di Simona Cigliana
Nel 1940, Bernhard Payr, direttore dell’Amt Schrifttum, iniziò, su
ordine dell’Office Rosenberg, organo preposto alla propaganda nei territori
occupati, un imponente e sistematico lavoro di schedatura diretto a passare al
vaglio dell’ideologia nazionalsocialista tutta la letteratura francese. Il nazionalsocialismo,
venuto a «liberare la Francia dai suoi parassiti» e a «rivelarle il comune
destino che la unisce alla Germania», si apprestava ad epurare non solo la
produzione contemporanea e il milieu intellettuale ma anche alcuni secoli di
illustre tradizione. Payr, in linea con le convinzioni dei suoi capi,
considerava la Francia come «la feccia
dell’Europa», «un bubbone purulento eternamente in suppurazione», la cui
letteratura esalava «puzza di ebraismo, di massoneria, di gaullismo». [1]
Si trattava ora di verificare se essa, liberata dalle perniciose influenze del
giudeobolscevismo e delle plutocrazie anglosassoni, potesse esprimere forze vitali capaci di
collaborare al progetto della «Nuova Europa» hitleriana.
L’Amt
Schrifttum si adoperò dunque per
riscrivere la storia letteraria, commissionando la redazione di antologie scolastiche
“emendate” e scoraggiando la riproposta di classici di tendenze libertarie.
Cercò inoltre di imporre “verità”, modelli, idoli allineati con l’ideologia nazista e di
coinvolgere gli scrittori contemporanei in una azione propagandistica di vasto
respiro; sovvenzionò la pubblicazione e
la traduzione degli autori graditi e provvide a mettere all’indice i sospetti.
Nelle liste di proscrizione di Payr le opinioni politiche contavano
relativamente: vi figurano Georges Simenon e Pierre Loti; scrittori comunisti,
come Paul Nizan e Louis Aragon, Paul Éluard e Jean-Paul Sartre; ma anche
cattolici come François Mauriac e Paul
Claudel; pacifisti come Romain Rolland e Jean Guéhenno; nazionalisti, monarchici, antiliberali come Charles
Maurras, fondatore della Action
Française, come Jacques Bainville e Léon Daudet; nonché un gran numero di ebrei, da Pierre Bloch a Julien
Benda, da Joseph Kessel a André Maurois.
Tra i raccomandati per la pubblicazione e la diffusione, il primo fra
tutti è, ovviamente, il Lucien Rebatet di Les
Décombres, che Payr giudicava «il più fascista che sia mai apparso in
Francia», ma vi si trovano anche convertiti come Alphonse de Chateaubriant o
Jacques Doriot; mentre un posto d’onore è riservato a Drieu La Rochelle e a
Robert Brasillach, quest’ultimo decisamente, ardentemente e sinceramente
schierato, sin dalla prima ora, in
favore delle «grandiose» idee del nazionalsocialismo.
Proprio
Brasillach fu uno dei più entusiasti recensori delle Bagatelles pour un massacre, il pamphlet
antisemita di Louis-Ferdinand Céline, che l’editore Denoël aveva pubblicato nel dicembre del ’37.[2] Brasillach ne scrisse nel marzo del ’38, poco
prima che fosse ritirato dalla vendita a seguito del decreto Marchandeau,[3] salutandolo
come un capolavoro, che esprimeva al meglio i sentimenti della nazione:
«Non è possibile che un francese nato francese non legga almeno qualche pagina
con un senso di sollievo».[4] Né era il solo ad apprezzare il libro: riproposto nella Francia di Vichy, Bagatelles, cardine della “trilogia” celiniana
contro la razza ebraica, divenne
un grande successo editoriale, uno dei più venduti durante l’occupazione
(si parla di circa 75.000 copie in pochi anni).
Ciononostante,
il suo autore non compare nell’elenco degli scrittori graditi al regime:
Céline è un personaggio troppo scomodo,
sul quale anche Payr e l’Amt Schrifttum dubitano di poter esercitare il
controllo. Disturba la misura eccessiva della sua prosa, la deformazione
grottesca delle sue argomentazioni, perfino la visceralità delle sue
invettive, le cui radici si intuiscono
essere ben a monte di ogni convinzione razionale: tali che, scriverà Brasillach
nel ’39, in occasione della pubblicazione de L’école des cadavres: «è evidente che si avrebbe qualche difficoltà
a voler discutere sul serio della questione ebraica a partire da simili
opinioni». [5]
Céline,
infatti, in un delirante accumulo di accuse e risentimenti, finisce per mostrare
un’umanità interamente contaminata dal
giudaismo, «vittima felice [...] paralizzata e riconoscente», gregge di «coglioni abbrutiti, cornuti,
rovinati, fanatizzati da quelle merde».[6]
Secondo lui, «gli ariani, soprattutto i francesi, non esistono più». I critici,
Poincaré, Victor Serge, Chaplin, Gide, Maupassant, la Camera dei Lords,
Montaigne, Einstein, la duchessa di Windsor, il Negus, gli azionisti di Wall
Street, Bergson, i membri della Società delle Nazioni, Stendhal, Proust, i
russi, i fabbricanti di alcool, i funzionari della City londinese, Madame
Curie, i pederasti, la redazione di «Paris-Soir», la Paramount sono tutti ebrei
o sostenitori della strisciante congiura ebraica finalizzata all’annichilimento
degli ariani.
La
sovrabbondanza è tale che anche a distanza di decenni la stessa critica, in
imbarazzo di fronte alla natura eccessiva delle esternazioni di Céline, si è
mostrata spesso incline a minimizzare la portata del suo odio antisemita,
considerandolo una finzione provocatoria; o il portato di una personalità
sdoppiata e schizofrenica; o un mero attributo dell’io narrante e letterario; e addirittura, in qualche caso, ha finito per
assolverlo come una enorme parodia – una
sorta di «provocazione anarchica» da parte di chi, senza crederci davvero,
«aveva scelto l’antisemitismo per sfuggire all’ufficialità» –, insistendo sulla
«natura non letterale, essenzialmente metaforica e violentemente iperbolica,
dell’antisemitismo» celiniano.[7]
Convinto
che non si possa e non si debba confondere il piano della moralità con quello
della riuscita artistica, Piero Sanavio, poco dopo aver pubblicato un fortunato
e penetrante saggio (Virtù dell’odio,
Louis-Ferdinand Céline, Rimini, Raffaelli Editore, 2009), e già intrinseco
dell’autore francese dal 1965, è tornato ad interrogarsi su di lui con una
nuova monografia, che si prospetta come un viaggio, o meglio: come
un’allegorica catabasi entro l’opera e la psicologia celiniana. Le ricerche e i
saggi sugli scrittori “maledetti” del Novecento – su Pound, su Gombrwicz – e la
grande esperienza di antropologo, maturata anche nelle vesti di giornalista e
di diplomatico ai quattro angoli del mondo, hanno ben allenato Sanavio a
scrutare nelle pieghe nascoste dell’anima umana. È perciò con scaltriti
strumenti che egli indaga sul “caso Céline”, mosso anche da una sorta di mal
dissimulata indignazione per le mezze verità, le velate giustificazioni, gli
implausibili alibi e le false scappatoie che critici e biografi hanno imbastito
attorno all’altare del grande scrittore. Ancora
su Céline (Rimini, Raffaelli Editore, 2012, pp. 157, € 18,00) sembra voler
rimettere a posto i termini di una sempre mal posta questione e, nello stesso
tempo, voler chiudere i conti con una ossessione personale.
Sanavio
non si capacita che ancor oggi gli esegeti si trovino in imbarazzo
nell’attribuire a Céline le sue responsabilità storiche ed umane: quasi che
l’eccellenza di questo autore «fondamentale per chi voglia capire il secolo
trascorso», non possa tollerare il peso dell’abominio, di una tara ideologico-emotiva
che, se da una parte costituisce una aberrazione etica, dall’altra si rivela
motore e tinta qualitativa della sua scrittura. A suo ben fondato parere, «il
razzismo antiebraico di Céline, filiazione diretta del suo
suprematismo ariano, è certamente argomento ineludibile per chiunque si avvicini
alla sua opera e appare quanto mai problematico separarne la scrittura dalla
ideologia».[8]
Ma
cosa spinge Sanavio a tornare su un argomento già affrontato e disaminato con tanta ricchezza
di fonti e profondità di analisi? Lo
scrupolo – egli dice – di non aver insistito «abbastanza
sulle basi ideologiche, e le contiguità politiche, del razzismo dello
scrittore», quasi considerando scontate alcune evidenze storiche e biografiche.
Non condividiamo questi dubbi – sembrandoci Virtù
dell’odio significativo
anche su questo piano. E tuttavia, Ancora
su Céline riesce a scavare ulteriormente
nel magma di finzioni e proiezioni, tra autobiografismo e miserabilismo, di cui
si nutre l’alter ego letterario di Céline, completando sullo sfondo il ritratto
– le sembianze contraffatte – di un paese – la Francia – largamente pervaso dal
sospetto e dall’odio antiebraico ben prima dell’arrivo delle armate tedesche:
non bastasse a riprova il summenzionato decreto Marchandeau, sarà istruttivo
rileggere qualcuno degli articoli fioriti attorno alle polemiche riguardanti
personaggi pubblici quali Alfred Dreyfus o Léon Blum; oppure, aggiungiamo noi,
la cronaca delle violente manifestazioni antisemite organizzate nel febbraio
1934, in seguito alla deflagrazione dell’affaire
Stavisky: l’avventuriero, speculatore e bancarottiere ebreo che, grazie ai
suoi appoggi politici, aveva causato la rovina economica di centinaia di
francesi – e le cui vicende diedero la stura ad una campagna stampa imbastita
sui peggiori topoi antiebraici.
L’antisemitismo
appartiene inoltre ”costituzionalmente” al contesto famigliare e sociale in cui
Destouches era cresciuto: quello dei piccoli commercianti parigini, messi in
difficoltà dalla agguerrita concorrenza dei negozianti ebrei e dalla politica
delle banche (spesso anch’esse in mano a capitale ebraico). Riflessioni e
commenti riconducibili a tale retroterra sono attestati dall’epistolario sin
dal 1916, dove compaiono frammisti ad osservazioni di ordine quotidiano, come
facenti parte di un bagaglio personale acquisito. Questo “figlio di bottegai”
era convinto in fondo, come il padre, che «chi ha fatto di più per i piccoli
commercianti... è stato Hitler», molto più degli esponenti della sinistra.
La
personalità dello scrittore era inoltre segnata da dolorose esperienze.
Scrutando nella sua intimità, Sanavio si interroga sui difficili rapporti con
una madre succube e un padre violento, sulle ferite emotive del Céline
fanciullo e adolescente, sul suo amaro vissuto, documentando quanto, sotto al
cinismo di certe sue considerazioni adulte, vi sia una zona ulcerata, tra
sofferenza e angoscia.
Gli
indizi di disagio dimostrano in controluce che l’arroganza, la truculenza, la
demonizzazione dell’ebreo non erano in fondo che «patetiche maschere per
fragilità psicologiche e insicurezze sociali».[9]
Solo la solidarietà di classe – o forse il senso di una raggiunta, relativa,
superiorità – riuscivano a far emergere talvolta il volto “buono” di Céline:
quando, nei panni del dottor Destouches, paziente, compassionevole, assisteva i
suoi malati poveri, astenendosi dal chiedere l’onorario.
Tuttavia,
avverte il critico, «Se ciò può spiegare gli inquietanti corollari di un
percorso emotivo dove patriottismo/ suprematismo ariano/ antisemitismo si
saldano, prima che in un’unica ideologia, in un’unica angoscia, naturalmente
ciò non giustifica l’accettazione di quella ideologia». E tanto più se questa
si sposa con un fondo di viltà, con la tendenza a vendicarsi dei torti subiti
con la delazione, con la disponibilità a farsi largo con ogni mezzo: fino a
inserirsi fattivamente nei circoli dei collaborazionisti parigini, tanto da figurare
tra i possibili direttori dell’Office central juif.
Ma
anche questi aspetti personali si risolvono, in Céline, in un campo minato di
tensioni, riconducibili, quasi sempre, alla avversione razziale: a quel livore
misantropo e xenofobo, a quella prospettiva dal basso della marginalità sociale
e della abiezione morale che sembra dar voce al disperato antagonismo delle
classi più reiette e subalterne: al punto che ne risulta una sorta di
controcanto antinazionalistico, di critica antiborghese e anticapitalista che
potrebbe facilmente essere immaginata viatico o prodromo di una prospettiva
progressista.
Ricordo
che lo stesso Lev Trockij, qualche mese dopo l’uscita del Voyage, lo recensì in termini assai elogiativi: («Louis-Ferdinand
Céline est entré dans la grande littérature comme d’autres pénètrent dans leur
propre maison. Homme mûr, muni de
la vaste provision d’observations du médecin et de l’artiste, avec une souveraine
indifférence à l’égard de l’académisme, avec un sens exceptionnel de la vie et
de la langue, Céline a écrit un livre qui demeurera, même s’il en écrit d’autres
et qui soient au niveau de celui-ci»),
colpito dal fatto che «son récit
se déroule toujours très au-dessous du niveau des classes dirigeantes, parmi
les petites gens, fonctionnaires, étudiants, commerçants, artisans et
concierges».[10] Solo a
margine, Trockij sottolineava il tono «sanglante et cauchemardesque» del libro,
la mancanza di «aspiration vers l’avenir», e scriveva: «C’est là le fondement
psychologique du désespoir – un désespoir sincère qui se débat dans son propre
cynisme»; concludendo con una
osservazione che suona come una profezia: «Ou l’artiste s’accommodera des ténèbres,
ou il verra l’aurore».
Ai
tempi, Céline cominciò così ad essere corteggiato da vari intellettuali di
sinistra, che finiranno, tutti, per essere da lui accomunati nel medesimo
disprezzo, ivi compreso Trockij, al
quale Destouches non riserbò alcun trattamento di favore, nonostante l’ampia e
favorevole recensione che il russo aveva riservato al Voyage.
È
che proprio, col comunismo, Céline non aveva nulla a che vedere: e Sanavio,
con acribia e metodo, si impegna a
sgombrare il campo anche da questo equivoco, che, al pari di tanti altri,
sembra rispondere alla “tentazione” di riscattare in qualche modo la statura
ideale di uno scrittore peraltro straordinario nella sua visione universalmente
oppositiva e visceralmente oscura. L’odio, infatti, costituisce la
molla primaria della prosa di Céline, tesa sempre oltre i propri limiti
espressivi; dove l’ingiuria, lo scherno, la bassa insinuazione e la querimonia
non trovano mai né requie né soddisfazione e sono perennemente sospinte a
rinnovarsi e a enfatizzarsi trascinando, come un fiume in piena, ogni barriera
di rispetto umano.
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Una foto giovanile di Louis-Ferdinand Céline
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Sanavio
lo dimostrava esaurientemente già in Virtù dell’odio, evidenziando come astio
e malevolenza siano categorie dinamiche dello spirito per Céline, il quale sosteneva
d’altra parte che proprio dall’odio nasce l’argot. Ma non solo: da questa carica in
putrefazione, osserviamo noi, deriva, oltre all’intrinseca energia della sua
scrittura, anche la petite musique che
egli riesce impartire alla sintassi, con quel suo sincopato ritornare su certe
interiezioni; quel gioco di reticenze e ripetizioni; quell’uso esasperato
dell’allocuzione; e quella insistenza sulla costruzione binaria della frase (su
cui è illuminante il saggio di Spitzer che Sanavio commenta e riproduce in
Appendice al suo libro).
È
una prosa –
ha scritto su queste pagine Mario Lunetta – «reiteratamente
isterica... in perpetua esondazione» che trae alimento da misantropia e sentimenti
negativi tra loro strettamente connessi: da frustrazione personale e
risentimento civile, da nazionalismo piccolo borghese e perfino “bottegaio” e
acceso rancore di classe, da narcisismo individuale e revanchismo razziale.
Nel
cuore di una civiltà ammalata di ipocrisia e di buonismo, la geremiade, l’urlo,
l’insulto di Céline suonavano però come un grido liberatorio, che scardinava le
finzioni e smascherava le belle maniere: per Céline, rimarca Sanavio, «l’argot non era più soltanto un idioma
violento, cifrato, osceno [...] ma il meccanismo di una guerra dove,
stravolgendo le leggi grammaticali e sintattiche del buon francese, venivano
messi in crisi i rapporti di potere, rovesciata la canonica struttura sociale,
l’equilibrio logico della frase sostituito con l’arbitrarietà sintattica
dell’accavallarsi delle passioni, l’odio il collante che sostituiva la solidarietà
nazionale».[11]
Che
ciò scaturisca da un animo esulcerato può suscitare pietà, non connivenza. Ed è
contro questo sospetto, in fondo – il sospetto che si tenda talvolta ad
assolvere lo scrittore per inconsapevole empatia –, che Ancora su Céline trae il suo nutrimento polemico, la sua calda vis indagatoria e la sua convincente
forza espositiva. Come un paladino che non arretri di fronte a nessuna prova,
Sanavio spinge l’indagine fino a illuminare l’ultimo confine, quello oltre il
quale ci siamo noi: «hypocrite[s] lecteur[s]». Se Céline è malato, la sua
malattia è anche la nostra, di uomini carichi di iniquità che, ricorda il
critico, sono inseparabili dalla condizione umana. Non per molti varrà
l’esclamazione «Ferdinand, c’est moi»: non integralmente, si spera. Ma certo
«per la loro “forma” i romanzi di Céline, anche gli abominevoli pamphlet
antisemiti, sono un nostro specchio, riflettono nostre intolleranze, crudeltà,
viltà»,[12]
che non è sano né onesto negare.
L’integrità
morale della critica nasce proprio dall’assunzione di una responsabilità e di
una auto sorveglianza radicali. Anche in questo senso, il saggio di Sanavio ha
il valore di una pregevole lezione di ermeneutica. Per questo, pur se a due anni dalla sua
uscita in libreria, abbiamo voluto oggi recensirlo. Se Marinetti aveva
inventato le “commemorazioni in avanti”, noi, in segno di stima, inauguriamo
qui le “recensioni in differita”.