LETTERATURE MONDO
PIERO SANAVIO
“Ancora su Céline”,
ancora sul razzismo profondo
del dottor Destouches

      
Un nuovo saggio dello scrittore e critico padovano sull’autore di “Viaggio al termine della notte” e “Bagattelle per un massacro”. Dopo “Virtù dell’odio” del 2009, questo libro torna ad indagare le radici psico-familiari, socio-ambientali, storico-politiche dell’iperbolico antisemitismo del narratore francese. La cui eccezionalità, la cui straordinaria prosa (la ‘petite musique’) scaturivano e si alimentavano proprio a partire dal torbido mix di frustrazione personale e risentimento civile, di nazionalismo piccolo borghese e perfino ‘bottegaio’ e acceso rancore di classe, di narcisismo individuale e revanchismo razziale. Un paradosso artistico ed etico che occorre saper riconoscere pienamente.
      




   

 

di Simona Cigliana

 

 

Nel 1940, Bernhard Payr, direttore dell’Amt Schrifttum, iniziò, su ordine dell’Office Rosenberg, organo preposto alla propaganda nei territori occupati, un imponente e sistematico lavoro di schedatura diretto a passare al vaglio dell’ideologia nazionalsocialista tutta la letteratura francese. Il nazionalsocialismo, venuto a «liberare la Francia dai suoi parassiti» e a «rivelarle il comune destino che la unisce alla Germania», si apprestava ad epurare non solo la produzione contemporanea e il milieu intellettuale ma anche alcuni secoli di illustre tradizione. Payr, in linea con le convinzioni dei suoi capi, considerava la Francia  come «la feccia dell’Europa», «un bubbone purulento eternamente in suppurazione», la cui letteratura esalava «puzza di ebraismo, di massoneria, di gaullismo». [1] Si trattava ora di verificare se essa, liberata dalle perniciose influenze del giudeobolscevismo e delle plutocrazie anglosassoni,  potesse esprimere forze vitali capaci di collaborare al progetto della «Nuova Europa» hitleriana.

L’Amt Schrifttum si adoperò dunque per riscrivere la storia letteraria, commissionando la redazione di antologie scolastiche “emendate” e scoraggiando la riproposta di classici di tendenze libertarie. Cercò inoltre di imporre “verità”, modelli, idoli  allineati con l’ideologia nazista e di coinvolgere gli scrittori contemporanei in una azione propagandistica di vasto respiro; sovvenzionò  la pubblicazione e la traduzione degli autori graditi e provvide a mettere all’indice i sospetti. Nelle liste di proscrizione di Payr le opinioni politiche contavano relativamente: vi figurano Georges Simenon e Pierre Loti; scrittori comunisti, come Paul Nizan e Louis Aragon, Paul Éluard e Jean-Paul Sartre; ma anche cattolici come François Mauriac e  Paul Claudel; pacifisti come Romain Rolland e Jean Guéhenno; nazionalisti, monarchici, antiliberali come Charles Maurras, fondatore della  Action Française, come Jacques Bainville e Léon Daudet; nonché un gran  numero di ebrei, da Pierre Bloch a Julien Benda, da Joseph Kessel a André Maurois.  Tra i raccomandati per la pubblicazione e la diffusione, il primo fra tutti è, ovviamente, il Lucien Rebatet di Les Décombres, che Payr giudicava «il più fascista che sia mai apparso in Francia», ma vi si trovano anche convertiti come Alphonse de Chateaubriant o Jacques Doriot; mentre un posto d’onore è riservato a Drieu La Rochelle e a Robert Brasillach, quest’ultimo decisamente, ardentemente e sinceramente schierato, sin dalla prima ora,  in favore delle «grandiose» idee del nazionalsocialismo.

Proprio Brasillach fu uno dei più entusiasti recensori delle Bagatelles pour un massacre, il pamphlet antisemita di Louis-Ferdinand Céline, che l’editore Denoël  aveva pubblicato nel dicembre del ’37.[2]  Brasillach ne scrisse nel marzo del ’38, poco prima che fosse ritirato dalla vendita a seguito del decreto Marchandeau,[3]  salutandolo  come un capolavoro, che esprimeva al meglio i sentimenti della nazione: «Non è possibile che un francese nato francese non legga almeno qualche pagina con un senso di sollievo».[4]  Né era il solo ad apprezzare il  libro: riproposto nella Francia di Vichy, Bagatelles, cardine della “trilogia”  celiniana  contro la razza ebraica, divenne  un grande successo editoriale, uno dei più venduti durante l’occupazione (si parla di circa 75.000 copie in pochi anni).

Ciononostante, il suo autore non compare nell’elenco degli scrittori graditi al regime: Céline  è un personaggio troppo scomodo, sul quale anche Payr e l’Amt Schrifttum dubitano di poter esercitare il controllo. Disturba la misura eccessiva della sua prosa, la deformazione grottesca delle sue argomentazioni, perfino la visceralità delle sue invettive,  le cui radici si intuiscono essere ben a monte di ogni convinzione razionale: tali che, scriverà Brasillach nel ’39, in occasione della pubblicazione de L’école des cadavres: «è evidente che si avrebbe qualche difficoltà a voler discutere sul serio della questione ebraica a partire da simili opinioni». [5]





Céline, infatti, in un delirante accumulo di accuse e risentimenti, finisce per mostrare un’umanità interamente contaminata  dal giudaismo, «vittima felice [...] paralizzata e riconoscente»,  gregge di «coglioni abbrutiti, cornuti, rovinati, fanatizzati da quelle merde».[6] Secondo lui, «gli ariani, soprattutto i francesi, non esistono più». I critici, Poincaré, Victor Serge, Chaplin, Gide, Maupassant, la Camera dei Lords, Montaigne, Einstein, la duchessa di Windsor, il Negus, gli azionisti di Wall Street, Bergson, i membri della Società delle Nazioni, Stendhal, Proust, i russi, i fabbricanti di alcool, i funzionari della City londinese, Madame Curie, i pederasti, la redazione di «Paris-Soir», la Paramount sono tutti ebrei o sostenitori della strisciante congiura ebraica finalizzata all’annichilimento degli ariani.

La sovrabbondanza è tale che anche a distanza di decenni la stessa critica, in imbarazzo di fronte alla natura eccessiva delle esternazioni di Céline, si è mostrata spesso incline a minimizzare la portata del suo odio antisemita, considerandolo una finzione provocatoria; o il portato di una personalità sdoppiata e schizofrenica; o un mero attributo dell’io narrante e letterario; e  addirittura, in qualche caso, ha finito per assolverlo come una enorme  parodia – una sorta di «provocazione anarchica» da parte di chi, senza crederci davvero, «aveva scelto l’antisemitismo per sfuggire all’ufficialità» –, insistendo sulla «natura non letterale, essenzialmente metaforica e violentemente iperbolica, dell’antisemitismo» celiniano.[7]

 

Convinto che non si possa e non si debba confondere il piano della moralità con quello della riuscita artistica, Piero Sanavio, poco dopo aver pubblicato un fortunato e penetrante saggio (Virtù dell’odio, Louis-Ferdinand Céline, Rimini, Raffaelli Editore, 2009), e già intrinseco dell’autore francese dal 1965, è tornato ad interrogarsi su di lui con una nuova monografia, che si prospetta come un viaggio, o meglio: come un’allegorica catabasi entro l’opera e la psicologia celiniana. Le ricerche e i saggi sugli scrittori “maledetti” del Novecento – su Pound, su Gombrwicz – e la grande esperienza di antropologo, maturata anche nelle vesti di giornalista e di diplomatico ai quattro angoli del mondo, hanno ben allenato Sanavio a scrutare nelle pieghe nascoste dell’anima umana. È perciò con scaltriti strumenti che egli indaga sul “caso Céline”, mosso anche da una sorta di mal dissimulata indignazione per le mezze verità, le velate giustificazioni, gli implausibili alibi e le false scappatoie che critici e biografi hanno imbastito attorno all’altare del grande scrittore. Ancora su Céline (Rimini, Raffaelli Editore, 2012, pp. 157, € 18,00) sembra voler rimettere a posto i termini di una sempre mal posta questione e, nello stesso tempo, voler chiudere i conti con una ossessione personale.

Sanavio non si capacita che ancor oggi gli esegeti si trovino in imbarazzo nell’attribuire a Céline le sue responsabilità storiche ed umane: quasi che l’eccellenza di questo autore «fondamentale per chi voglia capire il secolo trascorso», non possa tollerare il peso dell’abominio, di una tara ideologico-emotiva che, se da una parte costituisce una aberrazione etica, dall’altra si rivela motore e tinta qualitativa della sua scrittura. A suo ben fondato parere, «il razzismo antiebraico di Céline, filiazione diretta del suo suprematismo ariano, è certamente argomento ineludibile per chiunque si avvicini alla sua opera e appare quanto mai problematico separarne la scrittura dalla ideologia».[8]

Ma cosa spinge Sanavio a tornare su un argomento già affrontato e disaminato con tanta ricchezza di fonti  e profondità di analisi? Lo scrupolo – egli dice di non aver insistito «abbastanza sulle basi ideologiche, e le contiguità politiche, del razzismo dello scrittore», quasi considerando scontate alcune evidenze storiche e biografiche. Non condividiamo questi dubbi – sembrandoci Virtù dell’odio  significativo anche su questo piano. E tuttavia, Ancora su Céline riesce a scavare ulteriormente nel magma di finzioni e proiezioni, tra autobiografismo e miserabilismo, di cui si nutre l’alter ego letterario di Céline, completando sullo sfondo il ritratto – le sembianze contraffatte – di un paese – la Francia – largamente pervaso dal sospetto e dall’odio antiebraico ben prima dell’arrivo delle armate tedesche: non bastasse a riprova il summenzionato decreto Marchandeau, sarà istruttivo rileggere qualcuno degli articoli fioriti attorno alle polemiche riguardanti personaggi pubblici quali Alfred Dreyfus o Léon Blum; oppure, aggiungiamo noi, la cronaca delle violente manifestazioni antisemite organizzate nel febbraio 1934, in seguito alla deflagrazione dell’affaire Stavisky: l’avventuriero, speculatore e bancarottiere ebreo che, grazie ai suoi appoggi politici, aveva causato la rovina economica di centinaia di francesi – e le cui vicende diedero la stura ad una campagna stampa imbastita sui peggiori topoi antiebraici.

L’antisemitismo appartiene inoltre ”costituzionalmente” al contesto famigliare e sociale in cui Destouches era cresciuto: quello dei piccoli commercianti parigini, messi in difficoltà dalla agguerrita concorrenza dei negozianti ebrei e dalla politica delle banche (spesso anch’esse in mano a capitale ebraico). Riflessioni e commenti riconducibili a tale retroterra sono attestati dall’epistolario sin dal 1916, dove compaiono frammisti ad osservazioni di ordine quotidiano, come facenti parte di un bagaglio personale acquisito. Questo “figlio di bottegai” era convinto in fondo, come il padre, che «chi ha fatto di più per i piccoli commercianti... è stato Hitler», molto più degli esponenti della sinistra.





La personalità dello scrittore era inoltre segnata da dolorose esperienze. Scrutando nella sua intimità, Sanavio si interroga sui difficili rapporti con una madre succube e un padre violento, sulle ferite emotive del Céline fanciullo e adolescente, sul suo amaro vissuto, documentando quanto, sotto al cinismo di certe sue considerazioni adulte, vi sia una zona ulcerata, tra sofferenza e angoscia.

Gli indizi di disagio dimostrano in controluce che l’arroganza, la truculenza, la demonizzazione dell’ebreo non erano in fondo che «patetiche maschere per fragilità psicologiche e insicurezze sociali».[9] Solo la solidarietà di classe – o forse il senso di una raggiunta, relativa, superiorità – riuscivano a far emergere talvolta il volto “buono” di Céline: quando, nei panni del dottor Destouches, paziente, compassionevole, assisteva i suoi malati poveri, astenendosi dal chiedere l’onorario.

Tuttavia, avverte il critico, «Se ciò può spiegare gli inquietanti corollari di un percorso emotivo dove patriottismo/ suprematismo ariano/ antisemitismo si saldano, prima che in un’unica ideologia, in un’unica angoscia, naturalmente ciò non giustifica l’accettazione di quella ideologia». E tanto più se questa si sposa con un fondo di viltà, con la tendenza a vendicarsi dei torti subiti con la delazione, con la disponibilità a farsi largo con ogni mezzo: fino a inserirsi fattivamente nei circoli dei collaborazionisti parigini, tanto da figurare tra i possibili direttori dell’Office central juif. 

Ma anche questi aspetti personali si risolvono, in Céline, in un campo minato di tensioni, riconducibili, quasi sempre, alla avversione razziale: a quel livore misantropo e xenofobo, a quella prospettiva dal basso della marginalità sociale e della abiezione morale che sembra dar voce al disperato antagonismo delle classi più reiette e subalterne: al punto che ne risulta una sorta di controcanto antinazionalistico, di critica antiborghese e anticapitalista che potrebbe facilmente essere immaginata viatico o prodromo di una prospettiva progressista.

Ricordo che lo stesso Lev Trockij, qualche mese dopo l’uscita del Voyage, lo recensì in termini assai elogiativi: («Louis-Ferdinand Céline est entré dans la grande littérature comme d’autres pénètrent dans leur propre maison. Homme mûr, muni de la vaste provision d’observations du médecin et de l’artiste, avec une souveraine indifférence à l’égard de l’académisme, avec un sens exceptionnel de la vie et de la langue, Céline a écrit un livre qui demeurera, même s’il en écrit d’autres et qui soient au niveau de celui-ci»),  colpito dal fatto che  «son récit se déroule toujours très au-dessous du niveau des classes dirigeantes, parmi les petites gens, fonctionnaires, étudiants, commerçants, artisans et concierges».[10] Solo a margine, Trockij sottolineava il tono «sanglante et cauchemardesque» del libro, la mancanza di «aspiration vers l’avenir», e scriveva: «C’est là le fondement psychologique du désespoir un désespoir sincère qui se débat dans son propre cynisme»;  concludendo con una osservazione che suona come una profezia: «Ou l’artiste s’accommodera des ténèbres, ou il verra l’aurore».

Ai tempi, Céline cominciò così ad essere corteggiato da vari intellettuali di sinistra, che finiranno, tutti, per essere da lui accomunati nel medesimo disprezzo,  ivi compreso Trockij, al quale Destouches non riserbò alcun trattamento di favore, nonostante l’ampia e favorevole recensione che il russo aveva riservato al Voyage.

È che proprio, col comunismo, Céline non aveva nulla a che vedere: e Sanavio, con  acribia e metodo, si impegna a sgombrare il campo anche da questo equivoco, che, al pari di tanti altri, sembra rispondere alla “tentazione” di riscattare in qualche modo la statura ideale di uno scrittore peraltro straordinario nella sua visione universalmente oppositiva e visceralmente oscura. L’odio, infatti, costituisce la molla primaria della prosa di Céline, tesa sempre oltre i propri limiti espressivi; dove l’ingiuria, lo scherno, la bassa insinuazione e la querimonia non trovano mai né requie né soddisfazione e sono perennemente sospinte a rinnovarsi e a enfatizzarsi trascinando, come un fiume in piena, ogni barriera di rispetto umano.





Una foto giovanile di Louis-Ferdinand Céline


Sanavio lo  dimostrava esaurientemente già in Virtù dell’odio, evidenziando come astio e malevolenza siano categorie dinamiche dello spirito per Céline, il quale sosteneva d’altra parte che proprio dall’odio nasce l’argot.  Ma non solo: da questa carica in putrefazione, osserviamo noi, deriva, oltre all’intrinseca energia della sua scrittura, anche la petite musique che egli riesce impartire alla sintassi, con quel suo sincopato ritornare su certe interiezioni; quel gioco di reticenze e ripetizioni; quell’uso esasperato dell’allocuzione; e quella insistenza sulla costruzione binaria della frase (su cui è illuminante il saggio di Spitzer che Sanavio commenta e riproduce in Appendice al suo libro).

È una prosa – ha scritto su queste pagine Mario Lunetta «reiteratamente isterica... in perpetua esondazione» che trae alimento da misantropia e sentimenti negativi tra loro strettamente connessi: da frustrazione personale e risentimento civile, da nazionalismo piccolo borghese e perfino “bottegaio” e acceso rancore di classe, da narcisismo individuale e revanchismo razziale.

Nel cuore di una civiltà ammalata di ipocrisia e di buonismo, la geremiade, l’urlo, l’insulto di Céline suonavano però come un grido liberatorio, che scardinava le finzioni e smascherava le belle maniere: per Céline, rimarca Sanavio, «l’argot non era più soltanto un idioma violento, cifrato, osceno [...] ma il meccanismo di una guerra dove, stravolgendo le leggi grammaticali e sintattiche del buon francese, venivano messi in crisi i rapporti di potere, rovesciata la canonica struttura sociale, l’equilibrio logico della frase sostituito con l’arbitrarietà sintattica dell’accavallarsi delle passioni, l’odio il collante che sostituiva la solidarietà nazionale».[11]    

Che ciò scaturisca da un animo esulcerato può suscitare pietà, non connivenza. Ed è contro questo sospetto, in fondo – il sospetto che si tenda talvolta ad assolvere lo scrittore per inconsapevole empatia –, che Ancora su Céline trae il suo nutrimento polemico, la sua calda vis indagatoria e la sua convincente forza espositiva. Come un paladino che non arretri di fronte a nessuna prova, Sanavio spinge l’indagine fino a illuminare l’ultimo confine, quello oltre il quale ci siamo noi: «hypocrite[s] lecteur[s]». Se Céline è malato, la sua malattia è anche la nostra, di uomini carichi di iniquità che, ricorda il critico, sono inseparabili dalla condizione umana. Non per molti varrà l’esclamazione «Ferdinand, c’est moi»: non integralmente, si spera. Ma certo «per la loro “forma” i romanzi di Céline, anche gli abominevoli pamphlet antisemiti, sono un nostro specchio, riflettono nostre intolleranze, crudeltà, viltà»,[12] che non è sano né onesto negare.

L’integrità morale della critica nasce proprio dall’assunzione di una responsabilità e di una auto sorveglianza radicali. Anche in questo senso, il saggio di Sanavio ha il valore di una pregevole lezione di ermeneutica.  Per questo, pur se a due anni dalla sua uscita in libreria, abbiamo voluto oggi recensirlo. Se Marinetti aveva inventato le “commemorazioni in avanti”, noi, in segno di stima, inauguriamo qui le “recensioni in differita”. 

 

                                                                                 

 

 

 

 

 



[1] B.Payr, cit in P.Sipriot, Robert Brasillac et la generation perdue, Principato di Monaco, Éd.du Rocher, 1987.

[2] Mi permetto di rimandare, a questo proposito, a S.Cigliana, Una letteratura per l’ecatombe: Céline, Brasillach, Drieu de la Rochelle, in «Il Cavallo di Troia», n.12, autunno 1990, pp.5-40, ancora valido, nonostante alcuni incommendevoli errori di stampa.

[3]  Il decreto legge Marchandeau (dal nome dell’allora Ministro della Giustizia) era stato voluto dal governo Deladier per porre un freno all’ondata di articoli virulentemente antisemiti dilaganti  da tempo sulla stampa francese.

[4] R.Brasillach, Bagatelles pour un massacre, in «Je suis partout», 4 mars 1938.

[5] B. (R.), in «Je suis partout», 17 février 1939.

[6] L.-F. Céline, Bagatelle per un massacro, a c. di F.Leonetti, Caserta, Aurora ed., s.d., p. 55.

[7] Così G.Raboni nei locc. citt. alla p.14 del libro Ancora su Céline di P.Sanavio. 

[8] P.Sanavio, Ancora su Céline, cit. p.10.

[9] Ibid., p. 55.

[10] L. Trockij, Céline et Poincaré, (mai 1933), in Morte a credito, con un saggio critico di Carlo Bo; trad.it. di G. Caproni , Garzanti,, Milano, 1964.

[11] Ancora su Céline, p.94.

[12] Ivi, p.122.




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