di Alessandra Fagioli
In una città labirintica e
tentacolare quattro personaggi, somiglianti a temi musicali con proprie riprese
e variazioni, si intuiscono, si inseguono, si combinano tra loro secondo la
scansione di un componimento rapsodico in cui lo stile di scrittura diventa
l’anima stessa del racconto. Sono quattro artisti tutti condizionati da una
propria ossessione.
Secondo percorsi paralleli e
incrociati, dopo aver intrapreso opere da singoli o in coppia, si ritrovano a
confrontarsi in un’impresa impossibile: realizzare una grande performance
attraverso i diversi linguaggi, nell’intento di sublimare le proprie forme
ossessive. Ma nessuno sospetta che la sintesi delle arti possa rivelarsi un
contagio delle menti in grado di scatenare gli effetti più imponderabili.
Una riflessione sulla creatività
ispirata dal turbamento, sull’opera d’arte come sfida o riscatto, sulle derive
della menzogna e le trappole dell’invenzione, sui subdoli incanti di sogni e
visioni, in un continuo gioco al rialzo a colpi di delirio e di ingegno.
***
Era completamente nuda. Appesa per i polsi con una corda al braccio di
una gru, oscillava nel vuoto sospinta da un lento movimento rotatorio che la
trasportava come un peso morto sopra un terreno
dissestato da buche e smottamenti nell’aria pungente del mattino. L’altezza da
cui pendeva era più che sufficiente per immaginare di potersi sfracellare al
suolo una volta mollato il gancio che la teneva assicurata all’estremità della
gru, ma non era quello che la preoccupava, in fondo non aveva senso sospenderla
per aria solo per farla schiantare a terra, potevano buttarla da qualsiasi
altezza risparmiandole quella ridicola passerella aerea. Perché era proprio
quella la cosa più umiliante, qualsiasi fine avesse potuto fare, l’essere
sospesa tutta nuda sopra una sorta di cantiere abbandonato da dove nessuno
l’avrebbe potuta osservare la metteva ancora più in imbarazzo, come se esibirla
in assenza di pubblico fosse un maggior sfregio alla sua stessa nudità, nemmeno
ridotta a oggetto di dileggio, ma solo a una beffa inutile ancora più
insultante.
Piuttosto era proprio quel movimento costante della gru in una sorta di
lenta panoramica su una distesa spopolata ad allarmarla davvero. Forse la
stavano portando da qualche parte, in un punto preciso dove si sarebbe fermata,
ma per quanto si sforzasse di sporgersi con la testa per sbirciare sotto di sé
non riusciva a vedere nulla, se non un terreno pieno di detriti e calcinacci
come se stesse sorvolando un’area di lavori in corso. Ogni tanto cercava di
dimenarsi da quella posizione di tortura, con i polsi infiammati dalla stretta
della corda, le braccia sfibrate dal peso del corpo, le gambe ciondolanti come
appendici inanimate, con l’unico risultato di aggravare la situazione
sentendosi ancora più ridicola.
A un tratto però sentì arrestarsi di colpo il braccio della gru e la fune
iniziare a scorrere lentamente verso il basso. La stavano calando con estrema
delicatezza in direzione del suolo, impedendole ogni impatto rovinoso, come se
avesse appena concluso una gita ad alta quota per godere del colpo d’occhio di
tutta la vallata. Ma
premendo il mento sopra il petto per cercare di intravedere tra i seni
inturgiditi dove stesse atterrando, scorse a perpendicolo sotto di sé una
grande cisterna ricolma di un liquido indefinito.
Comprese all’istante che il suo viaggio si sarebbe
concluso là dentro. Ma più che dal panico fu assalita dall’incertezza di non
sapere cosa conteneva il serbatoio sul quale stava scendendo a piombo. Il suo
primo pensiero fu il cemento armato. I detriti, le pietre, il terreno
dissestato, la gru facevano pensare a un cantiere dove erano state demolite
alcune case per costruirne delle altre. La cosa più logica era che fosse
destinata a essere immersa nel cemento ancora liquido per poi rimanere
pietrificata appena si fosse solidificato. Murata viva dentro una sostanza che
sarebbe diventata la sua tomba. Attraversata da un’improvvisa scossa cominciò
prima a dimenarsi, poi a urlare. Scalciò nel vuoto, si torse su se stessa,
buttò indietro la testa e implorò pietà verso un cielo sordo attraversato da
nuvole diafane.
Intanto la corda continuava inesorabile ad allungarsi
verso il basso accorciando sempre più la distanza che la separava dalla
cisterna. In un guizzo disperato, gettando ancora una volta lo sguardo verso terra,
si accorse però che il liquido del serbatoio non era biancastro ma di un colore
opaco, tra il verde bottiglia e il grigio topo, impossibile da attribuire al
cemento armato ma magari a qualche acido potente in grado di sciogliere
all’istante ogni materia. Una tale prospettiva fu sufficiente a strozzarle la
voce in gola e a contrarle i muscoli in una sorta di paralisi fulminea. L’idea
di essere cementificata era senz’altro più allettante rispetto a quella di
essere liquefatta. Almeno l’immersione sarebbe stata indolore e alla fine
avrebbe patito solo un po’ per diventare un fossile. Ma nell’altro caso lo
strazio sarebbe stato atroce e invece di mantenersi integra dentro la pietra
sarebbe svanita nello stesso liquido, nemmeno polvere da disperdere o da conservare,
ma un tutt’uno indistinto di viscido orrore.
Eppure, nei brevi sprazzi di lucidità, non riusciva ancora a capacitarsi
perché era nuda. Che l’avessero immersa nel cemento liquido o in un acido
corrosivo il fatto di essere vestita o meno non avrebbe comportato alcuna
differenza. I vestiti non l’avrebbero certo protetta dalla solidificazione del
cemento, né tanto meno dal dissolvimento nell’acido. E allora perché era nuda
come un verme? Perché appenderla come un’anatra spennata senza offrirla a un pubblico
ludibrio, né sottoporla a qualche tortura in cui avrebbe avuto senso essere
nuda? Quell’ottuso mistero l’agitava ancor più di qualsiasi sorte la stesse
aspettando, le provocava un rigurgito di indignazione, un conato di disappunto,
una sorta di rifiuto logico a quell’assurda situazione. Ma i pochi metri che
ormai le mancavano per raggiungere il liquido della cisterna non le permisero
di indugiare in tanti ragionamenti. Le sarebbe bastato avere coscienza, almeno
un attimo prima della fine, di come sarebbe dovuta morire, visto che il perché
non riusciva proprio a immaginarlo.
Ma proprio nell’ultimo tratto avvertì che la sua discesa stava
rallentando sempre di più, fino a diventare quasi impercettibile, e per un
attimo sperò che si potesse arrestare del tutto come una grazia insperata
giunta all’ultimo istante. Si irrigidì quasi a voler congelare con l’immobilità
del suo corpo anche il movimento della discesa, eppure a ogni secondo avvertiva
qualche millimetro perso, a ogni minuto una manciata di centimetri, era peggio
di una tortura cinese, avrebbe preferito essere mollata di colpo e farsi un bel
tuffo in qualsiasi sostanza ci fosse là sotto, al diavolo il cemento o l’acido
o qualsiasi dannato elemento, fosse stato pure un combustibile infiammabile che
ne avrebbe fatto una torcia umana, la facessero finita una volta per tutte se
comunque doveva crepare!
Poi però fu assalita da un terribile dubbio, sommò nudità e lentezza e
immaginò che avessero comunque un legame, una sorta di spietata alleanza che
poteva andare molto aldilà di una fine imminente. Quasi d’istinto gettò un
ultimo sguardo sotto di lei e solo allora si accorse che il contenuto del
serbatoio oltre che opaco era anche un po’ denso, quasi gelatinoso, a tratti
persino molle, con sfumature azzurrine e violacee, che potevano trascolorare a
seconda di impercettibili movimenti, come piccole scosse che smuovevano la
superficie facendola quasi pulsare. D’istinto portò le ginocchia al petto più
per ribrezzo che per orrore, non poteva essere un acido, ma nemmeno olio, né
benzina, né catrame, era completamente inodore, ma allora cos’era?
Tutta rattrappita in posizione fetale fu prima presa dallo schifo, poi
dal disgusto, poi dallo stupore, infine dall’incredulità quando iniziò a
distinguere dei tentacoli filamentosi muoversi sotto cappelle pulsanti, un
groviglio di appendici contorte soffocate da corpi rotondi, piccoli e grandi,
lisci e rugosi, appiccicati a ventosa l’uno all’altro come a formare una trama
vischiosa, dal disegno osceno, quasi sinistro. E solo un attimo prima di
toccare con la punta del piede quella superficie melmosa si rese conto di stare
sprofondando in un immenso concentrato di meduse.
Al primo contatto sentì una scossa che dal piede salì fino al ginocchio,
seguita da un’altra che le indolenzì tutto il polpaccio, poi un bruciore al
tallone e alla caviglia che si erano appena immersi nella sostanza, ancora una
scarica sull’altro piede come se avesse toccato la corrente, seguita da un
altro bruciore sotto la pianta e intorno alle dita quasi le avesse immerse nel
fuoco. Ma per quanto cercasse di ritrarsi non riuscì più a trattenere le gambe
che le cedettero di colpo dentro quell’ammasso di celenterati, diventando
ricettori di scariche elettriche che le si propagarono in tutto il corpo.
Urlando come un’isterica iniziò a scalciare in tutte le direzioni torcendosi
con il busto e divincolando la testa, ma più si agitava più offriva superficie
di pelle nuda alle reazioni urticanti delle meduse, che già sacrificate in poco
spazio reagivano a quell’intrusione spurgando liquidi infetti
che al solo contatto ustionavano come brace. Appena arrivò a immergersi il pube
credette di svenire, eppure rimase vigile quel tanto da sentire una fitta
interna che le provocò spasmi convulsi fin dentro le viscere. Ma la discesa
proseguiva inesorabile e come avvolta in una guaina infiammata sentì aderire le
bocche delle meduse sui fianchi, lungo la schiena, intorno all’addome, finché i
tentacoli non le raggiunsero i seni avviluppandosi famelici intorno ai
capezzoli. Ormai quasi in deliquio non aveva più la forza di urlare, né di
agitarsi dentro quella mollezza letale, aveva gli arti paralizzati e ormai
tumescenti per i gonfiori che ovunque erano esplosi come reazione agli spurghi
urticanti. Con un estremo sussulto cercò di tener su la testa quando l’assedio
delle meduse si spinse sotto le ascelle, lungo le spalle, intorno al collo fino
a lambirle il mento e le orecchie, avviluppandola in un abbraccio infernale più
incandescente di un rogo. Quando anche la testa non riuscì più a stare a galla
sprofondando in quell’abisso d’orrore, fu colta da altri spasmi febbrili che le
fecero spalancare d’istinto la bocca in un grido muto, senza più fiato,
offrendo rifugio a una corpulenta medusa che le scivolò in gola per spurgare
placida il suo viscido unguento.
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Meduse - Acquario di Monterey, California (ph. MadGrin)
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Solo allora schizzò di colpo seduta tra le lenzuola umide di sudore,
sputando catarro, annaspando nel buio, alla ricerca di una presa per risalire a
galla, di una via di fuga per sottrarsi al ribrezzo, finché riuscì ad accendere
una lampada scoprendosi allucinata nel letto, discinta come un’ossessa, bagnata
dei suoi stessi umori, atterrita dalla propria immaginazione. Poi, come
risvegliata da un richiamo profondo, ghermì dal comodino dei fogli che teneva
sempre a portata di mano e si mise a buttar giù frammenti cruciali, passaggi
nevralgici, sensazioni remote, tutto quello che le veniva in mente in libera
associazione, per non perdere nemmeno una traccia del caos che l’aveva
travolta. Scriveva con la sinistra e il polso girato verso l’alto per non
sbafare l’inchiostro passandoci sopra col palmo, ma dalla foga non riusciva a
stare dentro i margini del pentagramma, sforava sempre di un’ottava sopra o di
un’ottava sotto la chiave di violino e altrettanto faceva con la chiave di
basso quando passava al pentagramma successivo, ma non invadeva mai lo spazio
tra le due chiavi, attenendosi scrupolosamente a una composizione in parole
anziché in note, sebbene con qualche guizzo più acuto oppure più grave che non
rispettava una perfetta armonia, ma assecondava piuttosto un’improvvisazione
onirica schizzata sugli unici fogli che aveva a disposizione.
Quando all’improvviso squillò il telefono trasalì come fosse stata
sorpresa in flagrante, poi si voltò di scatto e afferrò la cornetta
indispettita che qualcuno la stesse seccando.
- Che cazzo ci stai a fare a casa, Costanza, stiamo aspettando solo te!
- Ma perché... che ore sono?
- Cristo santo, sono le dieci passate, sono ormai tutti sul palco, non
senti che stanno accordando già gli strumenti?
- Scusa Aurelio, ma non mi ero accorta dell’ora... è stata una notte un
po’ turbolenta...
- Me ne frego delle tue notti, puoi fare quello che vuoi, ubriacarti,
drogarti, andare a battere, ma non puoi mancare alle prove generali!
- Ma non dicevo in quel senso... la turbolenza è nel mio sonno...
- Senti, puoi avere tutti gli incubi che vuoi, sprofondare nelle tue
allucinazioni, ma non mi puoi bloccare un’intera orchestra perché non ti svegli
in tempo!
- Va bene, calmati, ora arrivo subito... non sarà mica la fine del mondo!
- Beh sai, potrebbe esserlo quando si hanno due concerti per pianoforte e
orchestra da eseguire in prima nazionale tra un paio di giorni e manca proprio
la pianista...
- D’accordo, mi spiccio... ma, credimi, stavolta l’ho sognata proprio
grossa...
- Non me ne importa un fico secco delle tue paranoie, non devono avere
nulla a che fare col lavoro, intesi?
- Non avranno nulla a che fare col lavoro, ma hanno a che fare con me.
- Allora dissocia la tua persona dal lavoro, i tuoi sogni dalla musica,
lascia quegli assurdi incubi a casa e porta subito qui le tue chiappe sul
seggiolino di questo dannato pianoforte!
- Difficile dissociare... più facile trovare delle consonanze...
- Le uniche consonanze che devi trovare sono quelle dentro l’orchestra,
sbrigati!
- Aurelio?
- Sì?
- C’è mai stato un poema sinfonico composto intorno al tema della medusa?