dà nitore.
Malgrado una scrittura talvolta indicata dalla
critica come autoreferenziale, nei suoi labirinti letterari la stessa autorità
dell’Io sembra farsi da parte, esautorata dal gioco della narrazione e da un
dipanarsi del racconto che diventa sufficiente a se stesso, come può essere
autosufficiente una favola popolare o il racconto di un mito dell’estremo
oriente. Certo, quell’Io è pronto a ricomporsi e a riemergere dalla
destrutturazione per rivendicare il suo esserci attraverso digressioni e
“interventi di sospensione”, ma lo fa sempre in maniera discreta e divertita,
come a volersi semplicemente affacciare su quanto è destinato al lettore e
ricordargli che non può esserci prospettiva univoca sul testo e che ogni
storia, così come la realtà, va sottoposta a ipotesi disparate. L’Io autorale,
sentito come ingombrante costrizione, prigionia per l’opera che da esso
dipende, si fa addirittura da parte in Da Parigi all’Isola d’Elba,
raccolta di lettere cartoline e fotografie che porta la firma di Apolloni, ma
la cui paternità (almeno per quel che riguarda le corrispondenze) appartiene ad
una donna realmente esistita: la Gilberte cui è dedicato l’omonimo romanzo edito
nel 1994 per le Edizioni Novecento di Palermo.
Lettere autentiche, dunque, a differenza delle
narrazioni epistolari di L’amour
ne passe pas. 52 lettere d’amore (2005) e di Lettres d’amour à moi même (2007), dedicate
idealmente a donne lontane e irraggiungibili. Rispetto a queste precedenti
prove la simulazione
letteraria viene meno, liberando una storia privata, sempre docile anche quando
più intima, con le intermittenze del cuore e un fluire frammentato, pur nel
rispetto del continuum temporale; ma ancora una volta, pur nella
rinuncia al travestimento, Apolloni gioca a nascondersi: non ci sono le sue
risposte, affidate così all’immaginazione del lettore, spettatore come di un
dialogo mancato e posto a riempirne i vuoti. Il motivo della propria assenza lo
spiega lo stesso Apolloni nell’unica missiva da lui firmata, indirizzata non ad
una donna, ma a Marcel Proust. È una lettera che si muove su due crinali,
questa di Apolloni, da un lato è dichiarazione di poetica e informa il lettore,
dall’altro è – di fronte all’ennesima assenza del referente dichiarato –
soliloquio dal sapore quasi beckettiano che anticipa il più lungo carteggio a
senso unico di Gilberte. Dopo aver confessato al Maestro della Recherche
di aver apprezzato le minuziose descrizioni dei luoghi in cui ha ambientato le
sue memorie, descritti così bene da farlo innamorare, Apolloni prende le
distanze e dichiara che in merito al racconto amoroso proprio non se la sente
di consentire sdilinquimenti: «che dire poi – scrive ironicamente il mittente –
delle tue melensaggini per una giovane Albertine che ti ha lasciato e tu cerchi
di scoprirne le tresche facendola spiare dal Saint-Loup. Ti pare esatto, adatto
al tuo rango, lasciarsi prendere dalla gelosia, sdilinquirsi come non ci
fossero state altre donne […] cui affidare i tuoi sguardi pieni di libidine? Suvvia,
dammi atto che meglio sarebbe stato fare il nottambulo, attendere che sorga la
luna e faccia intravedere al largo un battello, mettersi a nuotare per
raggiungerlo, salirci sopra e lasciare che le maree ti portino in Cornovaglia.
[…] Ammetti che non è vero niente ciò che scrivi del tempo perduto, tutto
inventato. Che meno ancora è vero ciò che si legge nel tempo ritrovato. Che a
te non importava niente né dell’uno né dell’altro. Ma va là, se quel mondo ti
ha dato fama e successo – ed altrettanti ne ha dati a Cabourg. Infatti perché
avrei preso a noleggio una torpedo per quindi fare una entrata trionfale a
bordo di un calesse, anzi un cocchio con relativo cocchiere?» (p. 34). È più
interessato all’avventura, Apolloni, che al ricordo. E lo rivela anche
Gilberte, scrivendogli da Parigi in data 24 marzo 1968, nella lettera che – non
a caso – è la prima ad essere riprodotta: «Voilà bientôt quatre ans que j’en
attends e que je m’inquiete beaucoup à ton sujet. Ta dernière lettre remonte au
12 mai 1964. […] Pourquoi donc cela, pourquoi plus de nouvelles depuis?». Il
rapporto con Gilberte è iniziato molto prima all’Isola d’Elba, ma Apolloni
sembra scomparso quasi subito: è in Italia? o è in America? Queste le ipotesi
di Gilberte.
Altre saranno le assenze di Giany (come la
donna chiama affettuosamente il suo destinatario), che spesso non scrive o
scrive in ritardo, oppure quando Gilberte in viaggio in Sicilia non riesce ad
incontrarlo. Molto dunque è nelle lettere, ma altrettanto e forse più nei
silenzi, nelle interruzioni, nel non detto, così come quando Gilberte annuncia
a Giany di essere prossima a rivelargli un segreto: anche se il lettore sente
di poter accedere alla riservatezza della donna non ci sarà mai dichiarazione
esplicita e molto resterà tra le righe, come nei vuoti della corrispondenza e
nelle assenze di Apolloni.
Parallelo al tempo entro il quale si imperlano
le lettere, scorre il ricco repertorio iconografico di cartoline e fotografie. Insieme
alla lettura si apre così una ventaglio geografico compreso tra Piombino,
l’arcipelago toscano, Parigi, la Sicilia; fatto di luoghi che, oltre a
documentare gli anni di una lunga amicizia amorosa, disegnano una vera e
propria cartografia dell’anima. È nelle istantanee che va cercata l’avventura
di Giany, un’avventura che inizia con gli amici nell’anno 1956 alla volta
dell’Isola d’Elba, là dove era stato confinato Napoleone, e dove, già in nave,
il caso porta il giovane marxista in pectore (ma più che altro adepto
all’illuminismo di Rousseau) all’incontro con Gilberte. Seguiranno altri
viaggi, altri rendez-vous, altri messaggi, ma la natura di Giany è quella del
globe-trotter affetto da dromomania, la si vede nelle istantanee che lo
ritraggono in posa, sornione e divertito, così diversa dalle espressioni
timide, riservate, quasi dolenti di Gilberte, che sembrano presagire la sua
scomparsa avvenuta nel 2001. «40 jours… sans lettre!!!» recita laconicamente l’ultima
cartolina (p. 291); «C’est la vie, Gilberte» vorrebbe risponderle il lettore,
prima dell’ultimo abbraccio affettuoso di commiato. «Adesso che non c’è più – scrive
Apolloni – sento il bisogno di pubblicare le sue lettere a testimonianza di un
affetto che non ci ha mai lasciato. Vorrei fosse la prova che il sentimento più
nobile può estinguersi solo se è stato in qualche modo maculato da un atto di
barbarie» (p. 9).
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