INTERVISTE
CITTO MASELLI
Fare cinema per chiedersi
quale civiltà vogliamo


  
Una stimolante conversazione con l’84enne regista romano che rievoca il suo rigoroso apprendistato con Antonioni e Visconti. E poi ripercorre la sua lunga carriera che, dopo alcuni film ‘moraviani’ come “La donna del giorno” (1957), “I delfini” (1960) e “Gli indifferenti” (1964), approccia il il film politico con “Lettera aperta a un giornale della sera” (1970) e “Il sospetto (1975)”. Alternando poi pellicole più ‘intimiste’ come “Codice privato” (1988) e “Il segreto” (1990), e apologhi sociali sul presente come “Cronache del terzo millennio” (1996) e “Frammenti di Novecento” (2004). Per poi tornare con “Civico 0” (2007) alla vena documentaristica degli esordi.
  



  

 

 

di Alessandro Ticozzi





Citto Maselli


Dopo essere stato assistente di Antonioni e Visconti ed aver girato alcuni documentari, lei realizzò con Cesare Zavattini la Storia di Caterina per il film-inchiesta Amore in città (1953) ed esordì nel lungometraggio a soggetto con Gli sbandati (1955): cosa ricorda di questi suoi inizi?

 

Io, per quanto riguarda l’immagine, ho imparato tutto da Antonioni: a lui bastava per esempio un rametto d’albero che entrava in un angolino nel fondo di una determinata inquadratura del documentario L’amorosa menzogna che niente, stop, si doveva cambiare tutto: malgrado che quel luogo di paesaggio urbano e quella particolarissima luce di alba l’avessimo individuata in mesi di sopralluoghi e di ricerche. Così anche accadeva che Michelangelo per una semplice panoramica a seguire il passaggio dell’attrice richiedesse il carrello che – con i suoi binari, il camioncino per il trasporto e la presenza di un macchinista per azionarlo bene – non era mai previsto per la lavorazione dei documentari di allora. Ma il carrello serviva a volte anche solo per rendere perfetto il punto di vista – e dunque l’inquadratura – per lo sfondo di palazzi e strade che diventava protagonista quando il personaggio usciva di campo. Possono sembrare sciocchezze, ma sono punti fermi che sono entrati a far parte del mio dna di regista.    

Per quello che riguarda invece la recitazione e i tanti problemi che costituiscono la realtà complessa delle riprese di un film devo tutto a Visconti da cui ebbi infinite e determinanti “lezioni” che riguardavano l’etica generale di un regista, cioè di un individuo che ha la massima responsabilità in un’attività e in un settore che sono  specificamente creativi. Non è un caso che tutti quelli che hanno lavorato con Visconti si riconoscono (ci riconosciamo) per questo. A me capita perfino con Zeffirelli da cui mi separano miliardi di altre cose.





Dopo La donna del giorno (1957), I delfini (1960) e Gli indifferenti (1964) da Moravia tre film cui faceva da sfondo l’Italia del benessere economico  cosa la spinse a tornare al cinema politico con Lettera aperta a un giornale della sera (1970) e Il sospetto (1975)?

 

Io credo che anche quei film “moraviani” fossero in realtà fortemente politici (esattamente come il mio successivo Storia d’amore), ma volendo accettare il suo schema io credo che in quel periodo fu in qualche modo determinante quel movimento studentesco che aveva rimesso in gioco e in primo piano alcuni principi elementari del marxismo e del comunismo come lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, così come il naturale e necessario “impegno” di un intellettuale marxista. Non che la vita dentro il PCI ci avesse allontanato da tutto ciò, ma è anche un po’ vero che in quella fase così difficile della sinistra nella vita nazionale l’insieme delle necessità contingenti o dei “terreni di scontro più avanzati” avevano finito in qualche modo per diventare, a volte, qualcosa di ineffabilmente prioritario nella nostra vita di militanti. Tanto che molti compagni rimasero rigorosamente e in parte “sdegnosamente” ostili al movimento studentesco. Non fu il caso mio che invece fui tra quelli che ne colsero, al di là delle enunciazioni perentorie e francamente inaccettabili, la carica di fondo che era autenticamente rinnovatrice e rivoluzionaria. Tanto che in tutte quelle battaglie “politico-culturali” che seguirono gli anni della contestazione – come ad esempio la riforma di istituzioni pubbliche quali la Biennale di Venezia, la Rai e gli Enti cinematografici di Stato – io lavorai perché la carica contestatrice del M.S. si trasformasse in forza autenticamente riformatrice nella strategia e negli obiettivi politici del PCI. Chi colse fino in fondo questo mio modo di pensare e agire in quegli anni fu l’uomo apparentemente più lontano da tutto ciò e cioè Giorgio Napolitano all’epoca responsabile cultura del Partito. Anche se può apparire presuntuoso da parte mia credo che il mio lavoro con lui contribuì a mantenere il nostro partito su posizioni avanzate, di taglio – in fondo – esattamente “ingraiano”. Considerando che Ingrao in quel periodo – dopo cioè l’undicesimo congresso – rappresentava a tutti gli effetti la sinistra interna del PCI, quella in cui io mi riconoscevo. Straordinario quindi che quella politica per la cultura e in genere verso i “movimenti” portasse la firma di un “anti-ingraiano” per definizione quale era allora Giorgio Napolitano. Forse Napolitano si riferiva a quella lontana anomalia quando nel mio ottantesimo compleanno mi scrisse sul frontespizio di una sua pubblicazione “in ricordo di una lunga amicizia mai oscurata negli anni”.  

Tutto questo per dire come fu che il mio film di quegli anni fosse Lettera aperta a un giornale della sera seguito non a caso da Il sospetto. Due film di un militante fino in fondo del PCI e in questo senso anche con il diritto/dovere di essere fortemente critico (questo distingueva il partito italiano da tutti gli altri partiti comunisti nel mondo occidentale, non a caso avevamo avuto Gramsci).  

 

Dagli anni Ottanta lei si è dedicato a film più intimisti: cos’hanno in comune secondo lei i ritratti femminili di Storia d’amore (1985), Codice privato (1988), Il segreto (1990) e L’alba (1991)?

 

Nella mia testa, e salvo forse Codice privato, sono tutti film a modo loro politicissimi perché sulla condizione femminile.





Una scena da Cronache del terzo millennio (1996)


Da Cronache del terzo millennio (1996) a Il compagno (1999) da Frammenti di Novecento (2004) a Civico 0 (2007), cosa possiamo ritrovare delle costanti della sua opera negli ultimi lavori?

 

Bella domanda. Però lei ha ignorato Le ombre rosse (2009) che è una grande e terribile metafora politica sull’oggi e, prima, Avventura di un fotografo (1983) da Calvino, una sorta di poetico “breviario di estetica” fotografica sotto forma di racconto paradossale di intensa ricerca formale. C’è anche l’unica opera specificamente televisiva che sono le quattro puntate di Tre operai da Carlo Bernari (1978). E poi c’è la regia, i costumi e le scene di una versione molto speciale ma tuttavia anche molto “ortodossa” di un’opera che amo particolarissimamente: Il trovatore di Verdi realizzato nel ’60 per l’apertura di stagione de La Fenice di Venezia. Ci sono,  ancora, due mostre personali di fotografie realizzate con materiali e tecniche “Polaroid grande formato”, una delle quali a Parigi al Museo d’arte moderna del Palais de Tokio presentate da Michelangelo Antonioni e Italo Calvino. 

Per tornare alla sua domanda sulle mie “costanti” c’è forse da sottolineare che con Civico 0 torno al documentario inteso come realismo lirico che fu la intensissima ricerca dei 27 documentari di dieci minuti in bianco e nero che realizzai negli anni Cinquanta e Sessanta e recuperati oggi dall’Istituto Luce. Il film Cronache del terzo millennio, poi, è una sorta di apologo tragico sulla società che la finanza e il capitalismo internazionali vanno a costruire nel nostro pianeta. Anche qui torno a quel discorso su “quale civiltà” che avevo iniziato trasformando in film Gli indifferenti di Moravia. C’è anche, forse, come costante il tentativo di non fermarmi alle cose come ci vengono proposte, ma andare più in profondità, esattamente come feci sulla nascita della Resistenza ne Gli sbandati (il mio primo film, girato a 23 anni con l’aiuto economico e il sostegno morale di Luchino Visconti). Andare insomma più in fondo alle cose, non contentarmi delle risposte più semplici e apparentemente sagge che si danno in genere agli infiniti problemi delle società complesse dell’oggi.

 

Che bilancio trae della sua vita personale e professionale?

 

Per la vita professionale positivo: ho avuto il privilegio di essere cresciuto in una famiglia di intellettuali (Luigi Pirandello è stato il mio padrino di battesimo) e ho avuto il privilegio e la possibilità di poter esprimermi artisticamente e riuscire ad affrontare i temi che più mi stavano a cuore. Anche per la mia vita personale il bilancio è positivo specie da quando ho incontrato una donna straordinaria qual è Stefania Brai, cui devo infinitamente tanto di me.

 

Ha qualche progetto per il futuro?

 

Sì e no, ma è un discorso delicato proprio in questi giorni in cui sto tormentosamente cercando e cercando di scrivere il mio nuovo film.








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